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Febbraio 2007

Felici Voi (Lc 6,17-26)

Dalle maschere ai volti

A Napoli, tra i personaggi noti, uno di spicco è certamente Pulcinella. Vestito di bianco, naso lungo, simpatico al primo approccio; è il furbo, l’ironico, l’esagerato, il piagnone. Capace di passare da un atteggiamento all’altro in un attimo, da un sentimento all’altro o addirittura mostrare sentimenti contrari nello stesso istante. Alla fine non sai mai con chi hai a che fare, non sai chi ti sta davanti. Eppure lo sanno tutti, è una maschera!...una delle tante, forse troppe che incontriamo. O una delle maschere che a seconda dell’occasione ci mettiamo!

La maschera, qualcosa che ci permette di vedere senza mostrarci, di guardare senza essere visti veramente, di apparire senza farci conoscere o di vivere continuamente di fantasia. Spesso non ci accorgiamo nemmeno di essere trascinati nel vortice della falsità, grandi campioni di calcio e veline sono i nostri modelli. E’ solo spettacolo, teatro, messa in scena. Ormai siamo abituati alle “carnevalate” nella politica, nell’economia, nella comunicazione e perfino nella religione.
E noi, perché abbiamo tanta paura di essere visti come siamo? Perché abbiamo tanto bisogno di apparire diversi? L’apparenza, questa grande necessità che abbiamo e che ci toglie dalla realtà.
A Napoli, in occasione della visita del Presidente della Repubblica, sono stati tolti tutti i rifiuti dalla zona dove lui sarebbe passato. Il giorno dopo sono tornati i rifiuti ….ma la città è apparsa pulita per un giorno! La realtà è che siamo sommersi dai rifiuti tutti i giorni.
Spesso siamo tentati di guardare all’apparenza, all’immediato senza poi scendere un po’ in profondità e scoprire la realtà, la VERITA’. Facciamo fatica a cercare ed anche a trovare la verità: la verità della storia, delle relazioni, delle ingiustizie, la VERITA’ DI NOI STESSI. Finchè non abbiamo il coraggio di fare verità dentro di noi, gli altri saranno sempre una minaccia, oppure concorrenti o indifferenti compagni di viaggio, davanti ai quali abbiamo bisogno di metterci una maschera.  La verità, pur faticosa che sia, è sicuramente liberante e ci fa scoprire i VOLTI.
E’ bello accorgersi che nel mondo oltre alle tante maschere, appaiono tanti volti, tante persone che non hanno paura a giocarsi, a smascherarsi e pur conoscendo i propri limiti e debolezze, fanno cose grandi.
Alcuni di questi volti li abbiamo incontrati a Scampia, sono giovani che passano giornate ad aiutare i ragazi del quartiere nello studio, nell’ascolto, nel fare amicizia con loro. Sono le famiglie di rumeni che abbiamo incontrato al campo nomadi che vivono la povertà e la precarietà in modo dignitoso e sereno. Sono i giovani universitari impegnati nella lotta contro i rifiuti….sono i grandi testimoni che vivono a fianco del loro popolo e come segni di speranza portano avanti il sogno di Dio,  tra i quali Dom Helder Camara, vescovo del Brasile. Questi e tanti altri sono coloro che Gesù chiama BEATI, felici. Beati perché avete saputo mettere la maschera da sub che vi ha permesso di scoprire in profondità le bellezze dell’umanità e del mondo e di appassionarvi alla vita. Beati perché avete saputo guardare dentro la storia e ve ne siete fatti carico. Beati perché sapete uscire dall’immagine e dalla popolarità e approvazione  a tutti i costi, per camminare contro corrente a favore della vita
Allora l’invito è uscire dall’immagine, scoprirci per come siamo ed uscire da quella cornice apparentemente sicura che non ci permette di cercare la Verità.
Ti va di toglierti la maschera e continuare a cercare? Non sarà ora di “scorniciarci”?

