Quale relazione esiste tra la missione "ad gentes" e la pace? Che
deve fare il missionario di fronte alle aspirazioni di libertà dei popoli? Il
dialogo con il mondo deve partire dai poveri e dalla loro ansia di libertà . La
pace - ha chiarito Paolo VI - non è solo consolazione dell'anima o assenza di
guerre e conflitti. La pace è anche lavoro e sviluppo a dimensione umana.
L'ingiustizia cospira contro la pace: tacere è un atto di disonestà . In molti
lo hanno testimoniato pagando con la loro vita. Da Oscar Romero
(1980) a Ignazio
Ellacuria (1989), fino a Juan Gerardi, vescovo ausiliare di Città del
Guatemala, assassinato il 26 aprile di quest'anno.
di Giulio Girardello
M entre scrivo, avverto che questo l'articolo può ridursi ad
una serie di appunti e ricordi, di un povero cristiano, su un tema-sfida che lo
supera. Sono annotazioni che nascono da situazioni vissute, più che una
sistematica teorizzazione.
Pur avendo alle spalle una discreta prassi missionaria, non mi
sono mai pensato esplicitamente come un "agente per la pace". Non è
questa l'immagine che mi ha accompagnato nel primo impegno missionario. A dir la
verità , non sono stato formato ad avere la pace come obiettivo primario, bensì
a "piantare la chiesa". Poi ho scoperto i "beati i costruttori di
pace" del vangelo. Lentamente ho capito, dopo il Concilio ecumenico
Vaticano II, che la chiesa è inviata nel mondo per servire il regno di Dio,
regno di pace. Regno da invocare, testimoniare, annunciare e discernere nei
meandri della storia, nelle culture, nelle tradizioni religiose, nei faticosi
cammini dei popoli, perché il regno "è già tra voi".
La chiesa rimanda al regno, di cui è segno e strumento: per
questo va in missione nella storia, al fine di costruire pace, unità ,
riconciliazione tra i popoli e le persone.
NÉ DOMENICA, NÉ SABATO, NÉ VENERDÃ
Quale relazione esiste tra la missione
"ad gentes" e la pace?
Rispondo con un testo del Concilio, prezioso per la sua chiarezza: "La pace
terrena, che nasce dall'amore del prossimo, è immagine ed effetto della pace di
Cristo, che promana dal Padre. Il Figlio incarnato, infatti, principe della
pace, per mezzo della sua croce ha riconciliato tutti gli uomini con Dio e,
ristabilendo l'unità di tutti in un solo popolo e corpo, ha ucciso nella sua
carne l'odio e, nella gloria della risurrezione, ha diffuso la Spirito di amore
nel cuore degli uomini. Pertanto tutti i cristiani sono chiamati a
"praticare la verità nell'amore" (Ef 4, 15) e unirsi a tutti gli
uomini, sinceramente amanti della pace, per implorarla ed attuarla" (Gaudium
et spes, 78).
Dal Concilio ad oggi (oltre 30 anni), l'azione missionaria della
chiesa si è rinnovata molto... da rendere possibile l'incontro di Assisi del 26
ottobre 1986. In quel lunedì feriale (non la domenica dei cristiani, né il
sabato degli ebrei, né il venerdì dei musulmani) i rappresentanti di tutte le
religioni del mondo si incontrarono per pregare. Pur divisi secondo le proprie
tradizioni religiose, invocarono insieme Dio, il Signore della "pacem in
terris".
Quell'"icona" resta un simbolo ancora da approfondire:
è un kairòs (una grande opportunità ), che può aiutare la chiesa a
rinnovare il servizio da offrire al mondo: perché di questo si tratta. Rivedere
e riscoprire anche la missione ad gentes, che non dobbiamo dare per scontata.
Penso che, davanti all'"icona" di Assisi, sia più
facile capire le parole del papa, che nell'introduzione della "Redemptoris missio"
dice: "La missione è ancora agli inizi".
