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Mt 26,14-28,10: Un sì appassionato

Catechesi e condivisione GIM1 Venegono - Aprile 2014

 

Un sì appassionato

Mt 26,14-28,10

  

Nel racconto di Matteo focalizziamo l'attenzione su due momenti significativi, che si corrispondono:

 
  1. la preghiera di Gesù nell'orto degli Ulivi
  2. e il suo grido desolato sulla croce.
  3.   

1) Matteo descrive anzitutto la "passione interiore" di Gesù. Schiacciato dall'angoscia e da una tristezza mortale, Gesù la confida al Padre nel suo dialogo solitario con Lui, mentre i discepoli dormono: "Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice!...". In questa preghiera Gesù manifesta la consapevolezza del proprio rapporto filiale con Dio. Se Dio è suo padre, perché non lo sottrae alla prova? Ma subito scatta la fiducia e l'abbandono senza riserve:"Però non come voglio io, ma come vuoi tu!".Gesù chiede la liberazione da questa prova, ma solo se ciò è compatibile col disegno del Padre:"... se è possibile...se questo calice non può passare via senza che io lo beva, si compia la tua volontà...". Quest'ultima espressione fa parte del "Padre Nostro", che Gesù aveva insegnato ai discepoli e che ora è vissuto da Lui nella misura più piena ed eroica. Nella preghiera Gesù trova la forza per superare la tentazione, rimanendo fedele a Dio e accettando la Passione. Nella preghiera Gesù viene come trasformato: rinuncia alla sua volontà per abbracciare la volontà del Padre. Si rivela, così, veramente Figlio di Dio, a Lui perfettamente unito nell'amore. Anche a me Gesù chiede di ripetere con Lui al Padre, in ogni circostanza fosse pure drammatica: "Si compia la tua volontà...ciò che tu vuoi anch'io lo voglio!".

 

L'agonia di Gesù continua nella storia della Chiesa, nella storia dell'umanità sofferente, nella storia di milioni di uomini terribilmente provati nel corpo e nello spirito. In ciascuno di essi Gesù -il quale "agonizza sino alla fine del mondo" (Pascal)- continua a implorare la nostra attenzione, continua a ripeterci nel tentativo di scuoterci dal sonno: "Restate qui e vegliate con me...Non siete capaci di vegliare con me una sola ora?".

Solo Matteo sottolinea il "Vegliate con me". La vigilanza è intesa come comunione con Cristo, come condivisione della sua stessa esperienza di vita. E' difficile cancellare dal nostro animo la scena di Gesù che, in preda a indicibile angoscia, va mendicando un po' di compagnia per la sua solitudine. E gli amici gli hanno negato la loro presenza vigile e amorevole. Gli amici non lo hanno capito, non hanno capito il dramma che Egli viveva. Gli amici dormivano. Quante volte Gesù ci passa accanto implorando un gesto di attenzione, di solidarietà, di amicizia!. E' un nostro fratello povero, bisognoso soprattutto di affetto...E' sempre Lui, Gesù, e noi...restiamo insensibili, continuiamo a dormire, invocando tante scuse e giustificazioni in mille maniere? 

 

2) "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?". Queste parole, le uniche che Matteo -seguendo Marco- pone sulle labbra di Gesù morente, esprimono una desolazione estrema: l'isolamento di Gesù è totale, la sua solitudine è senza misura. Anche il Padre tace e pare abbandonarlo completamente, ritirando la sua presenza.

Gesù rivive il dramma spirituale dell'uomo giusto, oppresso, di cui Dio sembra non ricordarsi, perché non lo protegge (cfr. es. Sal. 22 etc.: Salmo responsoriale).

Un motivo, poi, di particolare sofferenza per Gesù sta nel fatto che la sua "causa" è la "causa" di tutti i poveri a cui si è legato, i quali perdendo Lui perdono la speranza di risolvere la loro situazione. Dio non interviene e sembra, così, smentire, anzi condannare tutto l'impegno di Gesù per i poveri, mostrando che la sua approvazione va ai capi del popolo che lo hanno mandato a morte.

Di più, Gesù vive il dramma unico del "figlio" che si sente abbandonato da colui che egli considerava e chiamava il suo "Abba" (=papà): la sua morte, allora, è vista come la rovina e il fallimento della "causa" stessa di Dio. 

