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Febbraio 2011: Insegnaci a pregare (Mt 6,5-15)

di p. Alberto Maggi

INSEGNACI A PREGARE
(Mt 6,5-15)

Sono ritenuti i versetti più difficili non solo dei Vangeli, ma di tutto il Nuovo Testamento. La loro traduzione è un’impresa ardua se non impossibile, poiché questo testo contiene termini inesistenti nella lingua greca. L’ultima traduzione della Bibbia CEI (2008) ha apportato qualche miglioramento, ma ancora molto c’è da fare.
Come è possibile che questi versetti, conosciuti come il “Padre nostro”, siano così complicati? Già Teresa d’Avila, grande mistica e Dottore della Chiesa, esprimeva il suo sconcerto chiedendosi “perché Dio non si sia spiegato più chiaramente sopra certi punti così elevati ed oscuri per farsi meglio capire. E mi è sembrato che dovendo questa preghiera essere comune e servire a tutti, bisognava che ciascuno potesse applicarla ai suoi bisogni particolari e trovasse in essa un argomento di consolazione, persuaso d’interpretarla bene”.

Il problema insormontabile del Padre nostro è nato proprio perché è stato considerato solo una preghiera. L’averlo fatto ha confinato la grandezza di questo testo nell’ambito delle preghiere devozionali, con effetti tanto contrastanti quanto devastanti per la fede. Basta pensare all’invocazione “dacci oggi il nostro pane quotidiano (Mt 6,11), che assume significati diversi a seconda le latitudini dove essa viene pronunciata. Mentre nel florido mondo occidentale, dove il pane sovrabbonda, e si getta nei rifiuti (solo nella città di Milano ogni giorno sono gettati nei rifiuti ben centottanta quintali di pane), è un’assicurazione al proprio benessere, nell’ultimo mondo, quello dove ogni giorno ventiseimila bambini muoiono di fame, per gli scheletriti credenti questa preghiera è segno di una promessa mancata. Pregano come gli obesi privilegiati cristiani del mondo opulento, ma gli effetti non si vedono, il pane quotidiano rimane un miraggio, e il “dacci oggi”, suona ogni giorno come una beffa.
Eppure il Padre nostro voleva essere proprio il rimedio e la soluzione a questa ingiustizia. Gesù, infatti, non intende insegnare una preghiera, ma invita i suoi alla pratica delle beatitudini per la realizzazione del Regno di Dio, e il Pater è, sotto forma di orazione, la formula di accettazione delle beatitudini di Gesù (Mt 5,3-10).

