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Quella strana operazione

OrmeGiovani scritto da padre Diego Dalle Carbonare, missionario in Sudan, ispirato dal brano del Vangelo Gv 6,1-15 e pubblicato sul numero di Febbraio 2020 di Nigrizia.

1Dopo questi fatti, Gesù andò all'altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberìade, 2e una grande folla lo seguiva, vedendo i segni che faceva sugli infermi. 3Gesù salì sulla montagna e là si pose a sedere con i suoi discepoli. 4Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei. 5Alzati quindi gli occhi, Gesù vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». 6Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva bene quello che stava per fare. 7Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo». 8Gli disse allora uno dei discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: 9«C'è qui un ragazzo che ha cinque pani d'orzo e due pesci; ma che cos'è questo per tanta gente?». 10Rispose Gesù: «Fateli sedere». C'era molta erba in quel luogo. Si sedettero dunque ed erano circa cinquemila uomini. 11Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li distribuì a quelli che si erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, finché ne vollero. 12E quando furono saziati, disse ai discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». 13Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d'orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato. 14Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, cominciò a dire: «Questi è davvero il profeta che deve venire nel mondo!». 15Ma Gesù, sapendo che stavano per venire a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sulla montagna, tutto solo.

 

Quando qualche anno fa mi trovavo al Cairo per lo studio dell’arabo,
 un mio compagno di corso, un pastore svizzero, mi raccontava di come
 nel suo seminario gli fosse stato insegnato di predicare senza mai 
usare la parola “Dio”. “Perché – mi spiegava – alcune parole più le si
 usa e meno valore hanno”. Verissimo. Quante canzoni inneggiano all’amore, ma alla fine hanno sostituito l’amore come essere sconfitti
 con l’amore come possesso, far prigionieri.



Negli ultimi anni in cui i social hanno invaso la vita privata di noi 
tutti – in ogni continente –, un’altra parola ha perso significato:
 “condividere”. Condividere è diventato un tormentone psico-mediatico
 forse per ora solo superato da “mi piace”, del quale già alcuni studiosi osservano stia creando dipendenza e cambiando il nostro modo
 di ragionare e di comportarci.



“Condividi” così come lo troviamo sulle piattaforme social è una
 parola vuota. Sa di “batti un colpo, così, nel vuoto, giusto per
 affermare che ci sei”. Condividi quindi esisti. Piaci quindi esisti.
 Non importa più chi sia il ricevente della tua condivisione. Anzi, non
 importa più che ci sia un ricevente dall’altra parte dello smart
 screen. L’importante è che ti affermi. Condividi per condividere.
 Getta quello che hai nella pubblica piazza. E buona notte non solo 
alla privacy e al pudore, ma anche alla correttezza di essere sicuro
 di aver qualcosa da condividere – magari anche solo un pensiero, o un
 sorriso, ma qualcosa di valore.



Insomma, abbiamo perso i destinatari della condivisione, e anche
 l’oggetto. Rimaniamo solo noi, solipsistici cliccatori di “condividi”
 anonimi. Che triste.





Il vangelo di Giovanni, al capitolo 6, ci presenta il condividere di 
Gesù Cristo. Tutta un’altra storia. Lui vede la folla. Anche i
 discepoli l’hanno vista. Ma loro vedono nella folla un peso, un
 problema, mentre Gesù vede gente che ha bisogno sia del Pane della
 Parola, che lui ha appena dato (lui che è nato a Betlemme, la “casa
 del Pane”), ma anche del pane quotidiano. Come sempre, è chi ha gli
 occhi puntati su Dio che riesce a vedere il mondo con oggettività. Il
 santo è sempre inculturato, l’unico inculturato davvero.

  

Allora sfida Filippo, il discepolo studiato, quello che sa il greco, 
il cosmopolita del gruppo: “Dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?” E Filippo con tutta la sua saccenza non
 sa guardare più in là del proprio naso. Si ferma ai fatti: “Duecento
 denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa 
riceverne un pezzo”. Interviene allora Andrea, amico della prima ora 
ma anche compaesano di Gesù, probabilmente con tono più mediatore se
 non addirittura ironico (me lo immagino parlare in dialetto, lui il
 pescatore di Cafarnao che parla al falegname di Nazareth): “C’è qui un
ragazzo con cinque pani e due pesci... ma che cos’è questo per tanta
 gente?”



Gesù sorride a questi due discepoli che stanno imparando l’arte di
 rispondere alle domande scomode con domande stupide e dice “Fateli
 sedere”. E qui l’evangelista tira fuori un pennello di verde e li fa
 sedere sull’erba. Mi ha sempre colpito questa nota gentile, tra 
l’altro presente anche nei racconti di Matteo e di Marco. Mi sembra
 una metafora della gentilezza di Dio, che il bene lo fa sempre...
bene. Non come noi che a volte “facciamo la carità” abbassando lo sguardo, storcendo il naso, o – peggio – alzando la voce. No; Dio
 quando dimostra il suo amore ti fa sedere sull’erba verde. Ti fa
 tornare nel giardino della sua presenza. Sedersi con Dio che spezza il
 pane per noi e con noi. Questa è la condivisione. Il resto è 
fariseismo che asservisce i “poveri” a recipienti del nostro
 perbenismo opulento e staccato. 





La cultura sudanese conosce decine e decine di lingue, cucine,
 tradizioni, costumi. Il nostro è un Paese davvero largo. Se c’è una
 cosa, però, che accomuna tutti i sudanesi in modo davvero marcato è
 l’incrollabile e immancabile tendenza a condividere quello che si
 mangia. Quando passi di fronte a qualcuno che sta mangiando, non
 esiste altro saluto che “Faddal”, ovvero “favorisci”. È così
 automatico, che a volte i miei bambini a scuola mi dicono faddal anche
 quando il loro sandwich è finito e non rimane altro che leccarsi le
dita... Ma scherzi a parte, è davvero interessante come di fronte al
 cibo la vita sembri fermarsi: il lavoro, le beghe, le parole vane. Ci
 si ferma e si mangia insieme. In silenzio. E poi si ritorna alle
 attività del giorno. Sembra quasi una liturgia. Noi missionari
 stranieri spesso ce ne stiamo fuori da questa liturgia, più in nome
 dell’efficienza nell’uso del tempo... ma a volte ho come l’impressione 
che facciamo da spettatori alla vita della gente. Spezziamo il Pane, 
ma non il pane. Che sia ora di condividere?

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     P. Diego Dalle Carbonare
     Missionario Comboniano              
     Sudan

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