La figura di Bapu
Gandhi (cioè “papà”, amava farsi chiamare così; non
sopportava Mahatma – grande anima -) come educatore
conferma il corollario che l’educazione impartita è sempre il
frutto di un’educazione ricevuta.
Prime persone di
rilievo i genitori. Il padre gli insegna la sincerità e
l’onestà anche in politica e la tolleranza in tutta la varietà
delle sue manifestazioni: il perdono, l’ascolto dell’alterità,
il rispetto verso l’opinione, la fede nel prossimo. La madre
gli indica la strada dell’impegno mantenuto ad ogni costo, della
forza scaturente dall’abnegazione e del sacrificio, della
dedizione totale alla propria missione esistenziale (dharma).
La madre prevale e diviene il punto focale del suo mondo infantile e
adolescenziale, finendo poi per assumere in quello maturo la statura
di un archetipo, cui tutte le altre presenze femminili debbono
tendere a somigliare. Tra le lotte costanti di M. K. Gandhi vi erano
l’annullamento delle discriminazioni nei confronti degli Harijan
(intoccabili o fuori casta) e delle donne.
A tredici anni, come
era di prassi in India (nel 1883), Gandhi si sposa con
Kasturbai. Lei, sin dai primi anni, gli mostra quanta forza si possa
sviluppare quando, convinti della bontà e della fermezza per una
causa (quello che, più avanti, Gandhi chiamerà con il neologismo satyagrahi,
ovverosia “forza della verità”). Kasturbai gli insegna ad
accorgersi della forza che un’incrollabile adesione alla propria
verità poteva dare all’individuo, causandone la vittoria prima di
tutto di principio e poi senza alcun ricorso alla violenza fisica o
morale (basti ricordare la non violenza attiva). A tal riguardo la
moglie fu per Gandhi una vera palestra di vita, che gli permise di
allenarsi in esercizi più ampi e diversificati rispetto a quelli
proposti dalla madre, pur essendo entrambi inseriti nel medesimo
spirito di sacrificio, consapevolezza di dovere obbedienza al
proprio dharma. “E’ stata mia moglie ad insegnarmi la
non violenza quando ho tentato di piegarla alla mia volontà. La sua
ostinata resistenza da un lato, e dall’altro la sua paziente
sottomissione alle sofferenze che la mia stupidità le causavano
hanno fatto sì che infine mi vergognassi e la smettessi di credere
di avere per natura il diritto di dominare su di lei”.

il giorno del loro matrimonio, quando entrambi avevano 13 anni.
E’ a partire dalle
prime esperienze di ciò in Sudafrica (è di quegli anni il primo Ashram,
comunità ove vivono persone di differenti religioni, condizioni
socioculturali, ecc.) che Gandhi attinge da varie fonti la sostanza
di ciò che diventerà la sua prassi: la lettura del Gita indù,
la scoperta di alcuni aspetti del pensiero sociologico cristiano,
quali in Tolstoj e Thureau (statunitense, autore di acute analisi
sulla disobbedienza civile), il costante confronto con il
“discorso della montagna” nel Vangelo di Matteo e con seguaci di
altre religioni non indù. In tale ottica Gandhi non cesserà in
alcun momento di far raggiungere alla moglie i livelli di vita
sempre più austeri ed ascetici (che significa, dal greco askesis,
disciplina) che egli per primo andava adottando (se riusciva lui, lo
proponeva anche agli altri che vivevano con lui o con tutti coloro
con cui intrecciava la sua vita, personalmente e persino tramite
riviste o quotidiani, “Harijan” e “Young India”):
rinuncia ai privilegi di casta connessi, per esempio,
all’esenzione da certe incombenze basse ed umilianti, quali la
pulitura delle latrine, a favore dell’impiego del dhoti,
tipico vestito degli ‘intoccabili’ confezionato a mano con
cotone indiano, abolizione di qualsiasi cibo ghiotto e preferenza
per una dieta ogni giorno più parca e vegetariana, riduzione
drastica del ricorso a cure della medicina occidentale sino alla
cancellazione, negli ultimi anni di vita, della sessualità nella
vita coniugale.
Kasturbai, in tal
modo, parteciperà, insieme al marito a tutte le sue lotte,
esponendosi personalmente; e fu legata a lui da un così assoluto
rapporto di fedeltà da giungere quasi all’adorazione tributata
alla divinità (cosa ben diversa dal retaggio delle discriminanti
relazioni tra uomo e donna incentivate nell’induismo). Analoghe
analisi che ritroverà nelle donne indiane nei suoi numerosi viaggi
in treno e nelle ‘campagne’, nell’intimo del nucleo famigliare
e nelle sue seguaci europee (una su tutte: Madeleine Slade, chiamata
da Gandhi “Manu”). E’ la donna, dunque, che gli diventa
personificazione della forza creativa, non solo in quanto genitrice
di figli, ma anche, e soprattutto, in quanto loro educatrice;
personificazione dello spirito di sacrificio e di dedizione, in
quanto fedele compagna e collaboratrice del marito nei compiti che a
lui competono. Ogni donna racchiude naturalmente in sé queste
potenzialità, ma le situazioni contingenti individuali possono
impedirne o limitarne la realizzazione; così stava succedendo
nell’India coloniale, dove l’antico retaggio di sottomissione e
arretratezza femminile, in qualunque ambiente religioso –
culturale del paese, soffocava lo sviluppo e la fioritura
dell’immensa riserva di energia e fattività insita nella
popolazione femminile. Di conseguenza, Gandhi cerca con
insistente pervicacia di inserire tra i suoi amici, discepoli,
collaboratori, quante più donne possibile. Prima le rende
consapevoli, ove già non lo siano, dei valori profondi di cui sono
portatrici; poi le stimola a rendere questi ultimi validi strumenti
di lotta contro gli oppressivi usi e costumi, contro l’ignoranza e
il degrado sociale, contro la schiavitù di qualsiasi tipo:
culturale, religiosa, morale, politica, economica.
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