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Marzo 2015 - UN DONO INATTESO

Mc 14,12-25 - fr. Alberto Parise


UN DONO INATTESO 

Mc 14,12-25

 12Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?». 13Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d'acqua; seguitelo. 14Là dove entrerà, dite al padrone di casa: «Il Maestro dice: Dov'è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?». 15Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi». 16I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua. 17Venuta la sera, egli arrivò con i Dodici. 18Ora, mentre erano a tavola e mangiavano, Gesù disse: «In verità io vi dico: uno di voi, colui che mangia con me, mi tradirà». 19Cominciarono a rattristarsi e a dirgli, uno dopo l'altro: «Sono forse io?». 20Egli disse loro: «Uno dei Dodici, colui che mette con me la mano nel piatto. 21Il Figlio dell'uomo se ne va, come sta scritto di lui; ma guai a quell'uomo, dal quale il Figlio dell'uomo viene tradito! Meglio per quell'uomo se non fosse mai nato!». 22E, mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». 23Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. 24E disse loro: «Questo è il mio sangue dell'alleanza, che è versato per molti. 25In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».

 

Quando oltre vent'anni fa l'istituto per la pastorale sociale venne fondato a Nairobi, una delle idee ispiratrici era quella di portare assieme due tradizioni: quella missionaria, forte della capacità di inserzione, di stare vicino alla gente, di accompagnarla nel cammino di liberazione; e quella della cooperazione allo sviluppo, con il proprio bagaglio metodologico e scientifico. Questo anche per rimediare alle debolezze delle due tradizioni: se da un lato i missionari, mossi dallo spirito di carità e solidarietà spesso rischiavano di generare meccanismi di dipendenza nella gente, dall'altro la cooperazione allo sviluppo rischiava di mancare della spiritualità che dà significato e direzione allo sviluppo umano. Come diceva la mia mentore – un'organizzatrice di comunità con decenni di esperienza sul campo – quando ancora studente di pastorale sociale muovevo i miei primi passi in Africa, arriva prima o poi il momento in cui gli operatori di sviluppo devono fare una scelta: “diventare missionari o mercenari”. La differenza è molto semplice: il dono di sé o l'interesse personale.

 In un ambiente dove la maggioranza della popolazione non ha un lavoro, né mezzi di sussistenza, per sopravvivere bisogna arrangiarsi ed inventarsi qualcosa ogni giorno. Così individui, gruppi e comunità sono costantemente alla ricerca di progetti che possano aiutarli a sbarcare il lunario. Non deve sorprenderci il fatto che il più delle volte questi progetti non vadano a buon fine. Del resto, anche le statistiche di aziende ed imprese ovunque nel mondo ci dicono che due terzi delle start up falliscono entro i primi due anni di vita. Il vedere così tanti gruppi fallire, persi e scoraggiati, ci provoca e sfida ad offrire un accompagnamento gratuito dall'Università, per aiutarli a venire fuori dalle paludi della sfiducia. Recentemente, abbiamo raccolto l'invito di un gruppo di donne di Kibagare, una piccola baraccopoli tra le tante di Nairobi. Con due colleghi kenyani, Paschalia e Dominic, abbiamo cominciato con una fase di inserzione per conoscere la storia e la situazione del progetto. 

Il gruppo, formatosi qualche anno fa, si proponeva di promuovere economicamente i propri membri. Riuscì a farsi assegnare temporaneamente un piccolo lotto per coltivare un orto sperando che con questa attività economica sarebbero riuscite a mantenersi ed a costruirsi una piccola casa di proprietà. L'orto non produsse i frutti sperati, ma altre occasioni arrivarono. Dopo un paio d'anni di attività videro l'opportunità di cominciare un piccolo asilo per i bambini della baraccopoli. Una organizzazione non governativa regalò loro delle lamiere e pali, con i quali costruirono due aule ed un ufficio. Presto la loro attività non passò inosservata e altre donazioni arrivarono: due cisterne per raccogliere l'acqua, del cibo per l'asilo, una stufa per cucinare, banchi e sedie per le classi e dei soldi per pagare gli stipendi delle maestre. 