Ma, più profondamente ancora, la ragione ultima espressa nel grido di Gesù dovremmo ricercarla nella sua scelta di spingere la sua solidarietà con gli uomini peccatori fino alle estreme conseguenze. Fino al punto, cioè, di sperimentare, di assaporare l'abisso della lontananza da Dio in cui si trovano gli uomini che sono preda del peccato. Durante l'esistenza terrena essi forse non avvertono, a un livello di coscienza riflessa, questo mostruoso stato di separazione da Dio e quindi di morte. Lui, Gesù, lo ha condiviso e vissuto con tragica lucidità, trasformandolo però in amore. "Mentre si identifica col nostro peccato, "abbandonato" dal Padre, Egli "si abbandona" nelle mani del Padre"(NMI 26). Così Gesù, gridando sulla croce, fa suo il grido di tutti i poveri, sofferenti, oppressi della storia. Fa suo il grido dell'umanità infelice e lo lancia verso Dio. Non un grido di disperazione, ma di sconfinata fiducia. "Il grido di Gesù sulla croce...non tradisce l'angoscia di un disperato, ma la preghiera del Figlio che offre la sua vita al Padre nell'amore, per la salvezza di tutti" (NMI 26).

Gesù in croce appare come il Povero per eccellenza, il quale riassume in sé tutto il dolore che, dall'ingresso del peccato nel mondo, ha travagliato l'umanità. Sulla croce c'è il Dolore: ecco perché ogni uomo che soffre richiama quasi naturalmente il Crocifisso. Ma -ed è paradossalmente l'altra faccia della stessa realtà- sulla croce c'è l'Amore.

"Non i chiodi tennero Gesù sulla croce, ma l'amore" (Santa Caterina da Siena).

 

Cosi Gesù trasforma la sua passione in dono, rende le sue sofferenze e la sua morte occasione del dono totale di sé. Dà il suo Corpo e il suo Sangue per la salvezza di tutti gli uomini , ordinando anche di ripetere questo gesto, che fissa in anticipo l'orienta­ mento di tutta la sua passione.

Inoltre egli accetta la solidarietà più completa con le persone più provate del mondo. Accetta non soltanto un destino umano comune, ma un destino umano pieno di umiliazioni e di sofferenze. Come dice Paolo, diventa simile agli uomini, appare in forma umana per umiliare se stesso, sino alla morte. Accetta la sorte delle persone falsamente accusate, ingiustamente condannate, delle persone che sono torturate e che devono morire come malfattori . Questo è l'aspetto di solidarietà che Gesù mostra nella sua passione.

Ormai nessun uomo può trovarsi in situazioni del genere, nessun uomo può essere condannato e giustiziato senza avere al suo fianco Gesù crocifisso, Gesù che offre la sua vita in remissione dei peccati e per l 'alleanza, ossia per ristabilire l'unione profonda tra gli uomini e il Padre celeste. Non ci può essere una solidarietà umana più grande di questa.

D'altra parte, Gesù sa che questa accettazione della solidarietà umana non avrà un risultato negativo; sa che la forza di Dio tra­ sformerà la passione in un cammino verso la risurrezione. Ma sa anche di dover accettare tale cammino. Quando viene interrogato dal sommo sacerdote sulla sua identità: «Ti scongiuro, per il Dio vivente, perché ci dica se tu sei il Cristo, il Figlio di Dio», risponde: «Tu l'hai detto; anzi, io vi dico: d'ora innanzi vedrete il Figlio dell'uomo seduto alla destra di Dio, e venire sulle nubi del cielo». Gesù sa che la sua passione -questa solidarietà completa con noi, questa docilità perfetta alla volontà del Padre -è la via verso la risurrezione e la glorificazione.

Essa non è soltanto la via verso la sua risurrezione personale , ma è anche il modo di ricostruire il tempio di Dio in tre giorni. L'unica accusa che il Vangelo riferisce contro Gesù è quella di due falsi testimoni che affermano: «Costui ha dichiarato: Posso di­ struggere il tempio di Dio e ricostruirlo in tre giorni». Questa è un 'accusa falsa. Gesù non ha mai detto questo, ma -come leggiamo nel Vangelo di Giovanni - ha detto ai giudei: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» (Gv 2, 19). Pertanto, chi distrugge il tempio non è Gesù, ma i suoi avversari. Tuttavia Gesù in questo evento straordinario fa risorgere il santuario di Dio, cioè crea un nuovo santuario.

