GENNAIO 2013
E tu, da che parte stai? - La relazione d’intimità come fonte di senso e impegno
E tu, da che parte stai?
La relazione d’intimità come fonte di senso e impegno
Gv 15,1-11
15,1 Io-Sono la vite, quella vera, e il Padre mio è l’agricoltore.
2 Ogni tralcio in me che non porta frutto, lo toglie
e ogni (tralcio) che porta frutto, lo monda perché porti più frutto.
3 Già voi siete mondi per la parola che vi ho parlato.
4 Dimorate in me io in voi.
Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non dimora nella vite,
così neppure voi se non dimorate in me.
5 Io-Sono la vite, voi i tralci.
Chi dimora in me e io in lui, questi porta molto frutto,
perché senza di me non potete far nulla.
6 Se qualcuno non dimora in me, è gettato fuori come il tralcio
e si secca e li raccolgono e gettano nel fuoco e bruciano.
7 Se dimorate in me e i miei detti dimorano in voi,
qualsiasi cosa volete, chiedete e vi avverrà.
8 In questo è glorificato il Padre mio, che portiate molto frutto
e diventiate per me discepoli.
Come il Padre amò me, anch’io amai voi;
dimorate nell’amore, il mio.
10 Se osserverete i miei comandi, dimorerete nel mio amore,
come io ho osservato i comandi del Padre mio e dimoro nel suo amore.
11 (Di) queste cose ho parlato a voi affinché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.
Nel momento più tosto di tutta la sua vita Gesù di Nazaret non è concentrato sul suo ombelico. E’ il tempo della passione più forte, il commiato dai suoi amici e spinge il suo amore fino alle estreme conseguenze (Gv 13,1). Lava i piedi come lo schiavo faceva al padrone (Gv 13,5), dà il pane a Giuda il traditore, come si faceva con l’ospite più importante, incoraggia i suoi promettendo un posto con lui (Gv 14,2) e l’invio dell’energia vitale, lo Spirito dell’amore (Gv 14,16-17), parlando di una relazione unica con il Padre, di simbiosi e fusione. Parla di vita nei pressi della fine. Come Comboni ai suoi sul letto di morte, ancora e sempre con l’Africa in cuore: “Io muoio ma la mia opera non morirà”.
All’inizio del capitolo 15 la svolta. Quell’unione viscerale con il Padre non è esclusiva perché Dio non esclude mai. Sempre accoglie e sempre ama (1 Gv 4,8). E’ possibile anche ai suoi, a noi oggi, entrare in quel circuito di amore e di abitazione reciproca dove umanità e divinità si prendono per mano. Come il vino, simbolo di amore e della divinità, che si mescola nell’Eucarestia all’acqua, simbolo della vita e dell’umanità rinnovata.
L’evangelista allora come fa a passare un messaggio del genere? Con un immagine forte. Che tocca il cuore e l’immaginario della sua gente di campagna. Dopo le tre V con cui Gesù si identifica e afferma la pienezza della condizione divina (Io-sono) (via, verità, vita) (Gv 14,6) è il turno della quarta. La vite: simbolo del popolo fin dal profeta Isaia (Is 5,1-7). La quale, senza il Padre-vignaiolo (Gv 14,11) che se ne prende cura, è persa. Mai senza l’altro! tuonava forte il documento della Commissione Giustizia e Pace della CIMI (Conferenza degli Istituti Missionari Italiani) nel 2008 per difendere i fratelli e sorelle immigrati, i volti al plurale del Dio dei poveri.
Nel Primo Testamento Dio aveva una vigna. Nel secondo è la vigna. Passaggio obbligato dall’avere, accumulare e possedere all’essere finalmente sé stessi, felici insieme agli altri. Non sei perché hai, sei perché vivi. E non ti lasci vivere. Il sogno di ogni giovane come si deve!
Sì la vite. Immagine bucolica che ci rimanda all’impegno urgentissimo oggi di proteggere il creato e di praticare la giustizia ambientale e non la green economy, il lifting del capitalismo. Conseguenze dell’eucarestia incarnata nella vita (Gv 13). Qui rischiamo di brutto, come denuncia il Forum Comboniano a Rio de Janeiro (in giugno 2012, Rio+20), di fronte all’ennesimo fallimento del vertice dell’Onu sullo sviluppo sostenibile nel documento Riconciliazione con la creazione:” In contrasto con l’estrema docilità delle creature, garanzia dell’armonia primordiale (Baruc 3,32-35), oggi la Terra è minacciata più che mai, oggetto di avidità, manipolazione e tirannia, violentata e schiavizzata per servire interessi vili e meschini. Il grido dei poveri, che si alza un po’ ovunque, è anche il grido della Terra che reclama rispetto e giustizia”.