GIM Napoli


“FELICI VOI” (Lc 6,17-26)

“Alla mia vita ci penso io. Ho tutto quello di cui ho bisogno, quindi sono felice”. Com’è difficile poter definire in poche parole l’esperienza della felicità. Alcuni la associano al possesso di beni, giocando così sull’equazione HO TUTTO = SONO FELICE; altri la esprimono con il raggiungimento di un piccolo obiettivo; pochi la costruiscono passo dopo passo, ogni giorno e per sempre, ma troppi si considerano "infelici" e cercano una via di uscita prendendo pillole. Eppure, se ci pensate bene, non siamo stati educati alla felicità. In nessun curriculum scolastico c’era la materia “arte della felicità”.
Ma tu, sei felice? Cos’è che definisce e alimenta la tua felicità?
Nel cuore di Gesù pulsava quotidianamente questa sana preoccupazione e con profonda umanità ci consegna le beatitudini: consigli unici e universali per essere felici in questo mondo.
Non sappiamo cosa sia “in sé” la felicità, ma ci lasciamo abbracciare volentieri dalle persone felici, coloro che sentiamo vivi e pieni di gioia, serenità… a volte ci causano pure parecchia invidia…

Il nuovo contesto
La felicità ha bisogno di un contesto di contenuto umano che permetta di liberarla e poterla vivere. L’evangelista Luca ricrea la sceneggiatura di una nuova incarnazione, come se volesse comunicarci che a rinascere s’impara.
“Disceso con loro”: la direzione è verso il basso e in compagnia. Ricorda l’incarnazione, il saper vivere a piano terra, la sana inquietudine di chi non s’accontenta del minimo e sa “scendere dai bus” che la vita o il sistema gli hanno imposto. Non esiste una felicità isolata e volontaristica. È sempre un cammino COMUNE, in compagnia di qualcun altro.
“luogo pianeggiante”: è la sosta desiderata, ove anche il corpo trova il necessario per ritrovarsi. Gesù pensa a tutto. Che tutti abbiano e sentano la condizione di essere alla pari, equilibrati con se stessi e con il mondo circostante, quindi aperti alla rilettura della propria esperienza spirituale.
“Una gran folla”: nessuno viene escluso, ognuno è accolto nella sua unicità. Gesù attira, è popolare. Non esiste una diversità gerarchica nella guarigione delle proprie infermità, per questo tutti avevano la possibilità di essere sanati, e “sanava tutti”. È un invito a cercare quel tocco che sana e rende nuovi; quel tocco che include la manifestazione affettiva fondante: la priorità della persona, la liberazione dalle energie e poteri del male e il recupero ed esplosione dell’umanità.
“Alzati gli occhi”: la discesa allo stesso livello permette di guardarsi negli occhi senza timori e tremori. Gesù instaura il fondamento del viandante: chi non ha il coraggio disinteressato di guardare negli occhi l’altro/a fará molta fatica a sapere ciò che deve essere cambiato nella propria vita.

Particolarità letteraria
Luca, a differenza di Matteo, non gioca sulla coincidenza teologica dei numeri e delle parole, ma si concentra sul messaggio pro-vita (felici voi) e il suo contrario (guai a voi). Matteo propone otto beatitudini (richiamando così l’ottavo giorno ossia la resurrezione, il primo giorno dopo il sabato) e utilizzando 72 parole (il numero delle popolazioni conosciute a quel tempo) per preparare il lettore a recepire il messaggio di VITA e di UNIVERSALITÀ.
Luca si concentra su quattro beatitudini e quattro ammonimenti e fa un richiamo ai quattro atteggiamenti prioritari che ogni discepolo/a di Gesù dovrebbe avere: povertà, fame, lacrime, esclusione. Conosciamo la sensibilità sociale dell’evangelista e soprattutto della chiara condanna della ricchezza perchè vero impedimento all’accoglienza del Regno dei cieli. Allo stesso tempo, da buon realista, si preoccupa di chiamare le cose con il proprio nome e se da una parte esalta la felicità, dall’altra preannuncia la condanna… come se fosse un anticipo della Divina Commedia.

