Economia africana: azzardo dell'utopia?
L'attuale cooperazione economica e le sue prospettive - di p. Giulio Albanese
Proponiamo un testo di riflessione offerto da p. Giulio Albanese, che condurrà il Laboratorio Sud-Nord. Il brano è tratto dall'abstract del prossimo libro sull'Africa che p. Giulio sta realizzando.
Economia africana, azzardo dell’utopia?
Sarà stato per eccesso di colonialismo o chissà per quale altra velleità, ma un giorno, tornando da un suo viaggio in terra africana Harold Macmillan definì il continente come una sorta d’ “ippopotamo galleggiante nelle paludi”. A quel tempo, nel 1960, il primo ministro della Corona di Sua Maestà ebbe la brillante idea di tornare in patria dal Sudafrica a bordo di un piroscafo che impiegò ben dieci giorni di navigazione prima di avvistare le bianche scogliere di Dover. Gli anni che seguirono crearono non pochi grattacapi agli inquilini del “Numero 10 di Downing Street”. Harold Wilson, ad esempio, fu costretto a fare i conti a malincuore con la dichiarazione unilaterale d’indipendenza della Rhodesia bianca (oggi Zimbabwe), mentre James Callaghan dovette confrontarsi con la pulizia etnica contro gli asiatici, attuata dal folle presidente Idi Amin Dada. A differenza dei suoi predecessori, l’attuale premier britannico, Tony Blair, ha invece un debole per l’Africa e la sua politica diverge sensibilmente sia da quella dei laburisti vecchio stile, sia da quella dei conservatori. D’altronde va considerato che nel suo Paese, per religione, filantropia e passioni coloniali depurate, un numero consistente di cittadini inglesi contribuisce economicamente, nell’ordine delle centinaia di milioni di sterline, alle grandi Organizzazioni non governative del calibro di “Oxfam” e “Save The Children”. Rispondendo ai maligni, che gli consigliano caldamente di occuparsi delle faccende nazionali, Blair ha risposto dicendo che “l’Africa è una cicatrice sulla coscienza del mondo”, stigmatizzando le miserie che affliggono il Continente. Ma non è tutto qui: leggendo i suoi discorsi pubblici, anche recenti, questa consapevolezza è sempre stata associata alla convinzione che l’Africa, nel bene e nel male, rappresenti una grande opportunità, soprattutto economica. Per questa ragione, lo scorso anno, istituì la Commissione per l'Africa affidandole il compito di elaborare un piano di rilancio globale del Continente. Il punto di partenza del rapporto è incentrato sulla povertà e soprattutto sullo stato di stagnazione economica in cui versa l’intero Continente. L’intento è quello di dimostrare, attraverso un’attenta analisi, che esiste una ricetta: una politica riabilitativa capace di generare tassi di crescita economica fino al 7%, mettendo l'Africa in carreggiata per conseguire gli obiettivi per lo sviluppo del 2015, nell'ambito dei Goals del Millennio fissati dalla comunità internazionale nel 2000. Di fronte a questo scenario, il rapporto stigmatizza le responsabilità della comunità internazionale che può e deve offrire maggiori risorse al Continente africano. La Commissione chiede pertanto il raddoppio degli aiuti, la cancellazione del 100% del debito per i Paesi che ne hanno bisogno e l’abolizione del protezionismo dei Paesi ricchi nel settore agricolo. Questo, assieme alla crescita che migliorerà la capacità produttiva dell'Africa, agevolerebbe l'attività commerciale africana in un sistema internazionale più equo. Servono dunque investimenti per colmare l’abisso che separa l’Africa dai Paesi industrializzati e il cancelliere dello scacchiere Gordon Brown ha indicato una via percorribile mediante l' “International Finance Facility”, una struttura finanziaria internazionale, autorizzata a piazzare obbligazioni sui mercati finanziari internazionali. Al governo Blair, fautore di questa politica, è stato obiettato da più parti che qualcuno i debiti li deve comunque pagare. E il cancelliere ha prontamente replicato che Londra è disponibile a pagare il 10% dell’ammontare del debito dei 42 Paesi più poveri. Ma ha anche chiesto al Fondo Monetario Internazionale di vendere una parte delle sue ingenti riserve auree per riequilibrare i conti. Tornando al rapporto sull’Africa, la commissione ha il merito di aver colto l’importanza della questione sociale, istruzione e sanità in