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Gennaio 2005

Starsene in pace o costruire la pace?
Il mese di gennaio è dedicato alla pace, ma ci sono varie idee di pace, e ci sono tanti che ne parlano ma usano metodi completamente diversi, e i risultati se vedono, specialmente li vivono coloro che subiscono le conseguenze della ‘missioni di pace’ o della azioni della ‘guerra preventiva’, che dovrebbe in teoria prevenire la violenza, ma di fatto la sta moltiplicando!!


C’è anche chi la pace se la cerca e la vuole come un quieto vivere, “Io sto bene, degli altri non me ne curo, ognuno pensi per sé, tanto cosa ci posso fare io?!”

C’è chi la pace invece la sente come cammino, innanzitutto personale, e che poi sa contagiare il mondo attorno a sé; un cammino che lo porta a vincere il male con il bene, a rompere la logica della violenza, a rompere la catena della vendetta

« Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male » (12,21). Il male non si sconfigge con il male: su quella strada, infatti, anziché vincere il male, ci si fa vincere dal male. (…) La pace è un bene da promuovere con il bene: essa è un bene per le persone, per le famiglie, per le Nazioni della terra e per l'intera umanità; è però un bene da custodire e coltivare mediante scelte e opere di bene. (Messaggio di Giovanni Paolo II per la celebrazione della giornata mondiale della pace)

La pace ha le ali di chi sa sognare il bene per tutti, ma ha anche i piedi di chi vuole cercare le vie della vita perché sia per tutti e così possa vincere la sua logica e non quella della morte.

E tu giovane come stai portando avanti il tuo impegno per la pace? Con che mezzi lo realizzi? È un bene per pochi o per tutti?

p. Bakanja, p. Rossano e sr. Bruna

Missione è gridare: “Alzati, cammina, vivi!”
Gv. 5,1-18

Betzatà cioè Beth, casa e hesed misericordia, cioè casa della misericordia era la piscina vicina alla porta delle pecore, un vero e proprio complesso balneare con acque curative che attiravano il popolo. Ma quest’acqua che donava guarigione e rinnovava la vita non era raggiungibile dallo storpio. Vuoi guarire? Chiede Gesù al paralitico. Che strano. Il paralitico non chiede nulla a Gesù e si sente per di più rivolgere una domanda imbarazzante e allo stesso tempo retorica. Erano passati 38 anni per lui in quelle condizioni nell’attesa e nella continua speranza di essere immerso nella piscina al momento giusto per guarire. Trentotto anni è una vita, come il tempo che corrisponde per il popolo d’Israele al periodo trascorso nel deserto dopo l’uscita dall’Egitto: tempo in cui la mano del Signore fu contro il suo popolo a causa della sua incredulità e del vagare finché tutta la generazione peccatrice fu sterminata (Num. 14,32-33). Anche nella nostra vita dobbiamo ammettere che spesso il nostro cuore è invaso dalla profonda sensazione di essere ad un passo dalla realizzazione mancata. È quella paralisi profonda che, di fatto, c’impedisce di raggiungere la piscina della guarigione e della realizzazione. Si può ‘arrivare’ nella vita in molti campi e aspetti e non essere pienamente soddisfatti. Aveva proprio ragione Agostino d’Ippona, quando scriveva: “Il nostro cuore non riposa se non in TE”. La prima denuncia di questo vangelo è che il povero paralitico è quella parte di ciascuno di noi che non riesce ad arrivare dove vorrebbe, che è stanca di attendere, esattamente come ci ricorda Paolo “Io non riesco neppure a capire ciò che faccio: infatti, non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. C’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo” (Rom. 7,15.18).

Alla domanda di Gesù “Vuoi guarire?” il paralitico risponde: “Signore, io non ho nessuno che mi immerga”; la risposta indiretta sulla bocca del paralitico è la seconda denuncia ed è la più forte perché rivela la causa del suo male: l’indifferenza degli altri nei suoi confronti. Ciò che è veramente crudele, ciò che fa più male e che paralizza nella società umana di sempre è la fredda indifferenza di molti. Basterebbe davvero che il nostro cuore si aprisse di più alla solidarietà, alla condivisione e alla compassione. Se una volta un’immagine, una scena o una notizia di sofferenza ci stimolava a riflettere oggi non scalfisce più di tanto le nostre coscienze. Ci siamo semplicemente abituati ad essere osservatori passivi e paralizzati di fronte alle tragedie dei nostri fratelli più poveri. Il divario nord-sud sembra inarrestabilmente destinato a crescere. Basta essere a gomito a gomito con la povera gente per sperimentare la paralisi che il sistema impone loro.