Il messaggio per noi
“Beati i poveri” è la chiave di lettura di tutte le altre. Beati significa felici. Quindi la volontà di Dio è che l’uomo sia felice. Non era normale a quell’epoca questo invito. Nel mondo antico, pagano, una delle prerogative esclusive che avevano le divinità pagane era la felicità di cui erano estremamente gelosi. Gli dei pagani controllavano le creature umane. Quando si accorgevano che sulla terra qualche umano raggiungeva una soglia di felicità che a loro sembrava intollerabile gli mandavano un accidente perché l’uomo su questa terra non può raggiungere la pienezza della felicità e anche oggi, pur essendo cristiani, queste idee pagane ce le abbiamo ancora nel nostro sangue ogni volta che attribuiamo a Dio il male che ci succede. Lo stupidario religioso è insaziabile e incontenibile.
“Beati i poveri”. Gesù non beatifica la povertà. I poveri sono disgraziati. E Gesù non viene a dire o quanto siete fortunati, quanto siete beati perché siete così. Abbiamo bisogno di Matteo per comprendere che tipo di poveri Gesù parla. Sono i poveri di spirito? No, non può essere perchè il povero di spirito è l’imbecille, il cretino… e non è possibile che Gesù proclami a livello di beatitudine la stupidità. Gli stupidi, i poveri di spirito, se ci sono, vanno compatiti, sopportati e in alcuni casi anche evitati…
Sono i poveri nello spirito? Ossia coloro che pur essendo ricchi sono “distaccati dai beni materiali”? Non si è mai capito cosa volesse dire “essere distaccati” dai beni ed essere povero di spirito. Non esiste un povero di spirito, miliardario.
Allora Gesù proclama beati i poveri nello spirito: quelli che liberamente, volontariamente, per lo spirito, per amore degli altri decidono di entrare nella condizione di povertà, per eliminare le cause della povertà. Gesù non chiede di renderci poveri ma chiede di abbassare il livello di vita per permettere a quelli che l’hanno troppo basso di innalzarlo. E’ questa la beatitudine alla quale ci invita Gesù. Tutto il resto è una conseguenza.
Dai vangeli appare che la massima aspirazione di Dio che si manifesta in Gesù è che l’uomo sia pienamente felice qui su questa terra. Per felicità s’intende: una buona salute per poter vivere sani, un lavoro che ci aiuti a vivere decorosamente e dignitosamente e anche l’amore perchè senza amore e senza affetto non si vive e non si cresce. La massima aspirazione di ogni uomo, ossia la felicità, coincide con la volontà di Dio (che l’uomo sia pienamente felice). Per Gesù la felicità degli uomini è talmente importante che per lui la religione e i precetti divini cessano di essere validi e perdono la loro obbligatorietà quando sono causa di sofferenza per l’uomo e anche quando gli impediscono di essere pienamente felici. La priorità assoluta è la felicità dell’uomo e se questa felicità entrasse in contraddizione con un precetto divino, fosse anche il più importante dei comandamenti, il comandamento divino passa in secondo ordine. Non ci può essere nulla che possa attentare alla piena felicità degli uomini.
L’immagine di Dio che abbiamo, è associata alla felicità dell’uomo? Si pensa troppo spesso a Dio come a colui che proibisce ciò che piace alla vita o a colui che ci obbliga a fare delle scelte che non siano molto gradevoli. C’è qualcosa di distorto in questa comunicazione perchè se un Dio mette paura e la religione insegna la paura di Dio, la religione campa del terrore nel nome di Dio… se Dio è causa di infelicità allora questo non è il Dio che si manifesta in Gesù, perchè il Dio che si manifesta in Gesù è colui che lavora e collabora affinchè l’uomo sia felice qui in questa terra e non nell’aldilà. Dai vangeli si vede che tutta l’azione di Gesù è collaborare perchè finalmente l’uomo sia felice qui, su questa terra... e perchè “la mia gioia” – dice Gesù, l’uomo che ha la condizione divina – “sia in voi e la vostra gioia sia piena”. Questo è il progetto di Dio sugli uomini. È una felicità che cresce e si trasforma in una gioia talmente abbondante da essere traboccante. Metti da parte quello che gli altri devono fare per te e pensa a quello che tu puoi fare per gli altri. Con questa logica eviteremo di rientrare nella categoria dei “guai a voi”!