testa, come essenziale per la realizzazione del diritto di cittadinanza. Viene spontaneo chiedersi se la via africana di Blair sia davvero praticabile dal punto di vista attuativo. Varie sfide si profilano all’orizzonte, la prima delle quali consiste nel riconciliare la politica degli investimenti stranieri con gli interessi della gente comune, soprattutto se per investimenti s’intende privatizzare beni essenziali come l’acqua. Il rischio della svendita a compagnie straniere delle immense ricchezze dell’Africa, come finora è capitato in molti Paesi africani, è praticamente scontato e di questo passo gli africani rischiano di dover pagare anche l’aria che respirano. Altra questione cruciale è quella del debito. Se infatti è vero che alcuni governi occidentali hanno concluso accordi sulla remissione del debito con non pochi Paesi africani, non va dimenticato che banche e privati in genere non hanno mai fatto sconti all’Africa. Come ben evidenziato nell’ultimo rapporto 2004 dell’Unctad, l’agenzia delle Nazioni Unite preposta allo studio dello sviluppo e del commercio, sono molti di più i soldi che l’Africa restituisce regolarmente al Nord del Mondo che quelli elargiti dai Paesi ricchi. E questo perché i governi africani sono strangolati dagli interessi imposti dall’alta finanza, poco importa che si tratti d’istituti di credito internazionali o quant’altro. Concludendo su Blair, non v’è dubbio che alla commissione voluta dal Premier inglese deve essere riconosciuto il merito di aver denunciato non poche ingiustizie “ad intra” e “ad extra” perpetrate ai danni del Continente. Ciò non toglie che per passare dalle parole ai fatti sarà necessaria una vera conversione, rispetto alla cinica real politik di governi, proprio come quello di Londra, che continuano a proteggere i loro paladini in terra africana. Un esempio emblematico è il presidente ugandese Yoweri Museveni, al potere dal gennaio del 1986, con il quale Londra intrattiene ottime relazioni nonostante l’agenda dei diritti umani sia l’ultima delle preoccupazioni delle autorità di Kampala. Per non parlare delle tante guerre africane, a cui abbiamo già accennato, che sotto la copertura dello scontro interetnico celano gli interessi di politici corrotti al soldo di poteri occulti legati guarda caso all’alta finanza mondiale.
Sarà stato per eccesso di colonialismo o chissà per quale altra velleità, ma un giorno, tornando da un suo viaggio in terra africana Harold Macmillan definì il continente come una sorta d’ “ippopotamo galleggiante nelle paludi”. A quel tempo, nel 1960, il primo ministro della Corona di Sua Maestà ebbe la brillante idea di tornare in patria dal Sudafrica a bordo di un piroscafo che impiegò ben dieci giorni di navigazione prima di avvistare le bianche scogliere di Dover. Gli anni che seguirono crearono non pochi grattacapi agli inquilini del “Numero 10 di Downing Street”. Harold Wilson, ad esempio, fu costretto a fare i conti a malincuore con la dichiarazione unilaterale d’indipendenza della Rhodesia bianca (oggi Zimbabwe), mentre James Callaghan dovette confrontarsi con la pulizia etnica contro gli asiatici, attuata dal folle presidente Idi Amin Dada. A differenza dei suoi predecessori, l’attuale premier britannico, Tony Blair, ha invece un debole per l’Africa e la sua politica diverge sensibilmente sia da quella dei laburisti vecchio stile, sia da quella dei conservatori. D’altronde va considerato che nel suo Paese, per religione, filantropia e passioni coloniali depurate, un numero consistente di cittadini inglesi contribuisce economicamente, nell’ordine delle centinaia di milioni di sterline, alle grandi Organizzazioni non governative del calibro di “Oxfam” e “Save The Children”. Rispondendo ai maligni, che gli consigliano caldamente di occuparsi delle faccende nazionali, Blair ha risposto dicendo che “l’Africa è una cicatrice sulla coscienza del mondo”, stigmatizzando le miserie che affliggono il Continente. Ma non è tutto qui: leggendo i suoi discorsi pubblici, anche recenti, questa consapevolezza è sempre stata associata alla convinzione che l’Africa, nel bene e nel male, rappresenti una grande opportunità, soprattutto economica. Per questa ragione, lo scorso anno, istituì la Commissione per l'Africa affidandole il