CON GLI OCCHI DEI POVERI
Dopo la seconda guerra mondiale, si passa da una missione
funzionale alle imprese coloniali dell'Occidente (nel Sud del mondo) ad una più
coerente e fedele al vangelo, sul modello dell'incarnazione. La missione, da
espansione ed esportazione del cristianesimo latino-romano (da proporre a
chiunque e comunque), diventa la pazienza di seminare la Parola di
Dio, in
attesa della sua germinazione. Ma pure nello "stile" la missione deve
riflettere il suo Signore crocifisso, testimone insuperabile di amore paziente
ed umile.
Ogni cristiano è chiamato a tenersi saldo al principio del
Concilio: "La verità non si impone che in forza della verità stessa, la
quale penetra nelle menti soavemente e insieme con vigore" (Dignitatis
humanae, 1). Lo stesso Concilio suggerisce di andare verso le genti, di
"adattare" la Parola di Dio ai vari contesti culturali-religiosi e,
nello stesso tempo, di raggiungere nuove frontiere: i poveri, per esempio, cioè
"i nuovi barbari" (mons. Helder
Camara).
La chiesa dei poveri, risuonata nelle aule conciliari, evoca il
discorso appassionato di Gesù nella sinagoga di Nazaret (cfr. Lc 4, 18-19). A
partire da questo orientamento, la chiesa latino-americana parla di "ecclesiogenesi",
ossia di una nuova maniera di essere chiesa, perché più incarnata tra i
bisognosi e più inculturata nei loro "mondi vitali": il mondo degli
indios, quello degli afroamericani, le periferie urbane. In Colombia, a MedellÃn
(1968), i vescovi del continente inaugurano il metodo "vedere-giudicare-agire",
ovvero del discernimento della comunità , previo ad ogni scelta
evangelizzatrice, per cogliere i segni dei tempi e scoprire l'azione dello
Spirito, che "spirat ut vult" (soffia come vuole).
È un metodo che permette agli agenti di pastorale e ai vescovi
di vedere, leggere e interpretare la vita con gli occhi dei
poveri, e saperla
giudicare con gli occhi di Dio, attraverso la sua parola. E con i poveri, nelle
Comunità ecclesiali di base, si va incontro a tutti, verso una nuova pasqua:
dalla morte alla vita, dal peccato alla santità , dall'ingiustizia alla
giustizia, dall'oppressione alla libertà . Si cammina verso la "terra
promessa" per una società più conviviale e pacificata.
La prassi missionaria della chiesa latino-americana ha lasciato
il segno in tutte le chiese del mondo, insegnando che il dialogo è da farsi
partendo dai poveri e dalla loro ansia di libertà . Da lì si evangelizza, da lì
si riparte per la "nuova evangelizzazione", perché da lì si legge la
parola e si pongono i segni.
QUALE PACE?
Negli anni '60-70 la missione si è misurata con l'epoca
dello sviluppo. Paolo VI, nell'enciclica Populorum progressio (1968), ne coglie
l'istanza e la interpreta con sapienza, fino a scrivere che il nuovo nome della
pace è "sviluppo". Chiarisce ed esalta la pace, che non è solo
consolazione del cuore, assenza di guerre, ma lavoro, impegno: creare le
condizioni socioculturali per avviare nel mondo un progresso a dimensione umana.
La pace come sviluppo integrale di ogni uomo, di tutti gli uomini e di ogni
popolo.
Ricordo bene alcuni passaggi di quella lettera, perché faceva
parte della catechesi con la gente... "Ogni crescita o passaggio da una
vita meno umana ad una più umana è un avvio progressivo per aprirci a quella
pienezza di vita a cui ogni persona è chiamata: la divinizzazione dell'uomo in
Cristo" (Populorum progressio, 20, 21). Inoltre si vincola lo sviluppo al
regno di Dio, con la coscienza che è "segno", "anticipo",
"già , ma non ancora". Nell'attesa, i credenti danno testimonianza con
la parola e i fatti, collaborando con tutti per "un di più" di vita,
nei limiti delle situazioni storiche.
