ALL’OSSERVATORIO SUL SINODO AFRICANO: TEOLOGI AFRICANI DISCUTONO DI INCULTURAZIONE E LIBERAZIONE
di Giampaolo Petrucci (Adista 105/09)
di Giampaolo Petrucci
(Adista 105/09)
Le intuizioni arrivano da lontano, e precisamente da
quei "teologi delle catacombe" (secondo la felice
definizione di Jean-Lèonard Touadi, v. Adista n. 103/09) che per
primi ebbero il coraggio di reclamare una Chiesa meno romana e più
africana, capace di celebrare nelle proprie lingue e di esprimere la
fede in Cristo a partire dal proprio universo simbolico e
concettuale. Per queste rivendicazioni, molti teologi, espressione
del fermento ecclesiale africano (come Jean-Marc Ela, Engelbert Mveng
e Meinrad Pierre Hebga), furono esclusi, nel 1994, dalla prima assise
e costretti ad incontrarsi clandestinamente, negli scantinati della
capitale o nelle parrocchie lontane dalla casa di Pietro. A causa di
anche di questa storica censura e del ben noto "provincialismo"
dei media nazionali, l’Italia è oggi all’oscuro di quello che in
Africa si muove in campo teologico. E purtroppo gli intellettuali che
per primi parlarono di "inculturazione" e di "liberazione"
sono quasi tutti morti.
Proprio a partire dalla memoria dei padri della teologia africana, il
13 ottobre scorso, presso la Libreria Dehoniana in via della
Conciliazione, il missionario comboniano p. Alex Zanotelli ha
introdotto il terzo incontro dell’Osservatorio sul Sinodo, promosso
dalla Conferenza degli Istituti missionari in Italia (Cimi) e
dall’Unione Cattolica Stampa Italiana del Lazio (Ucsi). Intorno al
tavolo, 4 teologi africani, formati intorno ai paradigmi di teologia
dell’inculturazione, di teologia della liberazione e di teologia al
femminile.
Adoukonou : ‘inculturazione’ come ‘liberazione’
Ad aprire le danze, il rev.
Barthélemy Adoukonou, sacerdote secolare del Benin e Segretario
generale della Conferenza episcopale regionale francofona dell’Africa
dell’Ovest (Cerao). La colonizzazione europea è stata condotta con
violenza fisica e culturale: questo è testimoniato, spiega
Adoukonou, dal fatto che la teologia africana si è sempre fondata
"sulla metodologia di ricerca e sul patrimonio concettuale
occidentale". Per liberare la teologia africana occorre allora,
afferma, "fare i conti con la propria storia", per
comprendere nel profondo che "le categorie del pensiero
occidentale in Africa non sono adatte" ad interpretare
l’universo simbolico culturale e quindi ad agire concretamente sui
problemi che vive l’Africa. Un primo successo in questa direzione,
ricorda il teologo, è stato segnato da Giovanni Paolo II nel 1992 e,
11 anni dopo, dal Secam (Simposio delle Conferenze episcopali di
Africa e Madagascar), con le visite all’Isola di Gorée, in
Senegal, luogo della memoria e simbolo della tratta degli schiavi.
Tanto nella ricerca teologica quanto nella più generale "ricerca
di senso – chiarisce dunque Adoukonou – è necessario passare
dall’africanismo ‘dal di fuori’ all’africanismo ‘dal di
dentro’", adeguando il pensiero teologico ad una più ampia
"teoria dell’intellettualità comunitaria". Leggere la
Parola di Dio alla luce del sistema comunitario locale (ossia, il
processo di "inculturazione"), afferma il sacerdote,
realizzerebbe già una evidente forma di "liberazione".
Ma c’è un altro passaggio che la Chiesa, soprattutto in Africa,
deve compiere: deve farsi portatrice di una "parola profetica".
"Non è sufficiente guardare i fenomeni con compassione –
chiarisce – ma occorre andare fino in fondo", anche quando
"dire la verità" può condurre al martirio.
Santedi: "Prospettive di teologia dell’invenzione"
Altro
teologo formato alla scuola dell’inculturazione, Kinkupu Leonard
Santedi, sacerdote, congolese, membro della Commissione Teologica
Internazionale, decano della Facoltà di Teologia di Kinshasa e
Segretario generale della Conferenza episcopale della Repubblica
Democratica del Congo. Santedi affronta il tema dell’inculturazione
nella prospettiva di "una riappropriazione del Vangelo nella
cultura africana", così come indicava il card. Joseph Malula
nell’allora Congo Belga: "Ieri gli europei hanno evangelizzato
l’Africa, oggi gli africani devono africanizzare il cristianesimo".
Per
Santedi, l’inculturazione può essere interpretata a partire da tre
misteri. In primo luogo, l’incarnazione: così come "il Verbo
si è fatto carne" in Israele – ma successivamente si è
affermato nel mondo greco e poi latino – allo stesso modo "la
Parola può e deve incarnarsi nella cultura africana". Secondo,
il mistero pasquale, che è morte e risurrezione: "Il Vangelo
entra nelle nostre culture, si adatta e le modifica, generando una
continua dinamica di rottura e di continuità qualitativa".
Infine, il mistero della Pentecoste: "È il momento in cui, dopo
aver ricevuto la Parola, si annuncia la novità che si manifesta
nell’incontro tra il Vangelo e la nostra cultura". Queste le
fondamenta della "teologia dell’invenzione" promossa da
Santedi: è necessario, afferma, "metter in campo l’immaginario
creativo per inventare una nuova maniera d’essere Chiesa, d’essere
africano, d’essere cittadino nella società, attento ai segni dei
tempi a alla concretezza dei popoli".