“Vuoi guarire?” è allora la domanda rivolta a ciascuno di noi. Sta di fatto che il paralitico non risponderà mai alla domanda cruciale. La sua mente e la sua volontà sono totalmente orientate verso come immergersi in quella piscina così vicina e così irraggiungibile che non può pensare ad un modo nuovo di guarire. Gesù arriva al momento giusto, “nella pienezza dei tempi” (Gal. 4,4), nel luogo più profondo della sofferenza umana a proclamarci l’anno di grazia, la Buona Novella (Lc. 4), perché i 38 anni sono finalmente scaduti. È Gesù il Buon Samaritano (Lc. 10,25-37) che ci raggiunge perché si ferma e si fa vicino al povero paralitico per guarirlo dopo un’eternità di indifferenza e sofferenza. Da Gesù in poi chi non per chi non “ha nessuno” e per chi non può “arrivare primo” c’è Lui, il Samaritano. “Gesù gli disse: alzati prendi il tuo lettuccio e cammina!” La riabilitazione avviene per la forza della stessa Parola che come ha la forza di creare può ora ricreare e liberare. Per ben cinque volte nel brano ritorneranno queste parole. Il lettuccio come i portici sono il simbolo della Legge che, di fatto, paralizza ed impedisce la pienezza della vita per chi non la rispetta. È Lui, Gesù che ci apre la via della vita, della solidarietà e dell’amore che sono la pienezza della legge. È solo attraverso la forza della sua Parola che anche noi siamo chiamati ad “andare” e a “fare” lo stesso (Lc. 10,37).

Angelina è una giovane donna sulla trentina che fino a qualche anno fa era costretta a camminare gattoni. La poliomielite l’aveva inchiodata a terra fin dall’infanzia, ma non le aveva bloccato la voglia di vivere e sperare. Tutte le Domeniche si trascinava nella polvere o nel fango per andare a pregare nella cappella che distava qualche chilometro dal suo villaggio. Ogni volta che mi recavo a celebrare l’Eucaristia nella sua comunità, lei era sempre là ad attendermi sulla strada per un passaggio. Dai suoi occhi sprizzava sempre gioia e non l’avevo mai sentita lamentarsi. “Che peccato”, pensavo fra me e me, sarebbe potuta diventare una bravissima leader e capace anche di insegnare come catechista.

Un giorno sentii che nel vicino ospedale missionario era giunto un ortopedico dall’Europa per qualche settimana. Portai Angelina per una visita di controllo e la speranza iniziò a concretizzarsi per lei. Dopo ben quattro operazioni, una degenza di quasi due anni e una lunga fisioterapia fatta in un centro specializzato Angelina riuscì persino liberarsi anche delle stampelle. Il suo successo è in buona parte dovuto anche alla sua instancabile forza di volontà. Durante gli intervalli fra un’operazione e l’altra per facilitarla la ospitammo in missione e tutti quanti ogni giorno la incoraggiavamo a non demordere e ad insistere negli esercizi che doveva fare. Ora è solo leggermente claudicante e può muoversi con le sue gambe dove vuole. La prospettiva dalla quale guardava il mondo è cambiata e ora è diventata una vera leader anche della sua gente. Nel centro di riabilitazione ha imparato a leggere, scrivere ed è diventata un’esperta di taglio e cucito. Il suo sorriso non è mai mancato e ora collabora nella comunità cristiana ad insegnare il catechismo ai catecumeni e a coordinare varie iniziative. Non poche donne e uomini hanno trovato la fede grazie alla sua testimonianza che continua. Con Angelina è così iniziato un nuovo cammino per tutta la gente della sua zona perché con lei si è rimessa in moto tutta la sua comunità verso la libertà e l’emancipazione che solo Cristo, il tempio nuovo può dare.

p. Damiano

Matthew Lokwiya

Matthew Lukwiya nasce il 24 novembre 1957 a Kitgum. Di una famiglia anglicana profondamente religiosa, sviluppa una dimensione spirituale fatta di valori che rendono grande la vita umana: la sacralità della vita, il servizio, la compassione di fronte al dolore, la solidarietà con gli ultimi, la ricerca e l’affermazione della verità. Matthew si distinse per doni particolari di intelligenza che gli permettevano di essere il primo della scuola, infatti il primo del Paese alla fine delle Superiori.