compito di elaborare un piano di rilancio globale del Continente. Il punto di partenza del rapporto è incentrato sulla povertà e soprattutto sullo stato di stagnazione economica in cui versa l’intero Continente. L’intento è quello di dimostrare, attraverso un’attenta analisi, che esiste una ricetta: una politica riabilitativa capace di generare tassi di crescita economica fino al 7%, mettendo l'Africa in carreggiata per conseguire gli obiettivi per lo sviluppo del 2015, nell'ambito dei Goals del Millennio fissati dalla comunità internazionale nel 2000. Di fronte a questo scenario, il rapporto stigmatizza le responsabilità della comunità internazionale che può e deve offrire maggiori risorse al Continente africano. La Commissione chiede pertanto il raddoppio degli aiuti, la cancellazione del 100% del debito per i Paesi che ne hanno bisogno e l’abolizione del protezionismo dei Paesi ricchi nel settore agricolo. Questo, assieme alla crescita che migliorerà la capacità produttiva dell'Africa, agevolerebbe l'attività commerciale africana in un sistema internazionale più equo. Servono dunque investimenti per colmare l’abisso che separa l’Africa dai Paesi industrializzati e il cancelliere dello scacchiere Gordon Brown ha indicato una via percorribile mediante l' “International Finance Facility”, una struttura finanziaria internazionale, autorizzata a piazzare obbligazioni sui mercati finanziari internazionali. Al governo Blair, fautore di questa politica, è stato obiettato da più parti che qualcuno i debiti li deve comunque pagare. E il cancelliere ha prontamente replicato che Londra è disponibile a pagare il 10% dell’ammontare del debito dei 42 Paesi più poveri. Ma ha anche chiesto al Fondo Monetario Internazionale di vendere una parte delle sue ingenti riserve auree per riequilibrare i conti. Tornando al rapporto sull’Africa, la commissione ha il merito di aver colto l’importanza della questione sociale, istruzione e sanità in testa, come essenziale per la realizzazione del diritto di cittadinanza. Viene spontaneo chiedersi se la via africana di Blair sia davvero praticabile dal punto di vista attuativo. Varie sfide si profilano all’orizzonte, la prima delle quali consiste nel riconciliare la politica degli investimenti stranieri con gli interessi della gente comune, soprattutto se per investimenti s’intende privatizzare beni essenziali come l’acqua. Il rischio della svendita a compagnie straniere delle immense ricchezze dell’Africa, come finora è capitato in molti Paesi africani, è praticamente scontato e di questo passo gli africani rischiano di dover pagare anche l’aria che respirano. Altra questione cruciale è quella del debito. Se infatti è vero che alcuni governi occidentali hanno concluso accordi sulla remissione del debito con non pochi Paesi africani, non va dimenticato che banche e privati in genere non hanno mai fatto sconti all’Africa. Come ben evidenziato nell’ultimo rapporto 2004 dell’Unctad, l’agenzia delle Nazioni Unite preposta allo studio dello sviluppo e del commercio, sono molti di più i soldi che l’Africa restituisce regolarmente al Nord del Mondo che quelli elargiti dai Paesi ricchi. E questo perché i governi africani sono strangolati dagli interessi imposti dall’alta finanza, poco importa che si tratti d’istituti di credito internazionali o quant’altro. Concludendo su Blair, non v’è dubbio che alla commissione voluta dal Premier inglese deve essere riconosciuto il merito di aver denunciato non poche ingiustizie “ad intra” e “ad extra” perpetrate ai danni del Continente. Ciò non toglie che per passare dalle parole ai fatti sarà necessaria una vera conversione, rispetto alla cinica real politik di governi, proprio come quello di Londra, che continuano a proteggere i loro paladini in terra africana. Un esempio emblematico è il presidente ugandese Yoweri Museveni, al potere dal gennaio del 1986, con il quale Londra intrattiene ottime relazioni nonostante l’agenda dei diritti umani sia l’ultima delle preoccupazioni delle autorità di Kampala. Per non parlare delle tante guerre africane, a cui abbiamo già accennato, che sotto la copertura dello scontro interetnico celano gli interessi di politici corrotti al soldo di poteri occulti legati guarda caso all’alta finanza mondiale.