Il messaggio per noi
“Beati i poveri” è la chiave di lettura di tutte le altre. Beati significa felici. Quindi la volontà di Dio è che l’uomo sia felice. Non era normale a quell’epoca questo invito. Nel mondo antico, pagano, una delle prerogative esclusive che avevano le divinità pagane era la felicità di cui erano estremamente gelosi. Gli dei pagani controllavano le creature umane. Quando si accorgevano che sulla terra qualche umano raggiungeva una soglia di felicità che a loro sembrava intollerabile gli mandavano un accidente perché l’uomo su questa terra non può raggiungere la pienezza della felicità e anche oggi, pur essendo cristiani, queste idee pagane ce le abbiamo ancora nel nostro sangue ogni volta che attribuiamo a Dio il male che ci succede. Lo stupidario religioso è insaziabile e incontenibile.
“Beati i poveri”. Gesù non beatifica la povertà. I poveri sono disgraziati. E Gesù non viene a dire o quanto siete fortunati, quanto siete beati perché siete così. Abbiamo bisogno di Matteo per comprendere che tipo di poveri Gesù parla. Sono i poveri di spirito? No, non può essere perchè il povero di spirito è l’imbecille, il cretino… e non è possibile che Gesù proclami a livello di beatitudine la stupidità. Gli stupidi, i poveri di spirito, se ci sono, vanno compatiti, sopportati e in alcuni casi anche evitati…
Sono i poveri nello spirito? Ossia coloro che pur essendo ricchi sono “distaccati dai beni materiali”? Non si è mai capito cosa volesse dire “essere distaccati” dai beni ed essere povero di spirito. Non esiste un povero di spirito, miliardario.
Allora Gesù proclama beati i poveri nello spirito: quelli che liberamente, volontariamente, per lo spirito, per amore degli altri decidono di entrare nella condizione di povertà, per eliminare le cause della povertà. Gesù non chiede di renderci poveri ma chiede di abbassare il livello di vita per permettere a quelli che l’hanno troppo basso di innalzarlo. E’ questa la beatitudine alla quale ci invita Gesù. Tutto il resto è una conseguenza.
Dai vangeli appare che la massima aspirazione di Dio che si manifesta in Gesù è che l’uomo sia pienamente felice qui su questa terra. Per felicità s’intende: una buona salute per poter vivere sani, un lavoro che ci aiuti a vivere decorosamente e dignitosamente e anche l’amore perchè senza amore e senza affetto non si vive e non si cresce. La massima aspirazione di ogni uomo, ossia la felicità, coincide con la volontà di Dio (che l’uomo sia pienamente felice). Per Gesù la felicità degli uomini è talmente importante che per lui la religione e i precetti divini cessano di essere validi e perdono la loro obbligatorietà quando sono causa di sofferenza per l’uomo e anche quando gli impediscono di essere pienamente felici. La priorità assoluta è la felicità dell’uomo e se questa felicità entrasse in contraddizione con un precetto divino, fosse anche il più importante dei comandamenti, il comandamento divino passa in secondo ordine. Non ci può essere nulla che possa attentare alla piena felicità degli uomini.
L’immagine di Dio che abbiamo, è associata alla felicità dell’uomo? Si pensa troppo spesso a Dio come a colui che proibisce ciò che piace alla vita o a colui che ci obbliga a fare delle scelte che non siano molto gradevoli. C’è qualcosa di distorto in questa comunicazione perchè se un Dio mette paura e la religione insegna la paura di Dio, la religione campa del terrore nel nome di Dio… se Dio è causa di infelicità allora questo non è il Dio che si manifesta in Gesù, perchè il Dio che si manifesta in Gesù è colui che lavora e collabora affinchè l’uomo sia felice qui in questa terra e non nell’aldilà. Dai vangeli si vede che tutta l’azione di Gesù è collaborare perchè finalmente l’uomo sia felice qui, su questa terra... e perchè “la mia gioia” – dice Gesù, l’uomo che ha la condizione divina – “sia in voi e la vostra gioia sia piena”. Questo è il progetto di Dio sugli uomini. È una felicità che cresce e si trasforma in una gioia talmente abbondante da essere traboccante. Metti da parte quello che gli altri devono fare per te e pensa a quello che tu puoi fare per gli altri. Con questa logica eviteremo di rientrare nella categoria dei “guai a voi”!

Vi lascio con le parole del famoso scrittore uruguaiano, Mario Benedetti:
“Mi piace la gente che vibra, cui non bisogna spingerla, né dirle che faccia le cose, ma che sa ciò che è necessario fare e che lo fa. Mi piace la gente con capacità per misurare le conseguenze delle proprie azioni, la gente che non lascia le soluzioni al caso. Mi piace la gente giusta con la propria gente e con se stessa, ma che non perde di vista che siamo umani e possiamo sbagliare. Mi piace la gente che pensa che il lavoro in equipe fra gli amici produce più dei caotici sforzi individuali. Mi piace la gente che conosce l’importanza della gioia. Mi piace la gente sincera e franca, capace di opporsi con argomenti sereni e ragionevoli alle decisioni di un capo. Mi piace la gente di criterio, che non inghiottisce qualunque cosa, quella che non si vergogna di riconoscere che non sa o che ha sbagliato. Mi piace la gente che, accettando i propri errori, si sforza sinceramente di non ripeterli. Mi piace la gente capace di criticarmi costruttivamente e di fronte, a questi io li chiamo “i miei amici”. Mi piace la gente fedele e persistente, che non molla quando di raggiungere gli obiettivi e idee, si tratta. Con gente come questa, mi impegno a qualunque cosa, giacchè per il solo fatto di averle avuto al mio fianco, mi sento totalmente appagato”.
Buone beatitudini a tutti voi!