Cieli affollati
Come Mosè, dopo aver stabilito l’alleanza tra il popolo e il Signore attraverso il decalogo (Dt 5,6-21), aveva formulato l’accettazione dei dieci comandamenti attraverso l’“Ascolta Israele” (Dt 6,4-10), ugualmente Gesù formula nel Pater l’accettazione delle beatitudini.
La prima beatitudine, riguarda la scelta della povertà, ovvero la scelta della condivisione generosa che permette a Dio di manifestarsi come re, colui che si prende cura dei poveri (Mt 5,3). Questo impegno permette ai suoi figli di invocarlo come Padre, l’unico che è nei cieli (Mt 6,9), il solo che avendo condizione divina può governare gli uomini.
Al tempo di Gesù i cieli erano molto affollati, non c’era solo il Signore nei cieli, ma chiunque deteneva un potere risiedeva “nei cieli”, perché era al di sopra di tutti, e si riteneva alla pari degli dèi (Is 14,12-13; 2 Mac 9,8). Venivano infatti considerati quali dèi, o figli degli dèi, imperatori e faraoni, i re e i principi, gli astri e tutto quel che era connesso al potere, dai troni alle dominazioni, dai principati alle potestà (Col 1,16).
In un’epoca in cui, se non si riconosceva la natura divina dell’imperatore, si perdeva la propria testa (Ap 13,15; Dn 3,1-6.15), Gesù proclama come colui che è nei cieli, solo il Padre, e inviterà a non riconoscere a nessun altro il ruolo di padre (Non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo”, Mt 23,9).
Dopo l’accettazione della prima beatitudine, quella che permette al regno di diventare realtà (di essi è il regno dei cieli”, Mt 5,3), Gesù annuncia gli effetti di questo regno, con la fine dell’oppressione per gli afflitti, la restituzione della dignità ai diseredati e l’eliminazione di ogni forma di giustizia (Mt 5,4-6). Ciò è anche oggetto delle prime tre richieste del Pater, che riguardano gli effetti sull’umanità dell’attività di quanti hanno accolto le beatitudini. Per questo si chiede che il nome del Signore sia santificato (Mt 6,9), vale a dire sia riconosciuto come Padre, come colui che non solo si prende cura dei suoi figli, ma ne precede i bisogni .
Poi Gesù invita a chiedere che il regno del Padre si estenda (Mt 6,10). Questo regno non deve venire, c’è già. Dal momento che i discepoli hanno accolto la prima beatitudine, il regno non è più promessa ma realtà. Ora però la comunità chiede che questa loro esperienza del regno si allarghi, per portarne i benefici vitali a ogni uomo. Per questo chiede anche che la volontà del Padre si compia, realizzando il suo progetto d’amore sull’umanità: che ogni uomo possa diventare suo figlio (Ef 1,5).
La seconda parte delle beatitudini (Mt 5,7-9) riguarda gli effetti dell’accettazione delle stesse sui discepoli, con la loro progressiva trasformazione in individui sempre pronti ad aiutare (misericordiosi), trasparenti (puri di cuore), e responsabili della felicità altrui (costruttori di pace).
Ugualmente le successive tre richieste del Pater riguardano la comunità. Al centro, la più importante, quella che concerne la richiesta del pane, è formulata con un vocabolo inesistente nella lingua greca “Dacci oggi il nostro pane epiousion…” (Mt 6,11). Girolamo, il traduttore della Bibbia, si trovò in imbarazzo di fronte a questo termine sconosciuto che indica comunque un pane speciale, e decise di tradurre lo stesso termine in due modi differenti: con supersubstantialem in Matteo, e con cotidianum in Luca. La Chiesa poi preferì per la versione liturgica il Pater di Matteo, considerato più completo di quello di Luca, ma con la sostituzione del complicato (e impronunciabile) supersostanziale con il più facile quotidiano.
Questa scelta non solo fuorviò il significato della richiesta di Gesù, ma contraddisse il suo stesso insegnamento (“Non preoccupatevi dunque dicendo: Cosa mangeremo?”, Mt 6,31). Il pane che alimenta e sostiene la vita degli uomini non va richiesto a Dio, ma è compito degli uomini produrlo e condividerlo generosamente con chi non ne ha, come da sempre veniva insegnato (“Da’ del tuo pane a chi ha fame…”, Tb 4,16; Is 58,7).
Il fatto che questo particolare pane sia richiesto al Padre, significa che si tratta di un alimento che può essere solo dono del Signore, e non prodotto dall’uomo: questo pane è Gesù stesso come fonte di vita e alimento per la comunità (Mt 4,4; 26,26). Gesù, il Figlio di Dio, si fa pane per gli uomini perché quanti lo accolgono, e sono capaci a loro volta di farsi pane per gli altri, diventino figli dello stesso Padre.
È questo pane-Gesù quello che comunica la forza di condividere generosamente la propria esistenza e i propri beni, arrivando a cancellare i debiti altrui. Una comunità che ha scelto la beatitudine della povertà, e che ha sperimentato che “si è più beati nel dare che nel ricevere” (At 20,35), non può infatti essere composta da creditori e da debitori (Mt 6,12), ma saprà fare del dono generoso il proprio distintivo.
Le beatitudini si chiudevano con l’assicurazione della protezione divina anche nel momento della persecuzione (Mt 5,10). Similmente la fedeltà a Gesù darà la forza alla comunità di rimanere salda anche nel momento della prova suprema (Mt 6,13), quella della morte infamante del suo maestro e della persecuzione che si scatenerà contro i suoi discepoli.   
Il Pater si chiude con la richiesta della comunità di essere preservata dalla presenza del maligno, immagine nella quale l’evangelista individua situazioni e persone che ripropongono alla comunità le tentazioni alle quali il diavolo, il maligno per eccellenza (Mt 13,19), ha sottoposto il Cristo nel deserto. Finché Gesù rimane al centro della vita della comunità come unico maestro, unico capo e sola guida, e la sua parola e il suo corpo, come pane, alimentano e fanno crescere i suoi componenti, è esclusa da questa la presenza del maligno.

alberto maggi 

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