Mt 4,18-22: Entra in rete con Gesù
Catechesi e condivisione GIM1 Venegono - Novembre 2013
ENTRA IN RETE CON GESÚ (Mt 4,18-22)
GIM1 Venegono - Catechesi e condivisione - Novembre 2013
Gesù è la figura dominante nell'episodio 20, il protagonista assoluto, il soggetto dei verbi principali vedere, dire, chiamare. Tutto è messo in movimento dalla sua parola autorevole. L'unico verbo finito, nel testo originale greco, che ha una posizione chiave e che non descrive un' azione di Gesù è seguirono (vv. 20.22), ma presenta la reazione alla chiamata e qualifica il modello della risposta.
Non sono i quattro fratelli che scelgono Gesù, ma è Gesù che li sceglie. Il testo non è per niente interessato alla psicologia dei personaggi, non vengono date neanche le motivazioni della loro pronta obbedienza, si vuol semplicemente far percepire la potenza della chiamata e la pronta risposta dei chiamati.
• Prima scena
Nella presentazione delle due coppie di fratelli si attribuisce a Simone un ruolo preminente; lo si nomina per primo e, a differenza degli altri, con il nome impostogli da Gesù: Pietro (16,18). Le coppie sono presentate secondo una gradazione che tiene conto del rango delle persone. Simone e Andrea sono colti nell'esercizio del loro mestiere (v. 18): gettano in mare la rete. Gettare e riparare le reti sono attività che caratterizzano i pescatori. Alla stilizzazione dell'autorità eleggente di Gesù (vide) si affianca quella del mestiere dei futuri pescatori di uomini.
La formula introduttiva: disse loro (v. 19), concentra l'attenzione del lettore sulle parole che Gesù sta per pronunciare (in greco abbiamo un presente). Il brano lascia sottinteso il soggetto dell' azione: Gesù.
L'espressione: seguitemi, letteralmente “su, dietro di me”, mette in evidenza il legame con la persona. Il rapporto rabbi-discepolo veniva generalmente definito come un imparare la Legge (Torah)", Qui non è il verbo imparare, ma il verbo seguire a caratterizzare il rapporto Gesù-discepolo. Non esistono nel rabbinismo racconti di vocazione dove la sequela (cf. 9,9: seguimi) abbia il senso di comunione di vita. Gesù non ha impostato la comunità dei suoi discepoli al modo rabbinico; non ha dato vita a una scuola di apprendimento della Legge, ma a un discepolato in cui il rapporto personale, il legame con lui costituiva l'elemento fondante.
L'adesione a Gesù è espressa con una richiesta assoluta e senza condizioni: seguitemi (su, dietro di me). Gesù agisce con piena autorità così come Dio si comportava nella chiamata dei profeti (cf. IRe 19,15-21; lSam 16,lss.).
• Seconda scena
Nella seconda scena (vv. 21-22) resta presupposta la stessa localizzazione della prima: andando oltre, vide altri due fratelli. Anche qui abbiamo lo sguardo eleggente di Gesù. Giacomo si distingue perché è nominato per primo e con il patronimico figlio di Zebedeo. Il narratore indica il nome del padre di Giacomo per distinguerlo da altre persone che potevano portare lo stesso nome. Sottolinea così che si tratta di una chiamata personale, individuale. Anche la seconda coppia viene caratterizzata come una coppia di pescatori; essi stanno riparando le reti. La frase riguardante i pescatori di uomini vale anche per loro.
2. Chiamata
La chiamata di Gesù nella seconda scena è riferita in discorso indiretto; il testo più breve presuppone quello della scena precedente.
3. Sequela
Prima della Pasqua la sequela di Gesù si attua in senso concreto, reale; dopo la Pasqua nel seguire Gesù nella sua comunità, al servizio della sua causa.
I dati storici che emergono da questo doppio racconto di vocazione sono:
- Innanzitutto il fatto della chiamata da parte di Gesù; non sono stati Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni a scegliersi il maestro come facevano i discepoli dei rabbini, ma è stato Gesù a sceglierli e chiamarli. La sua autorità e il rigore della chiamata sono caratteristici di Gesù.