Il frutto che si tocca con mano? Il vino, simbolo dell’amore (Ct 2,4), quello che non può mancare ad una festa che si reputi tale (Gv 2,1-11). Qui da noi in Ciad è la bevanda tradizionale, la Bili-Bili, ricavata dal miglio fermentato. Frutto di mani devastate dai calli che tolgono le erbacce nel lavoro del sarclage con la houe (zappa), di sudore che cola abbondante sotto il sole cocente, di fatiche inenarrabili. Ma anche della gioia di lavorare, cantare, mangiare e bere assieme nei campi. Come l’esperienza di Wangari Maathani, la donna kenyana che “piantava gli alberi”, impegnata per la difesa del creato. Fondatrice del Green Belt Mouvement (Movimento della Cintura Verde) nel 1977, e premio Nobel della Pace nel 2004, ha lottato tutta una vita contro la deforestazione intuendo che sull’ambiente ci saremmo giocati una partita decisiva per le sorti dell’umanità.
E se il miglio non è abbondante? Da noi si mette l’engrain, il concime. Un po’ come il purificare del vignaiolo. Quel Padre che provoca nel vivo coloro che ama (Ap 3,19). Non si accontenta, perché vuole abbondanza di raccolto, di vita e di gioia (Gv 10,10; 15,11). L’amore non ha limite, cresce a dismisura, non si conta, non si quantifica. Si rigenera morendo, come il chicco nella terra (Gv 12,24).
Basta (dici poco!) la Parola. Ascoltata, accolta, meditata, condivisa, vissuta! La logoterapia di Gesù che guarisce. Parola che diventa dimorare in lui (Gv 15,7). Si fa strada e carne viva. Ecco l’unione che dà frutto, il centro della vita cristiana: la relazione personalissima con Gesù di Nazaret. Quella che ha portato Charles de Foucauld a spendere la sua vita con i tuareg del deserto in Algeria. Una ricerca appassionata, un contatto, una presenza che non sai più se è Lui che ti abita o tu che sei dentro. Un innamoramento. Un abbandono totale: “Padre mio, mi abbandono a te. Di me fai quello che ti piace”.
“Noi missionari siamo dei mendicanti dell’amore di Dio” mi diceva un giorno in bicicletta il mio grande amico e confratello Enzo Balasso. Non vuoto spiritualismo disincarnato, ma contemplazione che si fa lotta per la giustizia. Soltanto qui la forza per resistere e andare avanti perché finalmente non ti appartieni più. “La mia vita vi appartiene. Vi appartenga anche la mia morte” diceva Lele Ramin, missionario comboniano, alla sua comunità prima di essere ammazzato in Brasile nel 1985.
Noi tralci, della vite vera. Gambe, mani, cuore oggi di Gesù di Nazaret nelle Galilee del mondo. L’unica Bibbia scritta con le nostre vite e ferite. Parola incisa sulla nostra pelle. Niente senza di lui, ma tutto possibile in lui e con lui (Fil 4,11), anche cose più grandi di quelle che ha fatto (Gv 14,12). Perché la Buona Notizia scorre ancora nelle vene aperte di questa nostra terra e storia. Unico modo per essere discepoli e par far vivere l’umanità e i poveri, la vera gloria di Dio.
I frutti della terra hanno prezzi che in Africa volano alle stelle. I poveri faticano a produrli su terre rubate da multinazionali e Stati (fenomeno del land-grabbing) ed ad acquistarli. Frutti di giustizia e pace, insieme agli altri dello Spirito (Gal 5,22) e al pane quotidiano cercasi disperatamente! Il mondo ha fame e sete di miglio, grano, riso. Tocca a noi oggi placare sete e fame, cambiare radicalmente stili di vita, schiodare i crocifissi dalle croci, rendere abitabile il pianeta per tutti. Altrimenti la dimora in Dio è falsa e vana, puzza di marcio, omissione di soccorso super-aggravata, connivenza e complicità con il sistema di morte.
Un teologo sudafricano rincara la dose: “Non mi interessa sapere chi sia Dio. Mi basta sapere da che parte sta”.
E tu da che parte stai?
P. Filippo Ivardi