Matthew, completata in modo brillante la scuola di medicina nell’Università di Makerere, accetta di guidare il St. Mary’s Hospital di Lacor. In lui, Lucile e Piero Corti, individuano la persona capace di sostituirli nella futura gestione dell’ospedale missionario. A Liverpool, dove si reca per una specializzazione in Pediatria ai Tropici, si distingue, ancora una volta, per la sua bravura. Al termine del corso gli viene offerta la possibilità di restare come membro del corpo insegnante, cosa che gli avrebbe assicurato una brillante carriera a livello mondiale. Lui preferisce ritornare e servire la sua gente, Acholi del Nord Uganda, così duramente provata dalle drammatiche vicende politiche e militari.

Uomo impegnato a curare i corpi affetti da tante malattie, ma soprattutto determinato a capire come curare la malattia che stava minando il tessuto più sacro, la vita del suo popolo: la guerra, la violenza che minava lo spirito, le dimensioni più belle della cultura e del vivere.

Delle Chiese presenti sul territorio diceva: “Le Chiese hanno in mano degli strumenti importanti ed efficaci: le metodologie non violente. Per la gente che ha sperimentato tanta violenza, sono credibili. Se in questi anni non saranno in grado di operare in modo più incisivo, anche se ciò dovesse significare rischiare e anche pagare con la vita, perderanno di credibilità.

Spesso mi chiedo che senso abbia continuare a curare giorno e notte le vittime delle mine antiuomo, sapendo che la macchina bellica continuerà a produrre nuove vittime e distruzioni. Questo è il dilemma che mi tormenta. Vorrei gridare ‘basta!’ smettere ogni attività e lavorare unicamente per la pace. Se tutti noi che operiamo in zona Acholi e sperimentiamo questa ambiguità che a volte rasenta l’ipocrisia o la cecità, potessimo unire le energie, fermare le attività e puntare unicamente alla pace, cercando di scuotere la coscienza nazionale e internazionale, allora, forse, riusciremmo a creare una pressione politica tale da portare a una rapida soluzione del conflitto”.

Nell’agosto 2000, il dott. Matthew prende una nuova specializzazione in Sanità Pubblica, all’Università di Makerere, Kampala. Rientra a Gulu a fine settembre e si trova di fronte a una grande sfida. Nel giro di pochi giorni muoiono, contemporaneamente, tre allieve infermiere e due infermiere generiche, per un male misterioso. È lui a fare l’ipotesi di Ebola. Parte immediatamente per Kampala, lancia l’allarme alle autorità sanitarie del paese e coinvolge organizzazioni internazionali.

Il dott. Matthew è la persona che porta il carico più pesante di responsabilità e lavoro nell’urgenza del momento. “ Davanti a noi abbiamo una grossa battaglia che, forse, sta per finire, ma non ne siamo sicuri. Dobbiamo coltivare l’unità, la collaborazione, l’amicizia, il sostegno reciproco, la correzione fraterna, leale e corretta. Non potete pensare quanto mi siete cari. Il vostro viso è impresso dentro di me. Siete quanto ho di più prezioso in questo momento. Non potete immaginare la mia sofferenza quando uno di voi si ammala o muore.” Afferma: “Se guardiamo con gli occhi della fede, ci rendiamo conto che qualcosa di grande sta avvenendo attorno a noi e noi ne siamo testimoni. Stiamo vivendo un lungo venerdì di passione, ma incominciamo a scorgere la luce della Pasqua”. E al personale: “Possiamo considerare in ogni momento la possibilità di andarcene. Abbiamo la libertà di scegliere, nessuno ci può trattenere contro la nostra volontà... Se io lasciassi in questo momento, non potrei più esercitare la professione medica nella mia vita. Non avrebbe più senso per me”.

E non lascia e, chiamato nella notte,  in un momento molto grave di emergenza, interviene accorrendo in aiuto per un infermiere ammalato, preso dalla disperazione. Contrae lui stesso l’ebola e fino alla fine è consapevole che la sua vita è donata perché altri fratelli e sorelle vivano. La notte in cui è trasferito nel reparto di isolamento, esclama: “Mio Dio, mio Dio, morirò di ebola nel mio servizio, ma voglio essere l’ultimo”. Muore e alla moglie lascia in testamento un amore grande per la vita, per i figli, ma anche per i poveri e per il suo popolo.

Per approfondire: Elio Croce “Più forte di ebola” ed. Ares

Dorina Tadielo “Mistero di luce” ed. Missionarie Comboniane

 

 

 

 

 

 

 

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