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Germina frutti di giustizia

Dalla catechesi del GIM di Bari, una riflessione sul brano del Vangelo Mc 5, 21-43

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La Chiesa ci propone l’incontro di Gesù con due donne. La prima considerata impura a causa di un’emorragia, l’altra una fanciulla di 12 anni appena morta. Negli anni in cui Marco scriveva il suo vangelo, probabilmente gli anni 70, c’era una grande tensione nelle comunità cristiane tra i giudei e pagani convertiti. Alcuni giudei continuavano fedeli all’osservanza delle norme di purezza e, per questo, avevano difficoltà a vivere con i pagani perché pensavano che fossero impuri. La narrazione dei due miracoli di Gesù a favore delle due donne venne quasi come risposta a questo attrito. Marco descrive i due miracoli con immagini assai vive. Il testo è lungo e, detto tra noi, ascoltandolo mi sembra che voglia attrarre la nostra attenzione puntando ai nostri sentimenti, un po’ come le telenovele sudamericane che spesso hanno delle logiche un po’ strane ma sanno farci immedesimare in ciò che i personaggi sentono.

La prima cosa che vorrei sottolineare di questo racconto è l’intreccio delle due storie che, apparentemente, non hanno motivo di stare insieme. Ci sono alcuni elementi però che le uniscono rendendole inseparabili: la ragazza aveva dodici anni, numero che corrisponde alla durata della malattia dell’altra donna (il numero ‘dodici’, lo sappiamo, è anche il numero che rappresenta le dodici tribù di Israele, quindi può indicare tutto il popolo di Israele); Giairo e l’emorroissa si gettano ai piedi di Gesù, segno di adorazione, chiara espressione di fede ed infine il termine ‘figlia’ è adoperato da Gesù  sia per la donna che viene guarita sia per la figlia del capo della sinagoga. L’intreccio poi della storia si fa ancora più intrigante se consideriamo che quando quella bambina è nata, la donna si è ammalata; quando la donna guarisce la bambina muore. Cerchiamo di capire meglio.

Secondo la mentalità dell’epoca, qualsiasi persona che toccasse il sangue o un cadavere era considerata impura e, per questo, le due donne di questo brano erano emarginate, separate dalla loro comunità. Diversamente dai lebbrosi, l’emorroissa ai tempi di Gesù non doveva suonare un campanello e gridare «immonda! immonda!» per avvertire gli altri di non avvicinarsi (Lv 13,45). Una donna che sanguinava era trattata come fonte di impurità (ed anche come persona immonda sia da un punto di vista sociale che legale) per chiunque o qualunque cosa lei toccasse o la sfiorasse, per «sette giorni» o «per tutto il tempo del flusso» (Lv 15, 19-30). In alcune culture africane tradizionali, per esempio, durante il periodo mestruale la donna era costretta a vivere in disparte, in un alloggio di fortuna all’esterno della casa e così ogni mese la sua condizione faceva sapere a tutti che stava mestruando, come se fosse una malattia contagiosa. Non solo, quindi, la donna, che è resa partecipe dell’atto di generare vita, deve soffrire fisicamente (il mestruo per alcune donne è spesso un’esperienza di prolungato e lancinante dolore, con estenuanti mal di testa o emicranie, che dura da tre a sette giorni) ma, in quell’epoca, veniva stigmatizzata e isolata socialmente. Pensiamo alla sorte della nostra protagonista. L’emorroissa soffre un flusso continuo da 12 anni  che nessun medico, sottolinea il vangelo, era riuscito a fermare e che aveva prosciugato non solo il suo fisico ma anche le sue finanze. Una donna nelle sue condizioni era costantemente impura e quindi non poteva avere una vita matrimoniale, né avere figli, né avere una vita sociale, in pratica era socialmente una morta vivente. Marco descrive chiaramente l’afflizione con la parola mástigos (flagello) che sottolinea quanto il trauma sociale e la stigmatizzazione della sua condizione fosse più pesante della malattia in se stessa. La condizione sfavorevole della donna è anche sottolineata dalla contrapposizione con la figura di Giairo. Entrambi cercano la stessa cosa ma l’uomo ha un nome, un ruolo conosciuto (è l’unico capo religioso che nel vangelo di Marco si rivolge a Gesù) mentre della donna non sappiamo nulla, un’ombra nella società. Per Giairo si tratta solo di umiliarsi, per la donna la sfida di distruggere le catene interne di una legge che l’aveva rilegata nel dimenticatoio per 12 anni e la folla che s’innalza come un muro davanti alla sua unica possibilità di ritornare a vivere.