- Il profilo carismatico di Gesù, ciò che univa i discepoli a Gesù non era la Legge né il suo studio, ma lo stesso Gesù e il suo messaggio.
- Il senso missionario della chiamata: la sequela dei discepoli è finalizzata all' annuncio del regno di Dio, alla missione.
pescatore.
Questi due racconti di vocazione illustrano che cosa significhi discepolato. Il discepolato si basa sulla chiamata di Gesù, le parole del quarto evangelista: non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi (Gv 15,16) vanno al cuore della questione. La “chiamata” prende tutto il suo valore e la sua forza dall'autorità di colui che chiama. Gesù non dà alcuna motivazione o spiegazione, non chiede e non tenta di convincere, basta la sua parola sovrana e la sua chiamata si aspetta un' obbedienza senza riserve.
Il discepolato si realizza nel seguire Gesù. L'espressione può essere fatta risalire alla prassi delle scuole rabbiniche, nelle quali gli scolari seguivano rispettosamente il maestro. La novità del discepolato cristiano sta nell' assoluto legame con Gesù senza se e ma. I chiamati non indugiano, si staccano dai legami e dalle sicurezze che sostengono la vita: famiglia, amici, lavoro.
Sequela significa comunione di vita con Gesù. La comunità cristiana di oggi ha bisogno di questo sguardo retrospettivo verso gli inizi storici per imparare da allora. Per sfuggire al pericolo di una fede individuale e spiritualistica può essere utile tenere presente che la vocazione cristiana chiama a una vita comune, la vocazione a coppie vuole sottolineare proprio questa idea.
Dio, quindi, chiama noi, chiama proprio noi che siamo fragili ed incostanti, che siamo sommersi di tante preoccupazioni e agitazioni di questo tempo. Gesù ci invita a VIVERE, non solo a passare per la storia. Gesù ci invita perché crede nella nostra capacità di fare una opzione per Lui. E anche se il compito che ci viene affidato ci sembra così grande ed arduo, non ci dimentichiamo che la nostra forza si trova proprio nella nostra fede. Perché crediamo, ci abbandoniamo, e nell’abbandono fiducioso le nostre povere mani di pescatori sono in grado di assumere questa nuova missione.
Questo il senso profondo della “chiamata”: una vocazione alla conversione e alla evangelizzazione; una vocazione che nasce dall’amore di Cristo e che fruttifica, fecondata e sostenuta dalla preghiera di Lui, termine ultimo di ogni esistenza.
A questo proposito, potremmo associare l'immagine della rete gettata in mare con la rete internet. Penso che nella nostra cultura la parola "rete" richiama più quest'ultima del computer che quella del pescatore.
E già da tempo c'è chi grida all'allarme, denunciandone anche i pericoli. Sto leggendo un libro di Giulietto Chiesa, Invece della catastrofe: perché costruire un’alternativa è ormai indispensabile. C’è un capitolo che s’intitola appunto: Non cadere nella rete, dove dimostra che siamo già diventati succubi di una macchina che sa in anticipo ciò che stiamo facendo, dove siamo appena stati, cosa desideriamo adesso e cosa dovremo desiderare, come reagiremo a un determinato stimolo, per chi voteremo o ciò che “non potremo non decidere”. Pensiamo di utilizzarla ed invece ne siamo noi stessi imprigionati. L'unico modo per "proteggersi" dagli eccessi del Web è usarlo e non esserne usati, usare al meglio la rete, senza caderci dentro!
E' la rete che sono contento di gettare e che non posso chiudere ed evitare. So che non tutti i rapporti saranno fruttuosi e che non tutto è bello e buono, ma non devo giudicare subito ed non devo evitare le situazioni e le persone. Il Regno dei cieli per me abita proprio in questa rete che affronto e che spesso è causa di ansie, di sofferenze, ma anche di gioia e di crescita. Tutto quel che vivo non è programmabile in anticipo, come se potessi prevedere esattamente cosa è buon e cosa è sbagliato ancora prima di viverlo.
La mia vita è gettare con coraggio e con la consapevolezza una rete, e in questa esperienza sono istruito e assistito da Dio che mi aiuta a trovare cose buone anche in mezzo tante cose negative ed inutili.