Sulla copertina del breviario avevo scritto: "Io sono
venuto perché tutti abbiano la vita e vita piena" (Gv 10, 10) e con sant'
Ireneo commentavo: "La gloria di Dio è l'uomo vivente"... I
missionari non si sono sottratti e tuttora operano con modesti o significativi
progetti, scoprendosi agenti di sviluppo accanto a laici e volontari. Forse
l'autocritica non è ancora sufficiente per trovare un equilibrio tra "la
missione-agenzia di sviluppo" (od opera di bontà , frutto della comunitÃ
cristiana locale) e l'aiuto esterno.
Nella prima parte della Populorum progressio c'è una novitÃ
profetica, che solo più tardi abbiamo capito: si commemora padre Carlo de
Foucauld (n. 12). Questi acquista grandezza ed ispirazione per l'azione
missionaria. Con la sua vita è colui che incarna bene lo "svuotò se
stesso" di Gesù (Fil 2, 8), che rende feconda la missione.
Carlo de Foucauld è l'impotenza di fronte alla difficoltà ,
all'incredulità , al rifiuto della verità , che imperversano anche nelle nostre
società : impotenza offerta al Padre sull'esempio del Figlio, crocifisso per
amore. È la testimonianza della "parola fatta carne" nella ferialitÃ
delle cose ordinarie, in compagnia della gente o di chi passa
all'"oasi".
È la missione carica di profezia del discepolo, che imita Gesù
maestro nei suoi 30 anni di vita nascosta a Nazaret. È l'espressione
missionaria di molti, che a questa spiritualità si rifanno e, sparsi ovunque,
condividono la vita con la povera gente. Una volta "fatti come loro",
con loro leggono il vangelo. E, se questo non è possibile (perché non è
arrivata l'"ora di Dio"), lo testimoniano nel gesto mite e gentile,
nella gratuità e nel silenzio orante.
Padre Carlo de Foucauld, evocato nell'enciclica sullo sviluppo,
interroga salutarmente la missione.
L'INGIUSTIZIA È VIOLENZA
"La pace sia con voi! Come il Padre ha mandato me, così
io mando voi... Ricevete lo Spirito Santo e andate a rimettere i peccati" (Gv
20, 20-21). La missione è andare decisamente dove c'è il peccato e peccatore:
entrare nel "mistero d'iniquità ", che contamina persone e
istituzioni. "Ciò che non è assunto non è redento".
Mentre scrivo, risento le parole cristiane di laici, preti e
suore impegnati a costruire la
pace, ma anche braccati con la gente in societÃ
violente, chiusi in strutture ingiuste, sorvegliati da militari e apparati
polizieschi di regimi dispotici. Il pensiero corre a quanto si è vissuto e si
vive in Salvador, Guatemala, Nicaragua... Chiapas.
Terrorismo, massacri e guerre
sono manifestazioni crudeli e ripugnanti della violenza, ma non sono ancora
"la violenza frontale e permanente". Questa va cercata in ciò che i
vescovi a Medellìn hanno definito "ingiustizia strutturale", che
cospira contro la pace ed è "violenza istituzionalizzata".
L'ingiustizia è violenza in senso stretto, perché priva le maggioranze di ciò
che è fondamentale nella vita.
"La teologia della liberazione" prende sul serio la
negatività da cui è afflitta la realtà e contro cui bisogna lottare. Non crea
la conflittualità della storia, ma la smaschera e denuncia, perché tacere è
convivere con la violenza, che procede dall'ingiustizia. La lotta per rimuovere
l'oppressione, il peccato istituzionale, può essere condotta a vari livelli: la
parola, la santità , l'organizzazione della società civile. Vuole la fine della
violenza con la rimozione dell'ingiustizia. Ma non è pacifista ad oltranza:
tanto che riconosce, secondo una vecchia tradizione, che un cristiano possa
anche scegliere in coscienza la lotta armata, se vi sono le condizioni
necessarie. E questo in difesa degli "ingiustiziati", cercando di
ridurre al minimo i danni (1).