p.Mosè Mora


Dom Helder Camara
ARTIGIANO DI PACE

Nato a Fortaleza, in Brasile, nel 1909 e ordinato sacerdote nel 1931, divenne Ausiliare del Cardinale di Rio de Janeiro e si acquistò il titolo di "Vescovo delle favelas", i quartieri poveri che cingono la megalopoli brasiliana in un cerchio di miseria e di fame. Nel 1955 divenne il primo Vice-Presidente del Consiglio Episcopale Latino Americano (CELAM) e per dieci anni si interessò della problematica religiosa e sociale del continente fino al 1964 quando fu eletto Arcivescovo di Recife, la capitale del Nord-Est brasiliano, la regione più povera di tutto il paese dove lui stesso era nato. La sua passione per i poveri trovò nelle condizioni miserabili di centinaia di migliaia di agricoltori e operai lo stimolo immediato per un’azione illuminata e profonda. In un suo messaggio scriveva: "Continuando le attività che la nostra archidiocesi compie, avremo cura dei poveri, rivolgendoci specialmente alla povertà vergognosa, per evitare che la povertà degeneri in miseria. E’ evidente che in modo speciale, stanno presenti al mio pensiero i mocambos (i quartieri poveri di Recife) e i bambini abbandonati. Però non vengo per ingannare nessuno, quasi che bastino un poco di generosità e di assistenza sociale. Non c’è dubbio, ci sono miserie spettacolari davanti alle quali non abbiamo diritto di rimanere indifferenti. Molte volte l’unica cosa da fare è prestare un aiuto immediato. Però non pensiamo che il problema si limiti ad alcune piccole riforme".
Questo contributo è tratto dal Nigrizia (marzo 2003) l’articolo è di Marcelo Barros, teologo della liberazione e abate benedettino del “Santuario macroecumenico” dell’annunciazione a Goias, che fu accanto a Hélder Camara per 12 anni.

Il 21 Aprile 1964, l’arcidiocesi di Olinda ricevette il nuovo arcivescovo che non volle essere accolto dentro la cattedrale, ma sulla piazza, in mezzo alla gente. Al suo incontro andò la popolazione più indigente e abbandonata: poveri e neri”.
L’arcivescovo esordì dicendo: “Nel nordest del Brasile, Gesù Cristo si chiama Zè, Maria e Severino. Ha la pelle scura e soffre la povertà” Dom Hélder è stato prima di tutto, un cristiano, che in ogni fratello e sorella che incontrava vedeva la presenza divina. Manifestava questa sua persuasione principalmente nel rapporto con i più poveri ed emarginati. Per otto anni (dal 1968 al ’75) sono stato suo segretario per l’ecumenismo. Una volta alla settimana ci riunivamo a casa sua. Mentre parlavamo molte persone bussavano alla porta. Egli stesso si alzava e le riceveva. A volte si dilungava nell’ascolto. Diceva: “Ci tengo a riceverli personalmente, perché può essere un povero e non voglio perdere il privilegio di accogliere il Signore stesso”.
Un giorno, una donna nera la cerca e gli racconta che il marito era stato arrestato dalla polizia perché ubriaco. Dom Hélder la accompagna fino al commissariato. E dice al responsabile: “Sono venuto a trovare mio fratello che lei ha messo in prigione” L’uomo ordina di liberare il detenuto e, mentre glielo consegna, commenta: “Ma voi due siete fratelli? Come è possibile, se lui è nero e lei è bianco?” Dom Hélder risponde senza esitare: “E’ che siamo figli di madri diverse. Ma dello stesso Padre.”
Un altro giorno, l’arcivescovo celebrava la messa in piazza dopo una processione popolare. C’era tanta gente in piedi, sotto il palco su cui era montato l’altare. Al momento della prima lettura, il cerimoniere invitò il vescovo a sedersi su una sedia, riservata al celebrante. Vestito con la casula, Dom Hélder andò verso la sedia, la sollevò e la porse a una donna nera povera, in mezzo all’assemblea, che aveva in braccio un bimbo piccolo. La fece sedere, ritornò al suo posto e, pazientemente, spiegò al cerimoniere: “Sono servitore del popolo non il capo. Non posso stare seduto mentre tutti rimangono in piedi!”

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