Tuttavia, non è sempre facile dire sì a Dio, e non tutti riescono ad accettare facilmente il suo progetto, che è, in sostanza, una conversione dalla quale nasce, successivamente, la missione dell’annuncio, una missione che talvolta ci sembra di dover affrontare da soli, ma che in realtà è sostenuta dallo Spirito, che ci aiuta a portarla a compimento.
E a questo proposito, non voglio aprire il capitolo della lamentele, però c’è il rischio di una fuga dalla responsabilità missionaria. Non tanto in termini di adesione di principio (tutti siamo coscienti di essere missionari, in virtù del nostro battesimo), quanto come conseguenza di ciò che questa realtà implica per la nostra vita. È difficile metterci la faccia di fronte a prese di posizione che siamo chiamati a prendere, toccare con mano la difficoltà di essere testimoni di Cristo anche in un ambiente ostile.
Vorrei condividere con voi una riflessione che ho trovato in un altro libro, scritto da Amedeo Cencini, (uno psicoterapeuta, ha scritto vari libri sulla formazione dei candidati alla vita consacrata), il libro si intitola Chiamati per essere inviati. Ad un certo punto, parlando della proposta della vita cristiana, che deve caratterizzare anche il modo, lo stile dell’annuncio del dono della salvezza a tutti, quindi la missione, lui dice: stiamo ancora trasmettendo un cristianesimo innocuo, da salotto, (ricordiamo le parole di Papa Francesco, a proposito di cristiani da salotto) fatto di buone maniere e di meriti personali, di indulgenze private da mettere sul proprio conto, un misto di buonismo esaltante e di rassicurante garantismo, di economie autoreferenziali, di santità ancora troppo individuali, di ripiegamenti devozionali, di percorsi troppo finalizzati e circoscritti all'io e alla sua autorealizzazione...o un cristianesimo ancora troppo poco relazionale, ove la relazione è un accidente, e non ancora il luogo ove si compie il dramma, il dramma della salvezza; o un cristianesimo così figlio di una certa cultura dell'analgesico da essere diventato esso pure un analgesico, e dunque per nulla aperto alla responsabilità faticosa ma pure esaltante della missione ...
E se perdiamo la dimensione “drammatica”, inevitabilmente, rischia di prevalere quella ludica, per cui tutto è preso alla leggera, come cosa facoltativa, se ti va...se pensi che ti faccia bene... o, nel migliore dei casi, quella estetica, come se il cristianesimo fosse solo una esibizione rituale, e il rito più o meno apprezzabile a seconda dei gusti estetici, ovviamente del tutto soggettivi.
Di conseguenza diventa anche un cristianesimo da consumare e da consumare per sé, perfettamente adeguato alla società dei consumi, ove ognuno è allegro fruitore di un prodotto confezionato da altri, va, l'acquista e lo consuma, come un cliente qualsiasi, «soddisfatto o rimborsato », o come uno spettatore di un dramma interpretato da altri che ormai non può più commuoverlo.
Così è molte volte interpretato e vissuto l'essere credenti in Cristo, in modo passivo, infantile e anemico, all'occorrenza rivendicativo e pretenzioso; in tal modo il «consumatore di redenzione» finisce per non apprezzare più il dono e non saperne più il prezzo.
Oggi, c'è un infantilismo spirituale dilagante, con varie forme di fuga dalla responsabilità nei confronti di Dio, degli altri e, in ultima analisi, di se stessi. C'è davvero una pastorale dei sacramenti che finisce per essere ridotta alla logica dell'usa e getta, con sconcertante sproporzione tra superproduzione (rituale) dei beni di salvezza ed effettiva esperienza di salvezza. Quante messe, preghiere, riti, sacramenti...moltiplicati e semplicemente rovesciati addosso al singolo senza che stimolino alcuna coscienza missionaria; quanta grazia e parola di Dio e beni spirituali sequestrati da singoli credenti, individualisti impenitenti; soprattutto quanta mentalità che essere cristiani significhi osservare (certi precetti), non commettere (trasgressioni), celebrare (culti)...per se stessi; e quanto poco siamo capaci di diffondere l'idea che, colui che è salvato dalla croce di Cristo, deve farsi operatore di salvezza secondo un progetto di vita specifico e responsabilizzante.
