Lettera dal campo di Palermo-Lampedusa.
Confini porosi e culture permeabili. A muro il mare!
È giunto il momento più difficile dopo aver vissuto un’esperienza forte come quella del campo alla Zattera: non è semplice provare a racchiudere una settimana di vita piena in poche righe.
Non avevo tanta voglia di partire. Avevo tante cose da fare, potevo lavorare di più, prendere più soldi e pagarmi le vacanze, prepararmi per gli esami. Però avevo bisogno di staccare, spegnere il cervello. Vorrei dare un nome a questa cosa che ho dentro che mi spinge ad andare. Parto, è il mio primo viaggio in solitudine. Arrivo a Palermo presso “La Zattera”, una comunità di laici comboniani che ci ospita per una settimana insieme ad altri sette ragazzi provenienti da diverse province d’Italia. Il nostro gruppo è relativamente piccolo, solo otto ragazzi ma pieni di curiosità, capaci di ascoltare e di lasciarsi contaminare. Tra noi è nata presto una sincera sintonia e questo ci ha permesso di condividere emozioni e riflessioni profonde in un clima di rispetto e accoglienza.
Oltre alle famiglie di laici con i loro figli, alla Zattera abitano alcuni giovani africani, tra cui una donna con una bimba di 4 anni. Avevo la valigia piena, come il mio ego. Due giorni e c’è solo il vuoto.. Parlo con ragazzi che potrebbero essere mio fratello, ma io lui lo vorrei su un barcone in mezzo al Mediterraneo? Quanto mi vergogno di essermi lamentata anche solo del freddo. Ma io cosa ne so di cosa é il freddo? Vorrei non ascoltarle certe storie, non mi sento pronta ad ascoltarle.
Ma è proprio grazie alle loro storie se ho imparato ad avere un nuovo sguardo sul mondo della migrazione, ad abbattere le barriere dell’indifferenza, gli stereotipi, le mie paure per permettere l’incontro autentico con l’Altro. All’inizio del campo ci è stata consegnata una spugna, simbolo dell’esperienza che avremmo vissuto. Come una spugna, che assorbe dentro di sé e poi rilascia, così anche noi dobbiamo essere delle spugne che assorbono e fanno proprio quello che incontrano e ascoltano per poi condividerlo e ridare vita.
Le mattine siamo andati a trovare dei ragazzi migranti minorenni non accompagnati, ospitati in alcuni centri in giro per la città. Con loro abbiamo vissuto momenti di quotidianità: passeggiate, fare la spesa, cucinare insieme. Momenti semplici durante i quali le nostre vite si sono incrociate e raccontate. Perché è proprio il raccontarsi la chiave che apre la porta verso l’altro.
I pomeriggi erano sempre viaggi di scoperta: alla scoperta di noi stessi nei laboratori artistici, e alla scoperta del territorio nelle varie testimonianze. Abbiamo avuto la fortuna di ascoltare le storie di molte realtà diverse, anzi, completamente diverse tra loro, ma che insieme hanno creato una rete fittissima con un unico obiettivo, cioè quello di prendersi cura dell’altro. Abbiamo conosciuto vissuti, gioie, dolori, difficoltà, vittorie, ma soprattutto tantissima speranza. La Palermo che ho incontrato grazie a questa esperienza è quella che si impegna, quella che non si accontenta, quella che cerca riscatto, quella che ti accoglie come straniero e ti lascia andare come fratello.
Mi resta dentro l’aver incontrato testimoni, adulti e giovani, credibili di un cambiamento possibile, che parte dal piccolo e dal qui e ora. Persone che hanno detto: io ci sono. Perché no? Perché non rischiare i nostri risparmi per aprire un ristorante meticcio, valorizzando il nostro quartiere difficile attraverso la potenza dell’incontro attorno alla tavola? Perché lasciare annegare le persone costrette ad attraversare il Mediterraneo quando abbiamo competenze, marinai, attivisti, sanitari, mercantili in disuso.. perché non possono essere le nostre, di mani, a tirarli in salvo? Perché lasciare le stanze delle nostre case vuote quando possiamo essere famiglia per figli venuti da un altro grembo, cresciuti sotto altri alberi, e approdati stanchi fino a noi? Perché occuparmi solo del mio piccolo, anche se sono venuto da lontano senza portare niente con me, e invece non battermi per i diritti di tutti, fondare un’associazione, fare politica, lottare per un cambiamento?
Loro, e tanti altri testimoni che abbiamo incontrato in questo campo, ci sono stati. Ci hanno dimostrato che per ognuno di noi è possibile agire, essere, sognare.. oltre. Non accontentarci.
Tutti i momenti che ho vissuto, le storie che ho ascoltato, i paesaggi che ho ammirato avevano come sfondo il mare. Il Mediterraneo, storicamente luogo di scambi e di intrecci, può diventare una barriera naturale. Un ostacolo che mette a rischio la vita di milioni di persone che vogliono salvarsi, riscattarsi e riprendere in mano la loro vita. Persone che guardano il nostro stesso mare ma dalla riva opposta, come dice una canzone di Niccolò Fabi. Una riva da cui si parte e che non sempre conduce a un’altra terra.
Per fortuna però, qualcuno giunge all’altra riva e questa è la storia delle persone che ho incontrato, abbracciato e ascoltato. Persone con cui ho creato un’amicizia e che hanno lasciato la loro impronta nel mio cuore. Aprire le orecchie e mettersi in ascolto. Questo è uno degli insegnamenti che ho tratto da questa esperienza. Ogni voce ha il diritto di essere ascoltata perché ciascuno di noi ha una storia da raccontare. Apriti, effatà!
Non ho trovato solo testimoni e amici. Qui ho trovato dei genitori in altri abiti: potrei trasferirmi qui e sentirmi come a casa davvero. Perché mi sento ascoltata, compresa e rido. Rido tanto e mi diverto. Le famiglie comboniane che ci hanno accolto ci hanno trasmesso come trasformare lo straordinario in ordinario, quella famosa “accoglienza”, che purtroppo in molti sentono lontana, alla Zattera è vissuta come normalità.
Il mio desiderio è proprio questo: vedere persone aprirsi verso gli altri, permettere alle nostre vite di mescolarsi. Siamo entrati in relazione profonda con l’altro, fino a sfumare i confini, fino a ritrovaci noi stessi Altro.
Quello che mi resta dentro dopo questo campo è un seme di speranza. Non so come e quando fiorirà. So che è stato generato da grandi alberi maestri.
Elena, Elisa, Erica, Gael, Giovanni, Giorgia, Letizia, Martina
Vivo in un mondo bianco e nero
e mi lamento della mia vita
Tu hai rischiato la tua per averne una come la mia
Vivi in un mondo nero e bianco
E tu non pronunci bene alcune parole della mia lingua
Io non trovo le parole giuste per affrontare la tua storia
Vivo in un mondo bianco e nero
Io odio l'acqua salata
Tu te la sei dovuta far piacere
Vivi in un mondo nero e bianco
E i nostri occhi hanno i colori delle cose
Che ci spaventano: il buio e il mare
Vivo in un mondo bianco e nero
Pensavo di essere piena
La tua anima mi ha reso vuota
Vivo in un mondo
Bianco e nero
Ma quando ridi
E io rido con te
Sento dentro il ponte
Dell'arcobaleno