Gli aiuti non possono però durare per sempre e così quando diminuirono sensibilmente il progetto non riuscì più a sostenersi. Del resto, le famiglie dei 60 bambini dell'asilo non pagavano alcuna retta. Così l'asilo finì per arenarsi, continuando in qualche modo attività ridotte al minimo, ma senza riuscire a dare un servizio significativo. Anche il gruppo stesso cominciò a dividersi e la collaborazione ed impegno dei membri vennero meno.

 Paschalia e Dominic hanno instaurato un dialogo con il gruppo ed hanno cominciato un accompagnamento per facilitarne la crescita e rianimare il progetto. Hanno visto che il gruppo si è messo insieme senza un chiaro sogno condiviso, o motivazioni che andassero al di là dell'interesse o bisogno immediato. Portate assieme da opportunità, le donne non avevano sviluppato una visione comune, né delle strutture trasparenti e regole del gruppo. Con la mancanza di trasparenza, soprattutto sulla gestione dei soldi, presto la cassa del gruppo fu svuotata. Ma, soprattutto, gli atteggiamenti di base, l'economia del prendere anziché quella del dare e donarsi, avevano portato il gruppo in un vicolo cieco.

Con il supporto di Paschalia e Dominic, il gruppo ha cominciato a riflettere sulla propria storia, ad analizzare le ragione delle proprie difficoltà e dell'involuzione del progetto; le hanno aiutate a riscoprire il sogno che si portavano dentro e un nuovo modo di relazionarsi. Alcune donne, con aspettative diverse o non disponibili a contribuire e investire nel gruppo, si sono ritirate. Ma tra quelle rimaste, ne è nato un impegno nuovo, con l'iniziativa di produrre collettivamente del sapone liquido, per aiutare i membri e per pagare la maestra dell'asilo. Il progetto è così ripartito, con le forze del gruppo questa volta. Proprio sul più bello, quando Paschalia e Dominic cominciavano a far aprire I loro occhi sull'importanza di avere uno statuto, delle regole di rendicontazione e responsabilizzazione, la presidente dell'asilo ha estromesso il gruppo dal progetto e lo ha trasformato in un affare di famiglia. 

Il cambiamento del cuore e delle relazioni è il punto cruciale per una autentica transformazione sociale. L'ho sperimentato fortemente molte volte qui a Nairobi. Le vicende del gruppo di Kibagare non sono una rarità. Il vivere in condizioni molto difficili lascia il segno nelle persone e richiede un cammino di crescita, di recupero da esperienze di speranze tradite a caro prezzo. Quando penso a questi casi, mi ritorna spesso in mente un'espisodio che cambiò il mio modo di rapportarmi a queste persone. 

Eravamo all'apertura del forum sociale mondiale del 2007. Arrivammo a Uhuru Park con la marcia per la pace da Kibera. Al termine di una giornata intensa, entusiasmante e faticosa sotto il sole cocente, stavamo ascoltando il discorso di Kenneth Kaunda. Ricordo che cercavo di avvicinarmi al palco per seguire meglio l'evento, facendomi strada faticosamente tra la folla. Ad un certo punto notai vicino a me un giovane visibilmente stanco che spingeva un carrellino di gelati. Mi domandai cosa pensasse quel ragazzo, che era lì per lavorare –  per mettere del cibo sulla tavola della famiglia quella sera – ad un evento che celebrava il sogno di un mondo diverso possibile. Volevo domandarglielo, ma non feci in tempo: passò oltre e si trovò bloccato da una ragazza con una cassetta di caramelle, ferma lì con lo sguardo nel vuoto, immobile, completamente assente. “Spostati che devo passare!”, le gridò il giovane. Ma lei non lo sentiva, non rispose e non si mosse di un centimetro. Dopo qualche insistenza, il giovane la urtò con il carrellino, ma ancora nessuna reazione. Frustrato e arrabbiato, a forza le passò sopra i piedi. E lei non si mosse, né disse nulla. Ma dopo qualche istante, quando il giovane era già avanti alcuni passi e continuava a imprecare contro di lei, la sentii sussurrare: “kwenda huko!” (“vaff....”). Un mondo diverso è sì possibile, ma non senza la partecipazione del giovane venditore di gelati e della ragazza delle caramelle. E' l'incontro liberante con Gesù che transforma il nostro cuore e ci aiuta a superare l'alienazione e le esperienze traumatiche che ci tolgono l'interesse, la speranza e la fiducia in una vita veramente umana e fraterna.

 fr. Alberto Parise 


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