Questo nuovo santuario è la sua umanità glorificata , santificata, la sua umanità che diventa per noi il luogo in cui incontriamo Dio, il luogo in cui siamo uniti intimamente a lui. Grazie alla passio­ ne di Gesù, tutte le nostre prove diventano occasioni di unione filiale con Dio.

Perciò possiamo contemplare la passione di Gesù con un sen­ so profondo di ringraziamento, e nello stesso tempo con commozione, perché essa è veramente un evento sconvolgente. Vedere Gesù, cioè una persona così generosa che si è dedicata al servi­ zio di Dio e al servizio dei fratelli , soffrire tanto , essere così in­ giustamente condannato e giustiziato è per noi qualcosa di sconvolgente. Ma nello stesso tempo, poiché in tutti questi eventi si manifesta l'amore di Gesù per il Padre e per noi , non possiamo che ringraziare il Signore per questo amore. Paolo dice: «Questa vita che io vivo nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). Gesù ha consegnato se stesso alle sofferenze della passione e della morte per salvare ciascuno di noi.

 

Sabato scorso ho accompagnato alcuni parrocchiani di Venegono a un pellegrinaggio a Limone sul Garda, alla casa di San Daniele Comboni. Per visitare i luoghi caratteristici della casa, ci siamo divisi in gruppi. Mentre aspettavo il nostro turno per poter entrare nel percorso multimediale, sono entrato nella cappellina e lì c’è un bel crocifisso, appeso al muro. Pensando alla vita di Comboni, a quella di tanti missionari e anche alla mia, mi sono detto che in effetti la croce non ci mette in una posizione statica. Davanti ad essa siamo chiamati a metterci in movimento, a percorrere quelle strade che ci portano ad incontrare in Gesù Cristo ogni fratello e sorella che condivide con noi il destino dell’umanità.

Di fronte al Crocifisso, Comboni ci dice di non restare col “collo storto”, in qualche forma di pietismo. Gesù in croce è, come abbiamo visto, sorgente d’amore e per questo nelle regole di vita dei suoi missionari, Comboni raccomanda: “… tener sempre gli occhi fissi in Gesù Cristo, amandolo teneramente, e procurando di intendere meglio cosa vuol dire un Dio morto in croce per la salvezza delle anime” (S 2721).

C’è una domanda nel cuore di Comboni: perché Dio ha scelto la strada della croce per salvare l’umanità? Lui è Dio, gli bastava schioccare le dita per salvarci, perché non lo ha fatto? La risposta si trova contemplando il crocifisso.

Allora trasportato egli dall’impeto di quella carità accesa con divina vampa sulla pendice del Golgota, ed uscita dal costato di un Crocifisso, per abbracciare tutta l’umana famiglia, sentì battere più frequenti i palpiti del suo cuore; e una virtù divina parve che lo spingesse a quelle barbare terre, per stringere tra le braccia e dare il bacio di pace e di amore a quegl’infelici suoi fratelli” (S 2742-2743).

Per lui il crocifisso è il segno più grande dell’amore di Dio per tutta l’umanità. La sua missione, la sua vocazione è portare a tutti l’annuncio della salvezza per tutti. Abbracciato dall’amore di Dio, si sente inviato a ridare questo abbraccio ai suoi fratelli e sorelle “più poveri e abbandonati”. Comboni vive la sua missione come continuazione della misericordia di Dio.

Papa Francesco ci ricorda che: “La misericordia è la più grande di tutte le virtù. A tutti deve giungere la consolazione e lo stimolo dell’amore salvifico di Dio, che opera misteriosamente in ogni persona, al di là dei suoi difetti e delle sue cadute”. (EG 44).

 

Questa carità, misericordia, compassione di Dio, fa sentire Comboni figlio amato dal “comun Padre” che si prende cura di lui allo stesso modo che dei suoi fratelli più abbandonati fino alla consegna del suo proprio Figlio; è questa carità che lo trasporta e lo spinge a stringerli tra le braccia e dar loro il bacio di pace e d’amore; lo spinge, cioè, ad assumere la loro storia e il loro dolore divenendone parte e facendo “causa comune con loro”, anche con il rischio della sua vita.

