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OrmeGiovani Novembre 2019

Vivere davvero - Liberare e liberarsi dal muro dell’indifferenza

OrmeGiovani scritto da padre Diego Dalle Carbonare, missionario in Sudan, ispirato dal brano del Vangelo Gv 4,46-54 e pubblicato sul numero di Novembre 2019 di Nigrizia.

46Andò dunque di nuovo a Cana di Galilea, dove aveva cambiato l'acqua in vino. Vi era un funzionario del re, che aveva un figlio malato a Cafàrnao. 47Costui, udito che Gesù era venuto dalla Giudea in Galilea, si recò da lui e gli chiedeva di scendere a guarire suo figlio, perché stava per morire. 48Gesù gli disse: «Se non vedete segni e prodigi, voi non credete». 49Il funzionario del re gli disse: «Signore, scendi prima che il mio bambino muoia». 50Gesù gli rispose: «Va', tuo figlio vive». Quell'uomo credette alla parola che Gesù gli aveva detto e si mise in cammino. 51Proprio mentre scendeva, gli vennero incontro i suoi servi a dirgli: «Tuo figlio vive!». 52Volle sapere da loro a che ora avesse cominciato a star meglio. Gli dissero: «Ieri, un'ora dopo mezzogiorno, la febbre lo ha lasciato». 53Il padre riconobbe che proprio a quell'ora Gesù gli aveva detto: «Tuo figlio vive», e credette lui con tutta la sua famiglia. 54Questo fu il secondo segno, che Gesù fece quando tornò dalla Giudea in Galilea. (Gv 4, 46-54)


Gesù incontra un funzionario del re. Dopo l’incontro con il fariseo di alto rango nel capitolo 3 e la samaritana di cattivo nome ma dal cuore sincero nel capitolo 4, questo incontro sembra porsi all’apice di una progressione da quello che la società considerava “santo” a quello che invece giudicava “peccatore”. Non può non venire alla mente l’incontro con il centurione romano, outsider della salvezza, se non esplicitamente nemico. Ma Gesù non si cura degli approval ratings, e proprio a Cana dove aveva manifestato la sua gloria (cf. 2,11) si gioca la reputazione ed entra in dialogo con questo uomo completamente mondano. Chissà se non esiste qualche quadro fiammingo di questo incontro fra il profeta scalzo e sgualcito ma pieno di luce con il funzionario coperto di pellicce ed ori ma affamato di salvezza...  

Nell’incontro fra questi due personaggi così vicendevolmente estranei, c’è un’altra progressione che l’evangelista fa, parlando del secondo. All’inizio lo chiama “funzionario”; ma appena entra in dialogo con Gesù e si fida (affida?) diventa “uomo”; quando poi ritrova il figlio guarito, è “padre”.
Gesù guarisce il figlio malato, ma ridona identità al padre, che fino ad ora era definito dal ruolo, dalla posizione di privilegio, dal lavoro. Torna ad essere uomo prima, per poi scoprirsi padre. Anche papa Francesco, in un’omelia purtroppo dimenticata che fece ai sacerdoti un Giovedì Santo di qualche anno fa, ammoniva i pastori che spesso dimenticano l’unzione perché oberati dalla funzione. In una Chiesa che funziona da ONG, a volte il rischio è di perdere la propria identità.  

Cosa c’è dietro ad un nome? Qualche cinico obietterà, ma ci sta tanto. Ricordo un giorno un gruppetto di miei studenti di settima (praticamente seconda media), entrare nel mio ufficio al Comboni College. Entrano con il sorriso sulle labbra, ma vedo che uno di loro vuole dirmi qualcosa che gli pesa.
Father – mi dice – ma tu lo sai come mi chiamo io?”
“Certo, Mohammad”.
Lui mi risponde con l’intensità del dodicenne confuso e offeso,“Mohammad chi? Siamo in sette Mohammad in classe. Perché io dovrei chiamarti father se tu non ti ricordi neppure il mio nome­ per intero?”  

Non credo di essermi mai sentito così spiazzato davanti ad un ragazzo di seconda media. Aveva completamente ragione. Il nome è tutto. Lo sapeva bene don Lorenzo Milani. Guarda caso la Lettera ad una professoressa comincia proprio così “Cara signora, lei di me non ricorderà nemmeno il nome. Ne ha bocciati tanti.” Lo sapeva benissimo Paulo Freire, che la parola con cui descriviamo il mondo cambia il mondo. Il primo lavoro di Adamo fu dare un nome alle creature, ovvero dare loro un’identità, un posto. Con il nome si possono anche dare delle etichette, incasellare, magari anche sminuire. Ma se non altro, si evoca alla vita, alla presenza. Il Risorto si fa riconoscere perché chiama per nome la donna che piange: “Maria!”  

Il nome. Nominare e ricordare in arabo sono lo stesso verbo, perché chi trova un nome sulla lingua ha un posto – fosse anche scomodo – nel cuore. Salmo 147 dice che Dio ha un nome per ogni stella del cielo; infatti lui le ha create da artigiano, non con una macchina fotocopiatrice.
Gesù che riesce a perdere tempo per questo signor nessuno, gli ridona il nome. A quante persone sappiamo dare un nome, un posto nella nostra vita? Forse sarebbe interessante contare quante fra le persone che incontriamo ogni giorno affollano il nostro angolo dell’indifferenza. Magari al lavoro o a scuola le vediamo ogni giorno, ma abbiamo scelto che devono rimanere sconosciute. Per chi vive in città sicuramente la cosa sembra naturale, ma è proprio lì che casca l’asino, perché è la città stessa ad essere innaturale: un agglomerato di persone senza nome e di volti senza storia.  

La vita si avvera con l’impegno mio e tuo di disintossicarci dall’indifferenza, con l’impegno di coltivare quella curiosità e immediatezza semplice dei bambini, che non hanno paura di fare il primo passo, di uscire dagli schemi della società, di infrangere le gabbie del protocollo. Fare il primo passo, un saluto, uno stringere la mano, un incontro. E scoprire che fuori dal nostro piccolo recinto non è terra di nessuno, non è “hinc sunt leones”, ma inizia una vita nuova, una vita di incontro. Scriveva Helder Camara che un giorno da lontano aveva visto un animale rovistare nella spazzatura della discarica. Avvicinatosi, aveva riconosciuto un uomo. Avvicinatosi ancora, aveva trovato un fratello.
Buon cammino!  

     P. Diego Dalle Carbonare
     Missionario Comboniano              
     Sudan

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