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Gennaio 2015 - RISCHIARE LA GIOIA!

Mc 10, 17-22 - fr. Alberto Parise

 

RISCHIARE LA GIOIA! 

Mc 10, 17-22

17 Mentre usciva per mettersi in viaggio, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?». 18 Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. 19 Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre».
20 Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». 21 Allora Gesù, fissatolo, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va', vendi quello che hai e dàllo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi». 22 Ma egli, rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto, poiché aveva molti beni.


Il racconto del giovane ricco (Mc 11, 17-22) pone una questione di grande attualità: “cosa devo fare per avere la vita in pienezza?”. È una domanda che rivela un desiderio profondo, ma non facile da inquadrare con chiarezza nella storia di ciascuna persona. Gesù risponde che condurre una vita retta ci mette sulla strada giusta. Ma il segreto non è il fare del bene, quanto le relazioni che ci muovono e animano il nostro agire. È attraverso la relazione – con noi stessi, con il Signore ed il prossimo – che scopriamo il senso della nostra vita. La storia del giovane ricco ci dà anche un altro particolare importante: “guardatolo intensamente, Gesù lo amò”. Il momento decisivo è quando sperimentiamo la gioia di essere amati, che ci dà lo slancio per rompere gli indugi e fare scelte che ci portano a vivere autenticamente ed in pienezza. Ma come possiamo scoprire qual è quel desiderio profondo che nasce nel profondo del nostro intimo e che ci chiama a vivere autenticamente?
Questo è un tema che a Nairobi esploriamo con gli studenti del corso di social ministry. Studiamo e riflettiamo assieme sulla vita e l'esempio di personaggi che hanno fatto la storia del ministero sociale, come ad esempio Dorothy Day, Wangare Maathai, Julius Nyerere, Gandhi o Paulo Freire. Col passare degli anni e delle generazioni di studenti, siamo cresciuti nella convinzione che ci sia uno schema ricorrente in queste storie. In un paese ricco di tradizioni orali, le narrazioni sono strumenti importanti per l'interpretazione della realtà e la scoperta di senso.
Una delle nostre fonti di ispirazione è Sultan Somjee, che ho avuto la fortuna di conoscere e poi di collaborare per la promozione della riconciliazione e la pace in Kenya. Etnografo kenyano, discendente da una famiglia arrivata in Kenya nel XIX secolo con le migrazioni dall'India, ha vissuto in prima persona le contraddizioni e lotte che hanno segnato la storia del Kenya dall'indipendenza. Anche la sua storia ci mostra che per trovare la propria strada per una vita autentica ci sono tre aspetti da osservare: l'unicità della storia personale, il contesto storico in cui viviamo, e l'esperienza della presenza del Signore.
Sultan cresce in un Kenya di affascinante bellezza, a contatto con i colori, le sensazioni tattili, le espressioni artistiche e culturali dei Maasai. Ma è anche un Kenya cosruito su un sistema di discriminazione e segregazione razziale, con rigorosa separazione e dominazione della classe coloniale bianca sulla comunità indiana e quella africana. Di qui nasce un grande tema ricorrente – possiamo dirlo retrospettivamente – nella sua vita: l'apprezzamento della dignità della propria e altrui identità.
Così negli anni di fermento che portano all'indipendenza, Sultan è partecipe, come studente di arti e design, del movimento di intellettuali che sogna un paese libero e ricostruito a partire dalla ricchezza socio-culturale delle comunità africane. In questi anni sviluppa un forte interesse per le forme espressive delle arti locali, per la cultura materiale, orale e visuale dei diversi gruppi umani che formano il Kenya. Nelle arti si articola l'espressione delle identità, della spiritualità e dei significati esistenziali della gente e tutto questo nutre ed orienta quel ricorrente richiamo a difendere e promuovere la dignità umana.
Negli anni dopo l'indipendenza, le arti diventano una forma di resistenza al grande inganno: dopo la luna di miele della libertà, il regime al potere prende connotazioni dittatoriali e la vittimizzazione delle minoranze e delle differenze etniche diventa sempre più evidente. Prima con cittadini di ascendenza asiatica (“cittadini di carta”), poi gli swahili con tratti culturali in parte arabi, omani e yemeniti; quindi i somali, i borana e così via. Il fattore identità diventa centrale nella lotta per il controllo del potere e delle risorse nazionali.
Tutto questo, vissuto anche sulla propria pelle, chiama Sultan, già molto sensibile su questi temi, ad una risposta. In un clima di repressione, il teatro popolare, la letturatura orale di resistenza, e le arti visive offrono lo spazio per il risveglio delle coscienze, della consapevolezza critica e dell'espressione delle emozioni delle comunità oppresse.
Così come direttore del dipartimento di etnografia del Museo Nazionale e professore universitario, Sultan conduce una ricerca tra una ventina di gruppi umani del Kenya, documentandone la ricchezza culturale ed espressiva. Organizza delle mostre non solo per presentare il materiale raccolto, ma anche per instaurare un dialogo positivo sulle differenze di identità per contrastare la retorica etnica, per promuovere i diritti culturali e resistere alla repressione delle conoscenze indigene.
Con tali attività porta così allo scoperto che dietro al processo di produzione e propagazione della cultura materiale africana, c'è un'esperienza comunitaria di vita per la pace. Questa è nutrita da tradizioni spirituali, è mantenuta attraverso riti di passaggio, la cura delle relazioni con gli antenati, con la natura e Dio.
Negli anni 90, al culmine processo che ha moltiplicato le violenze in Kenya, arriva il momento decisivo nel percorso di Sultan. L'esperienza fatta con le comunità locali, la gente dei villaggi sperduti, con la loro capacità di accoglienza e di nutrire relazioni che donano vita, lo porta a una scelta radicale: lasciare la sicurezza dell'Università, del Museo Nazionale, del mondo elitario e confortevole dei professionisti e mettersi al fianco di comunità locali per facilitare la crescita dei musei comunitari della pace. Questa è la condizione, sia logistica che di atteggiamento relazionale, per costruire partecipativamente uno spazio per coloro che non hanno mai avuto voce, perché possano essere ascoltati e rispettati.
“Ho cercato di capire – mi disse una volta Sultan – la trasformazione di culture di pace in culture di violenza da parte di politici e propagate nei media. Non avevo a disposizione altre fonti che le tradizioni vive, sia orali che della cultura materiale. Ed io mi sono sentito parte di loro. Così ho cambiato stile di vita e di lavoro, da un professionista curatore di mostre, ad animatore di comunità che preparavano allestimenti e dialogo di pace collettivamente.” Dopo diversi anni di collaborazione con lui, ho capito il grande dono – che ci apre al mistero della vita – che viene dall'ascolto e condivisione delle intuizioni e sentimenti, espressi con autenticità, degli oppressi e marginalizzati.
Il grande desiderio di vedere rispettata ed apprezzata l'identità di ciascuno, incontrata la sfida epocale della dignità e della violenza contro le minoranze, ha portato Sultan ad una profonda esperienza spirituale che gli ha fatto scoprire una chiamata personale che ha dato senso pieno alla vita.
Qual è il segreto della vita in pienezza? Scoprire e vivere la nostra più profonda, vera identità. Così intima a noi stessi che facciamo fatica a comprenderla. Non la comprenderemo mai sforzandoci di costruire un “nostro” progetto; ma aprendoci alla parola e all'azione del Signore nella nostra vita. Una volta scoperta, se non avremo il coraggio e l'entusiasmo di abbracciarla, ce ne andremo tristi: in fondo in fondo, sentiremo di aver mancato l'opportunità di essere veramente noi stessi.

fratel Alberto Parise

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