In questo contesto drammatico, nelle Comunità di base del
Centro America, fra cristiani, pastori e vescovi, matura il pensiero della lotta
contro l'ingiustizia, ma con il metodo della non-violenza.
Dal Salvador mons. Oscar Romero ne è il simbolo con il suo
magistero e assassinio (1980). Il grido "non uccidere", rivolto ai
militari dell'esercito salvadoregno, s'impone pure ai guerriglieri dei fronti di
liberazione, pur riconoscendo a costoro la legittimità della lotta. Però a
nessuno è lecito uccidere. L'ingiustizia deve essere vinta con la verità , il
diritto dei poveri e la forza dell'amore, da apprendere ai piedi del crocifisso.
Padre Ignazio Ellacuria nell'ultimo scritto, prima del martirio
(avvenuto il 16 novembre 1989 con altri cinque gesuiti), riflettendo sul
magistero di Romero e guardando alla pratica di molti cristiani, scrive:
"Nell'ottica di quanti si mettono alla sequela di Gesù storico, sembra che
i cristiani nell'essere e agire, essendo i primi e più audaci nel lottare
contro ogni ingiustizia, non debbano far uso della
violenza. Si tratta di
testimoniare nel modo più giusto e pieno che la vita è superiore alla morte,
che l'amore è al di sopra dell'odio. Per essere credibili in tutto ciò, i
cristiani devono essere i primi e i più audaci e devono rischiare fino al
martirio" (2).
Queste riflessioni sono faticose, perché mi ricordano i tanti
crocifissi anonimi nei sistemi ingiusti; i crocifissi per amore dei poveri, che
sono andati incontro al martirio in nome della giustizia. Il mondo missionario
ha dato il suo contributo, e non solo in America Latina. Nomi, cognomi e
situazioni di vita sofferta e offerta aggiornano il "martirologio".
Lottare per il regno di Dio contro l'anti-regno, ma con la
non-violenza, è un capitolo nuovo che, come cristiani, scriviamo con
incertezza. Si coglie il comando "non uccidere!" e la decisa
affermazione "mai più la guerra!", da comporre con le beatitudini
degli "affamati ed assetati di giustizia". E "beati i miti, perché
erediteranno la terra!".
PROFETI DI GIUSTIZIA
Le chiese d'Europa hanno alle spalle memorie tragiche da
purificare e riconciliare, mentre termina questo secolo che le ha viste in
conflitto tra loro, schierate, benedicendo campi contrapposti di popoli in
guerra, in nome di tanti idoli: nazione, razza, politica, economia. La recente
guerra dei Balcani e la violenza nei Grandi Laghi, in Africa, rivelano la
debolezza del mondo cristiano.
Sulla soglia del terzo millennio, chiese e cristiani si trovano
davanti a tre profeti e testimoni non violenti di giustizia: l'induista Mahatma
Gandhi (1948), il pastore battista Martin Luther King (1968) e l'arcivescovo
cattolico Oscar Romero (1980). Giudico importante che la missione dialoghi con
loro. La pace passa anche attraverso la loro lezione.
La sfida per la missione è di saper dire "pace" e
costruirla all'interno di situazioni concrete. È questione di mediazione, che
può diventare croce.
"LA PACE SIA CON VOI"
"Cristo è la nostra pace" (Ef 2, 11). Riconosciamo
in Cristo la fonte della pace, perché in lui e con lui è stato perdonato il
peccato ed ogni male è vinto. È in lui che si realizza la nostra volontà di
pace. "Vi lascio la mia pace, vi do la mia pace (shalom), ma non come la dÃ
il mondo io la do a voi" (Gv 14, 27).