È un incontro con dei fratelli in cui si mostra il volto di Gesù nello sconcertante mistero della sua identificazione con gli esclusi della storia (Mt 25, 42-43). Nei suoi fratelli africani oppressi gli si rivela il volto colpito, dolorante e sfigurato del Crocifisso, che fissa il suo sguardo su di lui e lo chiama ad evangelizzarli e a lavorare per il loro progresso e per la liberazione dalla loro schiavitù. Nello stesso tempo continua a tenere lo sguardo fisso sul Crocifisso, per “capire sempre meglio cosa vuol dire un Dio morto in croce per la salvezza delle anime”.

Nell’esperienza carismatica e spirituale di Comboni, la missione non è una filosofia della vita o un'avventura filantropica causata dai problemi umani degli Africani, ma un'offerta di salvezza, presenza dell'Amore Assoluto, che produce la gioia propria del Regno di Dio, nel costatare che è presenza rigeneratrice dell'uomo oppresso. Il missionario è partecipe di questa gioia, sentendosi amato e inviato da Dio per essere suo strumento in quest'opera di ri-generazione. Far presente in mezzo agli ultimi della terra l'amore rigeneratore di Dio, che sgorga dalla ferita del Cuore di Gesù sempre aperto, ed esperimentare questo stesso amore nella propria vita, è lavorare per l'eternità.

Per tanto, per Comboni lavorare per l'eternità non significa che si dedica alla missione per comprare la felicità eterna per se stesso e per gli africani oppressi, ma che si dedica alla missione aperto alle necessità del mondo nell’ottica di Dio, mirando ad un futuro con speranza di risurrezione, perché sa che le uniche buone sono le mani di Dio, Amore “fontale” e finale di ogni vita umana: abbia successo o insuccesso nella missione, il Padre è sempre con lui ed è l'unico garante del suo Regno. Perciò egli può morire, ma l'opera che il Padre gli ha affidato non morirà.

 

Seguendo i passi Cristo, morto e risorto, ognuno di noi, comincia a esperimentare in se stesso il potere dell’amore misericordioso di Dio, e raggiunge quell’unità interiore, che lo spinge a darsi ai fratelli, per farli partecipi della sua salvezza. Dall’accettazione di sé in Cristo, dall’abbandono nelle mani del Padre, nasce il dono di sé per gli altri in Cristo e come Cristo; nasce l’accettazione di sé per Cristo, per l’opera che Egli è venuto a realizzare, seguendolo nella via della Croce, cioè della fedeltà a Dio per la realizzazione del suo Regno, e diviene così partecipe con Lui nella gioia, per la salvezza del mondo.

 

Per noi Gesù porta nel cuore un sogno di vita, di realizzazione piena, di compimento della nostra umanità che ci è difficile riuscire a immaginare. Solo la Sua discesa in campo, nel campo di questo nostro mondo, ci fa capire questo sbilanciamento affettivo da parte di Dio nei nostri confronti che non ha pari e che comunque Lo ha portato a dire, in modo convinto, a cominciare dai Suoi discepoli, che li considera tutti Suoi amici: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”. 

Attraverso la sua risurrezione, nell’immagine della tomba vuota, della pietra che è stata spostata, il Signore apre anche i nostri sepolcri, ci fa uscire dalle nostre tombe affinché possiamo riconoscere lui come il Signore che da la vita. Attraverso il suo Spirito noi ritorniamo a vivere e a credere nel suo nome.

Il Signore ci viene a liberare portandoci fuori dai nostri sepolcri dentro i quali crediamo di giocare tutta la nostra esistenza. Corriamo il rischio di vivere la nostra vita murati vivi, senza diffondere un briciolo di vita, di speranza e di consolazione. Chi porterà alla gente la vera luce, chi potrà dare loro la vera speranza se non siamo capaci di uscire dai nostri sepolcri?

In quali sepolcri oggi noi viviamo? Penso che viviamo nel sepolcro del nostro egoismo, della nostra indifferenza, del nostro assenteismo dalla vita della gente. È necessario riprenderci in mano la nostra vita. Non lasciamoci rubare la forza missionaria, non lasciamoci rubare la gioia di evangelizzare, non lasciamoci rubare l’ideale dell’amore fraterno, come ci ricorda Papa Francesco, nella sua Esortazione Evangelii Gaudium.

