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Dicembre 2011: LA PAROLA che SOVVERTE (Mc 4,1-12)

di sr Mariolina Cattaneo

 LA PAROLA che SOVVERTE

 

Il linguaggio è uno dei doni più grandi che abbiamo come umanità. Ci permette di comunicare, di dare forma e carne ai nostri pensieri, alle nostre emozioni, a chi siamo. Così, anche per Gesù le parole permettono al desiderio di prendere forma, al pensiero di venire trasmesso, all’esperienza di essere condivisa. Nel raccontare Gesù si prende la briga di condividere con noi ciò che per lui è così importante, il messaggio “che salva”, e lo fa spesso con parabole, una forma comune di espressione nel mondo biblico, ma comunque inusuale rispetto al pensiero logico e astratto del mondo occidentale.

 


Le parabole non sono semplicemente storielle, neanche sono solo espressione della cultura contadina della tradizione biblica, sono molto di più. Sono infatti, il luogo privilegiato della formazione al pensiero critico in cui Gesù accompagna I suoi discepoli, gli ascoltatori, e anche noi che dopo duemila anni ascoltiamo le sue parole.
E’ incredibile la forza che può avere una parabola. Richiamiamo semplicemente alla memoria la storia di Natan, profeta ufficiale del regno di Davide, ministro della Parola ma anche uomo di corte. Natan ripercorre la storia di Davide, del suo desiderio di uomo ricco e potente verso la donna di un altro e porta Davide a condannare le sue stesse azioni.  (1Sam) E’ un brano assolutamente meraviglioso, esempio di profetismo vero e lucido.
Anche Gesù ha usato questa tecnica del racconto molte volte, forse per avvicinare gli ascoltatori, perchè permette di trasformare in immagini il pensiero, e quindi di renderlo più comprensibile.
Nei secoli la forza profetica delle parabole è stata addomesticata facendone un messaggio apolitico, spiritualista e fondamentalmente neutro di fronte alla realtà che circonda l’essere umano.
Le parabole sono il luogo della crescita dello spirito critico, modalità attraverso la quale si impara un pensiero personale e libero, dove l’individuo viene “INTERPELLATO” perchè dia una risposta, la sua risposta personale, alla domanda posta attraverso la parabola dalla vita stessa con i suoi ritmi e le sue ingiustizie.
La parabola che racconta Marco al cap. 4 è quella famosa del seme che cade in diversi tipi di terreno. E’ un brano presente nei primi tre vangeli, segno che il racconto era sentito importante e significativo così da essere ripreso e sviluppato dalle prime comunità cristiane.
“ Ecco, il seminatore uscì a seminare”. (Mc 4,3) L’immagine è semplice ed efficace per un pubblico fatto di persone semplici e poco importanti. Si parla DEL seminatore, della sua azione quotidiana (almeno per quel tempo) e assolutamente insignificante all’interno di una storia scritta da e per potenti.  E’ l’immagine che colpisce la gente delle campagne, non i soldati dell’imperatore, che tocca la vita della gente dei villaggi, e non la corte di Gerusalemme. E’ quindi una parabola già sovversiva nel suo inizio perchè non concepisce la storia e la vita a partire dai grandi, dai potenti, ma dai piccoli, da coloro che lavorano e vivono vite non “pubbliche” o “pubblicitarie” ma vite vere, a contatto con la realtà. Nel nostro mondo fatto di patina e di un bisogno sempre più evidente di “apparire’ questo messaggio è già di per se completamente contro corrente. L’invito di Gesù è di guardare all’importanza della vita quotidiana come il luogo della rivelazione di Dio e quindi dell’incontro. Non la corte antica o moderna sono il luogo della Storia, ma la campagna, la casa, i luoghi della vita di chi “non conta”, di chi “ non è importante”.
Questo seme cade su diversi tipi di terreno e con conseguenze diverse: “ Ora avvenne che, mentre egli seminava, parte del seme cadde lungo il sentiero, vennero gli uccelli e lo beccarono.  Altra parte cadde su suolo roccioso, in cui non v'era molta terra e subito germogliò, poiché il terreno non era profondo;   ma quando si levò il sole, fu arso dal calore e si seccò poiché non aveva radici.  Altra parte cadde fra le spine e quando le spine crebbero lo soffocarono e non portò frutto.  Altre parti, però, caddero in terra buona e diedero frutto, che crebbe e si sviluppò, rendendo quale il trenta, quale il sessanta e quale il cento”. (Mc 4, 4-8)
La semplicità del testo è assolutamente disarmante, ma anche il suo messaggio: non importa che terreno uno è, il seminatore continua a seminare anche se il terreno è così secco e così vicino alla strada da essere asfaltato. Anche se il terreno e’ roccioso e povero, lì viene seminato, anche quando il terreno è buono, non sempre produce frutto completamente, ma si continua a seminare.

Allora ci rimane uno spazio di riflessione: per Marco il messaggio sembra sottolineare che il seminatore semina malgrado il terreno che lo riceve. C’è un senso di accettazione della realtà, dove non tutto è buono o bello o perfetto, ma che rivela la grande speranza di Dio che continua a seminare, in modo forse anche irragionevole, anche su quel terreno che sembra essere assolutamente sbagliato.
Questa speranza è quella che Gesù ci insegna con le parabole, la speranza di chi concede sempre una possibilità, di chi cerca sempre il dialogo, al di là della risposta. In fondo questa parabola è un invito a cercare sempre più e sempre meglio forme di dialogo, a non fermarci alla prima reazione, a non lasciare che ci si lasci interrompere dai pre-giudizi, dal fatto che il terreno non sia buono, che non sia buoono abbastanza.
E’ un invito non indifferente in un mondo che ci insegna a desiderare la perfezione esteriore come metro di misura di ciò che siamo o non siamo ancora. E’  l’invito ad aprire gli occhi  (o in termini biblici le orecchie: “chi ha orecchie per intendere intenda” Mc 4,9)  per riconoscere ciò che è la vera speranza: non importa che terreno siamo, il Signore continua a seminare, continua a provarci.
Che dire di fronte a tanta grazia? Beh, forse cominciare a raccoglierla, così come possiamo: il trenta, il cinquanta, o il cento per cento.
Avvicinandoci al Natale diventa importante cominciare a chiederci quali messaggi ascoltiamo, quale seme entra dentro e fa radici dentro di noi, quale terreno siamo disposti ad essere.
Imparare ad avere un pensiero autonomo, a pensare da soli, al di fuori degli schemi che ci vengono imposti dalle mode e dalle televisioni significa cercare il senso profondo di questa parabola per noi: qualunque terreno pensiamo di essere, Dio meglio di noi ci conosce e ci riprova, anche se gli uccelli si mangiano il resto dei semi o la roccia fa seccare ciò che ci è sembrato bello superficialmente. Ciò che conta è crescere e sviluppare la capacità di riconoscere il terreno, di lavorarlo, di farlo crescere, di continuare a credere che ce la si può fare perchè qualcuno ci ha creduto prima di noi, ed è venuto a dircelo di persona facendosi umano come noi.


Sr Mariolina Cattaneo


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