Dall’altra parte una giovane donna, si perché 12 era anche l’età in cui una bambina veniva  ad essere considerata già una donna nella cultura ebraica. Se prima Gesù viene messo a contatto con una donna costretta a vivere come una morta, ora ha dinnanzi una giovane donna senza vita. Sempre seguendo il racconto come se fosse una ‘novela’, possiamo evidenziare come la morte di una giovane desta maggiore interesse nella platea anche perché tutti riconoscono in questi tragici eventi la perdita del proprio tempo, del proprio futuro come se la morte dei giovani fosse l’annuncio della nostra propria morte. ‘La bambina non è morta, dorme!’. La gente sa distinguere quando una persona sta dormendo o quando è morta e si mette a ridere dinnanzi alle parole di Gesù. Questa risata ricorda quella di Sara, sposa di Abramo, quando resta incredula alla promessa di un figlio, al fatto che a Dio nulla è impossibile (Gn 17,17; 18,12-14). Le parole di Gesù avevano un significato molto profondo per le comunità perseguitate al tempo di Marco che ascoltando questo vangelo si sentivano dire a loro stessi: ‘Non è morta! Voi state dormendo! Svegliatevi!’. Gesù richiama alla fede, ‘non temere’: questo è il momento di continuare ad avere fede, perché se perdiamo il senso della morte perdiamo anche il senso della vita. Se interpretiamo la vita come un breve sogno per poi essere uccisi allora questo dio è un dio sadico. Notiamo anche che al capezzale della ragazza sono presenti solo sei persone in tutto, 6 il numero dell’uomo. Il settimo è Gesù, lo Sposo dell’umanità simboleggiata dalla ragazza nell’età del fidanzamento. Gesù, con un gesto che ricorda la liturgia nuziale, prende la mano della ragazza morta per darle la vita e le comanda “svegliati” come nel Cantico (2,7 e 2,10) dove lo sposo chiama la sua sposa.

Potremmo continuare ad evidenziare molti altri dettagli di questo brano ma vorrei sottolineare tre cose.

La primain entrambe le situazioni si guarisce, si recupera la vita attraverso una trasgressione. Gesù prende la mano della bambina cadavere, proibito dal libro del Levitico, e la bimba ritorna in vita; l’emorroissa  tocca il manto di Gesù dovendo mettersi tra la folla da cui doveva, per legge, mantenere una certa distanza e così, trasgredendo, recupera la vita. Dinnanzi a qualsiasi situazione di morte, sia essa scoiale o vitale, il vangelo di oggi sottolinea che la trasgressione alle regole ingiuste è il cammino da perseguire, non importa che questo ci renda contagiati o che ci presenti alla società come ribelli o trasgressivi (riflettiamo su quanto sta succedendo oggi tra gli immigrati africani e le ‘ricche’ società di cui noi facciamo parte, alle discriminazioni di genere, ecc).

La seconda: al centro di questo brano ci sono due donne, una morta secondo i buoni costumi della società e l’altra da una malattia non specificata. Le società in cui viviamo hanno da sempre un target ben preciso, un punto sul quale sempre puntano per scaricare frustrazioni ed ingiustizie: le donne. Il vangelo di oggi ci impone di guardare con attenzione non solo all’emorroissa e alla fanciulla ma alla condizione in cui versano milioni di donne nelle nostre società. Sono loro che, nonostante anni di lotta per l’uguaglianza, sono vittime di femminicidio, di discriminazione nel lavoro, di oggettificazione, di esclusione dentro la società ma anche dentro la nostra chiesa. Avete mai notato che anche il nostro linguaggio liturgico è estremamente maschilista: si prega per gli uomini, per i fratelli,  per i santi, senza contare che si nega una vera partecipazione ai ministeri della chiesa. Vi ricordate poi quanto scrissi sopra: ‘quando quella bambina è nata, la donna si è ammalata; quando la donna guarisce la bambina muore’. Questo brano sembra suggerirci che l’oppressione alle donne sia ciclica e non si voglia spezzare.

La terza: la fede, ossia la fiducia e l’abbandono in Dio, spesso si scopre quando la nostre vite si trovano a un bivio tra la vita e la morte e che non si tratta di un congiunto di idee o pensieri, ma un abbandonarsi alla volontà benigna di Dio. Impressiona vedere oggi cristiani che spendono fiumi di parole, che si lacerano le vesti, che fanno delle tradizioni e dei costumi religiosi il baluardo del loro essere cristiani. Solo chi tocca veramente il fondo sa e riconosce la forza della fede che viene da Gesù.

Non ci resta che ascoltare questo vangelo più volte per renderci conto che la società in cui viveva Gesù ha solo cambiato vesti ma non abitudini. Stavolta però non possiamo accusare il passato. Siamo noi oggi le folle che creano morti viventi e ridono dinnanzi al sogno di un mondo giusto e uguale per tutte/i.

padre Arturo

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