La pace è mistero, grazia e dono. Non è la pace ambigua,
imposta da qualcuno a scapito della dignità e del diritto. "La pace
terrena, che nasce dall'amore del prossimo, è immagine ed effetto della pace di
Cristo che promana dal Padre" (Gaudium et spes, 78). Pace da scoprire nella
fatica degli itinerari religiosi, nelle attività culturali e nell'ansia di
popoli e persone. Allora è possibile l'osmosi tra grazia divina e impegno
umano. La fede ci suggerisce di credere che le mani di Dio hanno impastato con
creta di pace l'uomo e la donna, perché noi siamo "sua immagine e
somiglianza".
Giovanni
XXIII, nella lettera al mondo Pacem in terris (1963),
indicava nella crescente aspirazione alla pace dell'umanità un "segno dei
tempi", da interpretare, avvalorare e potenziare con il fermento del
vangelo. Anzi, per i cristiani e le stesse chiese, è urgente andare in
missione, per unirsi a tutti gli uomini di buona volontà per costruire ovunque
la pace, compiere progetti di pace. La chiesa è sempre segno, strumento e
sacramento del regno di pace, che si realizza anche in tragiche situazioni
storiche.
La missione ad gentes è da ripensare su questo vangelo:
"Andate due a due, entrate in tutte le case... Dite: "La pace sia con
voi... pace a questa casa" (Lc 10, 1 ss)".
L'INTELLIGENZA DELLA PACE
Ricordo un gruppo di missionari, incontratisi a Vicenza con i
responsabili dei Centri missionari del Triveneto (settembre e ottobre 1985). Era
presente anche Lorenzo Bellomi, vescovo di Trieste, un cristiano affaticato per
trovare vie di pace nella sua regione carica di conflitti.
In dialogo con i pacifisti del tempo, schierati ideologicamente,
abbiamo argomentato di pace, ma a partire dal diritto dei popoli impoveriti nel
Sud del mondo. Per superare l'esasperata tensione tra Est e Ovest (che ha
scandito e bloccato la storia recente per 40 anni), bisogna considerare
l'ingiusta divisione nel mondo tra Nord ricco e Sud povero: interpretare la
realtà a partire dalla "causa di giustizia" dei popoli in Asia,
Africa e America Latina. "Dalla fame, dalla sete, dalla nudità , dagli
oppressi, dagli ingiustiziati, dai dannati della terra... annunciare la
pace" (Helder Camara). Così è nato anche il movimento Beati i costruttori
di pace.
Il mondo missionario si è incontrato con l'arcipelago pacifista
del tempo e, nel dialogo, ha espresso le ragioni della pace, ma a nome dei
popoli oppressi dal Nord. Le famose Arene di Verona (a partire dalla prima del
1986) proponevano iniziative concrete di pace. Rammento l'ultima Arena (1995),
con il tema (in tempi di globalizzazione): "Quando l'economia
uccide,
bisogna cambiare".
L'areopago della pace, dello sviluppo e della liberazione dei
popoli attende l'apporto dell'intelligenza dei cristiani (cfr. Redemptoris
missio, 37).
AL BANDO FANATISMO E INTOLLERANZA
In missione, nella periferia della città di Teresina
(Nordest-Brasile), ho lavorato in rioni popolari, accanto a pastori protestanti,
capi di comunità afroamericane (che praticano la
macumba) e nuovi movimenti
religiosi.
Io, prete cattolico, con la pretesa di essere l'unico mediatore
religioso, ho dovuto ridimensionarmi di fronte ad altri legittimi leader
religiosi. All'inizio li ho di proposito ignorati, perché mi sentivo
espropriato. Ma la vita, con le sue urgenze, le lotte popolari per rivendicare
scuole, strade, acqua, mi ha fatto scoprire il dialogo interreligioso e
l'incontro ecumenico tra gruppi e individui differenti, costretti all'unità per
la difesa e la promozione della vita. Se le fedi ci dividevano, la vita ci
univa. Sperimentavo così un "dialogo della vita e per la vita", un
"dialogo delle opere".