Cosa vuol dire allora evangelizzare? Vuol dire rendere presente nel mondo il Regno di Dio. E che Regno è? È un Regno di giustizia, di pace, di solidarietà, di attenzione all’altro, di sobrietà, di carità, di impegno sociale. Ci ricorda ancora il Papa che una fede autentica implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo, di trasmettere valori. 

Uscire dai nostri sepolcri significa rovesciare la pietra che ci divide da una realtà che non vogliamo affrontare, o che ci sembra più grande delle nostre possibilità. Non possiamo vivere sempre in difesa, sospettando di tutto e di tutti. Qualcuno gioca sulla paura che ci fa mantenere le categorie noi e loro. E allora difendiamoci dalle invasioni barbariche: titoli sui giornali: fame e disperazione: 600 mila alle porte. E un altro risponde: Ci batteremo per difendere le nostre frontiere. Ma potremmo anche chiederci se nei luoghi di provenienza di quei disperati la cooperazione internazionale funzionasse veramente, forse non ci sarebbero tutti questi allarmismi. Solo per citare un caso tra tanti: il Centrafrica. È il quinto intervento militare francese dal 1960, e ogni volta dovrebbe essere quello decisivo, ma poi bisogna ricominciare daccapo. Allora, si va per salvare vite o per cambiare un presidente quando non serve più? È una missione umanitaria o politica?

Qualche giorno fa il superiore generale dei missionari comboniani ha scritto una lettera a nome dell’Istituto ai confratelli che si trovano in Centrafrica e in Sud Sudan. Leggo un paragrafo di questa lettera: Dolore e morte continuano a marcare in modo indelebile il camino della missione. La testimonianza della presenza, dello “stare con” di tutti voi, in questa realtà di violenza irrazionale e ingiustificata ci spinge a riscoprire che San Daniele Comboni continua a amare e a far causa comune con i più poveri e abbandonati dell’Africa oggi. La vostra testimonianza fa diventare la sua presenza viva e attuale.

Siamo anche coscienti degli interessi politici e economici che hanno indotto una crisi profonda, mettendo in opposizione le componenti di una società multietnica e multireligiosa. Ciò ha reso più fragile la convivenza pacifica e fraterna vissuta in tanti anni nel medesimo territorio. La crisi umanitaria che ne è scaturita è senza precedenti. Sappiamo anche che le porte di tante delle nostre parrocchie e case di formazione sono rimaste aperte per accogliere, accompagnare e consolare le migliaia di rifugiati e di profughi. Questo è senza dubbio un aspetto del ministero missionario della “consolazione” di un popolo che vive la ricerca della pace. Condividiamo i rischi e i pericoli che voi vivete, la vostra solidarietà e il vostro coraggio.

È il nostro alla chiamata di Cristo, un sì appassionato di chi si mette, come ci ricorda il Papa, mediante opere e gesti nella vita quotidiana degli altri, toccando la carne sofferente di Cristo nel popolo. Di chi sa offrire la vita intera e giocarla fino al martirio come testimonianza di Gesù Cristo. (EV 24).

E allora, ancora una volta, siamo invitati a uscire fuori per dire a tutti che si ha voglia di ricominciare a vivere una vita nuova non da soli ma in compagnia di Cristo e dei nostri fratelli e sorelle.

Ovunque c'è il rischio di rimanere chiusi nelle nostre belle case, circondate dai muri per proteggere la propria privacy...quasi dei bei sepolcri dove ci trinceriamo per non vedere fuori.

Allora facciamo spazio all'altro, rovesciamo questa maledetta pietra, spalanchiamo i nostri cancelli e andiamo incontro a quel Cristo che ci chiama e ci dice: «Lazzaro, vieni fuori!».

Lo dice a me, invita tutti noi affinché il nostro uscire dai sepolcri sia una vera liberazione del nostro cuore, della nostra mente per far spazio al Suo spirito di vita.

Solo un cuore che ama può capire fino in fondo dove può arrivare il cuore amante di Dio. Ben oltre la morte, con la Sua resurrezione.

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