Quanto poco diamo l'idea che essere amati da Dio non è solo rassicurazione consolante, ma vuol dire essere assunti da lui - non importa se come operai o dirigenti, se alla prima o ultim'ora - a partecipare responsabilmente all'opera della redenzione, ognuno con una sua missione personale da compiere, così personale che se non la compie lui, resterà un vuoto.
Diventare pescatori di uomini, diventare una chiesa che testimonia, diventare un credente che evangelizza, prima di tutto significa amare le persone a cui annunciamo il vangelo. Fare come Gesù ha fatto: guarire, liberare, servire e predicare.
Noi non chiamiamo le persone alla fede per poi ignorarle, emarginarle e giudicarle sulla base si una concezione sentimentale, dottrinale e moralistica delle fede. Non c'è evangelizzazione senza amore. L'evangelizzazione senza amore è come un rapporto occasionale, sfrutta l'altro e lascia vuoti. L'evangelizzazione è una relazione duratura, che ha un progetto di vita e che è fondata sull'amore.
Noi credenti, come singoli e come chiesa, siamo stati chiamati da Gesù ad essere coinvolti personalmente nell'opera di Dio. Questo presuppone la conversione, cioè il porre una nuova priorità, un nuovo orientamento e una nuova direzione alla nostra vita.
È questo coinvolgimento che fa di noi dei pescatori di uomini che, come Gesù, sono impegnati nell’annuncio, nella testimonianza e nel servizio di quanti il Signore chiama a sé. Dimostrando così l'amore eterno di Dio che non guarda ai nostri limiti, alla nostra miseria e al nostro peccato, ma guarda solamente alla grazia che si manifesta gratuitamente nelle vite e nelle vicende umane dei fratelli e delle sorelle che il Signore ci ha posto accanto.
Mettersi in cammino dietro a qualcuno (Gesù), in un cammino di maturazione di fede che dura tutta la vita. Camminare con qualcun altro, apprendendone i comportamenti e gli insegnamenti passo dopo passo: il cristianesimo non è una religione individualistica-spiritualistica.
Per noi è sempre difficile parlare delle proprie reti, o forse addirittura riconoscerle. Sono debolezze personali, come la paura generica di partire lasciando le sicurezze di un ambiente protetto e conosciuto. O la sensazione di non avere l’approvazione degli altri. La partenza pretende un affidarsi totalmente e un mettersi in gioco al 100%, l’unica certezza sono le conoscenze e la maturazione raggiunta fino al quel punto del cammino.
Oltre a quella del pescatore, ci siamo immaginati, per spiegare il ruolo missionario della nostra vita, l’immagine del bagnino. Un bagnino salva le persone (le cerca spinto dall’amore), così i cristiani dovrebbero attraverso la missione della loro vita testimoniare che Gesù è la salvezza (liberare le persone dalla reti) e tutti possiamo essere salvati.
Per essere pescatori bisogna avere delle caratteristiche specifiche: empatia, amore, misericordia. Se non le si ha nel cuore non si può testimoniare nulla. Come posso dire: “Dio ti ama” se io non amo me stessa, Dio e l’altro. Un evangelizzazione senza amore è un come un rapporto occasionale. Non c’è totalità ma il trasporto momentaneo, l’onda emozionale. L’Amore invece è senza condizioni: tutto per tutti in qualsiasi caso. Dio non guarda le nostre debolezze ma la misericordia. Se c’è indifferenza non c’è amore. Nel nostro incontro con l’altro occorre scoprire innanzitutto le cose in comune: desideri, valori, idee…e partire da quelli per costruire ponti di comunione.
Ognuno ha una missione da compiere, un suo modo di testimoniare la fede nel quotidiano. La ricchezza sta proprio nella diversità e molteplicità. Se uno di noi non fa la propria parte perché rimane imprigionato nella propria rete, o per indifferenza, o per rifiuto, la missione non sarà compiuta e rimarrà un vuoto…bisogna liberarci della nostra rete per cadere in quella di Gesù.