Nasce una domanda: "Le religioni sono in grado di operare
per una pace vera tra gli uomini?". A guardare la storia, la risposta è
tragica. Una identità religiosa forte, se non c'è vigilanza, può condurre ad
esaltazione di sé, disprezzo degli altri e fanatismo, intolleranza. Il rapporto
"religione-pace" è un problema anche per l'educazione religiosa,
perché questa deve saper operare una identificazione sicura, ma al tempo stesso
pacifica, umile, dialogante. Cose difficili da mettere insieme; ed è per questo
che una "coscienza di pace" può diventare un obiettivo alto e nobile,
un capolavoro educativo che tutte le religioni dovrebbero proporsi.
UNITI NEI VALORI
L'"icona" di Assisi del 26 ottobre 1986 deve
diventare stile di vita e prassi quotidiana. Il dialogo interreligioso, mentre
si fa preghiera per la pace, è anche ricerca fra tradizioni religiose diverse,
per una convergenza su valori fondamentali, al fine di collaborare in iniziative
di pace.
Su questa ipotesi ha lavorato il teologo Hans
Küng, provocato
da una Conferenza promossa dall'Unesco sul tema: "Non c'è pace mondiale
senza pace religiosa" (febbraio 1989). Da lì è nata l'opera Per un'etica
mondiale (Rizzoli, 1991); il sottotitolo "Una morale ecumenica per la
sopravvivenza umana" è significativo.
Nell'introduzione Küng scrive: "Quest'unica societÃ
mondiale, verso la quale stiamo andando, non ha certo bisogno di un'unica
religione e un'unica ideologia; ha però bisogno di alcuni valori, norme, ideali
e fili vincolanti e unificanti. Quest'unico mondo ha bisogno di un unico ethos
fondamentale. Ecco il compito delle religioni nell'attuale stagione della
storia. Non c'è pace mondiale senza pace religiosa, come non c'è pace
religiosa senza dialogo religioso" (p. 10).
Forse c'è , ancora, un mistero di grazia che ci attende e passa
attraverso la via della riconciliazione tra uomini e donne, culture e religioni.
Riconciliazione da invocare, ma anche interpretare per una educazione delle
coscienze alla pace e tolleranza, da costruire su progetti di pace con pazienza,
in un dialogo insistente e fiducioso.
Salvarci e salvare il pianeta terra da tutte le minacce...
"Pace nella giustizia e salvaguardia del creato" è la sfida non solo
per le chiese e i cristiani, ma anche per tutti gli uomini e donne di buona
volontà , per tutti i credenti di ogni religione (Basilea 1989, Assemblea
ecumenica europea).
TESTIMONIARE E CREARE PACE
Mi auguro che la riflessione teologica accompagni la prassi
missionaria nei diversi contesti in cui si sviluppa; inoltre che metta al centro
il tema "pace".
L'augurio si legge pure nella prefazione al dizionario Teologia
della pace (EDB, 1997), dove si parla di pace "non solo come oggetto della
teologia", ma anche come "categoria-orizzonte e
principio-simbolo" di tutta la teologia. Il messaggio cristiano si
identifica nell'"evangelium pacis".
La questione "pace", dopo specialmente la Pacem in
terris di Giovanni XXIII, si è posta sempre più al centro della vita della
chiesa. Il mondo missionario si è trovato e si trova di fronte a gravi
conflittualità . La missione ad gentes potrebbe, da questa riflessione, trarre
giovamento per mettere a fuoco e ripensarne l'immagine.
Testimoniare "che Cristo è la nostra pace"
soprattutto nelle "zone calde". Nel Kossovo, da alcuni anni, è
impegnata la Comunità di sant'Egidio di Roma. Sono da raccogliere con pazienza
tutti gli impegni per la pace, per saperli capire e celebrare nell'eucaristia.
Perché le vie della pace aprono alla missione.
(1) Per tutta questa parte, cfr. Jon Sobrino, "Religione
fonte di violenza?" in Concilium, 1997/4, pp. 74-99
(2) Ivi, p. 96 ss.
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