Tre le figure di sintesi di questo approccio. Il profeta, attento
ai momenti di rottura che si verificano sul piano sociale, è
portatore di una "parola profetica", "parla a nome di
Dio per far conoscere l’oggi di Dio dentro l’oggi delle nostre
società". In tal senso, il profeta "annuncia il vero volto
di Dio che è un Dio d’amore" e "denuncia tutto ciò che
annichilisce e annienta l’uomo, immagine di Dio". Seconda
figura, il saggio, "attento invece alle armonie, che propone
un’arte di vivere, direi anche un’etica, una nuova maniera di
abitare il mondo". Così, l’Africa fornisce anche
all’Occidente nuovi modelli di convivenza corresponsabile,
rispettosa dell’uomo e dell’ambiente. Ultima figura, il poeta,
"particolarmente attento alla categoria della novità,
dell’avvenire e del futuro". "Il poeta – chiarisce
Santedi – può evocare la primavera quando siamo in pieno inverno,
può guidarci verso un domani che ci dona una nuova visione del
futuro" a partire dalla realtà e dai drammi di oggi. La
prospettiva, conclude, è quella dell’Apocalisse, quando afferma:
"Ecco, io faccio nuove tutte le cose".
Okure: La cultura, dna delle persone e delle teologie
A rappresentare la "teologia al
femminile", suor Teresa Okure, nigeriana, decano della Facoltà
di Teologia al Ciwa (Catholic Institute of West Africa) e membro del
Comitato scientifico della rivista Concilium. "La cultura –
afferma – è il dna delle persone. Che sia giusta o sbagliata non è
un nostro problema. Dico solo che è impossibile esaminare qualunque
cosa che sia umana fuori dalla prospettiva culturale". Per
questo motivo, afferma, in linea con la scuola dell’incultu-razione,
"la missione del Ciwa è promuovere una teologia che ha a che
fare con la vita concreta e che costruisce la fede all’interno
delle comunità". Agli studenti suor Okure chiede "di
entrare nell’esistenza e nelle esperienze culturali delle persone e
dopo, lentamente, farle incontrare con il Vangelo". Si badi
bene, specifica poi, "l’incontro è con il Vangelo, e non con
il cristianesimo", modello culturale carico di sovrastrutture
europee. Ad essere precisi, critica, "qualcosa è mancato anche
nell’incontro tra la cultura europea e il Vangelo, altrimenti non
avremmo avuto la schiavitù o le crociate e oggi forse non ci sarebbe
bisogno di un sinodo per l’Africa".
Interessante, poi, l’approccio
"sistemico" adottato da Teresa Okure: i problemi che il
Continente deve affrontare non sono esclusivamente africani, ma sono
"umani". E spiega, mimando quanto afferma: "Così come
una gamba storta mette fuori equilibrio l’intero corpo, allo stesso
modo un dramma africano destabilizza tutta l’umanità".
Ugualmente, attacca poi, "se le donne nella Chiesa ancora non
sono integrate questa non è una questione di teologia della
liberazione o teologia femminista, ma è un problema della Chiesa
intera, che non sarà mai davvero liberata".
Bujo: parole uguali, teologie diverse
L’ultimo intervento è affidato ad uno dei più noti teologi d’Africa: Bénézet Bujo, prete della Repubblica Democratica del Congo, docente di Teologia Morale e Etica Sociale all’Università di Friburgo e alla Facoltà cattolica di Teologia di Kinshasa. "Ho iniziato i miei studi nel momento in cui papa Paolo VI pubblicava l’enciclica Humanae Vitae", dice, "che si focalizzava intorno alla cosiddetta ‘legge naturale’. Poi ho approfondito il significato di questa ‘legge naturale’ negli scritti di S. Tommaso d’Aquino, che erano a fondamento dell’enciclica". E qui, ricorda, sta l’illuminazione: "S. Tommaso d’Aquino parlava all’interno del contesto europeo di quel tempo e quindi non era possibile universalizzare quanto da lui detto". Ed è proprio a partire da questo lavoro che il teologo dice di aver cominciato a parlare di "contesto africano". Il fatto poi di aver insegnato in Congo, in Kenya e in Svizzera, lo ha posto di fronte al problema dei differenti "modi di fare teologia". I fondamentali concetti di "vita" e di "famiglia", rappresentano universi di significato spesso molto lontani tra le culture europee e quelle africane. Ad esempio, la "vita", concetto che in Europa è conchiuso nella parabola esistenziale che va dall’embrione alla morte fisica, in Africa è invece un’esperienza più ampia: è un continuum, cioè, che comprende anche il prima e il dopo, gli avi e i figli non-nati ma comunque "viventi" nei progetti della comunità intera. Allo stesso modo, il concetto di "famiglia", molto caro alla dottrina cattolica europea: "Quando si parla di famiglia si parla di comunità, si guarda al di là di quello che si pensa qui in Europa. La famiglia, poi, si estende fino a contemplare la relazione con i defunti". La famiglia, inoltre, comprende anche le "alleanze" e i patti di sangue. Questo spiega perché, durante il genocidio ruandese del 1994, la solidarietà tra "alleati" ha salvato molte persone dal massacro, mentre i battezzati continuavano ad uccidersi tra loro. L’idea di una famiglia e di una vita che superano le contingenze dell’esistenza fisica, afferma infine il teologo, fa pensare al dibattito dell’Occidente sulle problematiche ambientali. Quando si dice: "Che mondo lasceremo ai nostri figli, ecco, questo è un modo di pensare che in Africa esiste da sempre".