Lasciamoci guidare dalla Parola di Gesù che fa una domanda molto precisa a tutti noi: e noi, chi serviamo? Serviamo alla ricchezza del Mondo, al denaro, o serviamo a Dio?
Cioè, chi è il Dio della nostra vita? Un "Dio" che non può offrire nulla, e che inganna, come il denaro, o un Dio come Gesù?
Pensiamoci su meditando sulla Parola di Gesù, il passo di Matteo Mt 6,24-34!
catechesi gim 19/2/2023
in ascolto attivo della Parola del Signore!
CAMMINO GIM
“A chi servi?”
Mt 6,24-34
Padova, 19 febbraio 2023
IN ASCOLTO DELLA PAROLA: Mt 6,24-34
Diceva ancora ai suoi discepoli: “Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro.
Non potete servire a Dio e a mammona. Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito?
Guardate gli uccelli del cielo: non séminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita?
E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede?
Non preoccupatevi dunque dicendo: ‘Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?’. Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno.
Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena”.
IL CONTESTO
Per comprendere il messaggio di Gesù è importante conoscere la situazione socio-politico-economico-religiosa della Palestina del primo secolo, un paese che non era libero ma faceva parte delle conquiste dell’impero romano come quasi tutte le terre attorno al Mediterraneo.
Per incarico dell’imperatore, la Palestina era governata da un procuratore il quale aveva a disposizione circa 3 mila soldati per reprimere eventuali ribellioni.
Inoltre, Roma governava questo territorio tramite l’aristocrazia sacerdotale, che amministrava il Tempio, e le elite locali, attraverso cui succhiava il sangue ai poveri facendo uso di tasse ogni volta più esorbitanti.
Chi non riusciva a pagare e si indebitava fortemente finiva col perdere il proprio campicello, la casa e perfino la propria libertà, finendo in schiavitù lui, sua moglie e i suoi figli.
Non è esagerato sostenere che nella Galilea del tempo di Gesù, almeno l’80% della popolazione viveva al di sotto della soglia della povertà. Inoltre, c’era una grande massa di poveri, ciechi, sordomuti, storpi, paralitici, lebbrosi, ecc., i quali non potevano lavorare, e per cui erano costretti a chiedere l’elemosina per sopravvivere.
I vangeli ci raccontano che queste persone, oltre che dalla malattia, erano anche colpiti dal disprezzo e dal rifiuto di tutti perché considerati peccatori; la malattia, infatti, era ritenuta un castigo di Dio per qualche peccato commesso dal malato o dai suoi genitori. Così era anche per chi faceva la fame e non aveva più un luogo dove dimorare.
Nella Bibbia ci sono dei passi che ne danno conferma; per esempio “Il povero è odioso anche a chi gli è pari, ma numerosi sono gli amici del ricco (Pr 14,20); Il Signore non lascia che il giusto soffra la fame, ma respinge la cupidigia dei perfidi (Pr 10, 3); Inoltre ad ogni uomo, al quale Dio concede ricchezze e beni, egli dà facoltà di mangiarne, prendere la sua parte e godere della sua fatica: anche questo è dono di Dio. Egli infatti non penserà troppo ai giorni della sua vita, poiché Dio lo occupa con la gioia del suo cuore“ (Qo 5,18-19).
E’ in questa realtà che emerge la figura di Gesù come di un uomo che vive tra la sua gente e ne condivide la resistenza all’oppressione dei poteri forti. In quanto lider di un progetto di rinnovamento popolare, Gesù offre il regno di Dio agli impoveriti per i quali esso significava da un lato, cibo a sufficienza e cancellazione dei debiti, dall’altro dare vita a comunità capaci di vivere mettendo in pratica quei valori e principi di giustizia, cooperazione e solidarietà che vedremo poi espressi in Atti 4,34, espressione tangibile del sogno di Dio.
Nella sinagoga di Nazareth Gesù illustra la sua missione nell’ottica della restaurazione del regno di Dio a favore dei derelitti e degli infelici e del conseguente annuncio del vangelo ai poveri (Lc 4,16-21). Un chiarimento simile si ritrova nella risposta da lui data ai 4 messi di Giovanni Battista, con il sottinteso che proprio il suo rivolgersi ai poveri poteva costituire motivo di scandalo per gli stessi credenti (Mt 11,2-6).
In particolare, Gesù cercherà di aiutare la gente a prendere coscienza del fatto che il cambio verso una società altra, dove a regnare è lo Spirito di Dio e non quello del mondo, solo può suscitarsi dal basso, solo può venire dalla gente comune che subisce la sopraffazione dei potenti di turno (Mt 5,1-12).
IL TESTO
Il testo che oggi analizziamo si trova all’interno del lungo Discorso della Montagna con il quale Gesù presenta il “programma” del Regno ai suoi discepoli (Mt 5–7), fortemente legato alla sua stessa scelta di vita: abbracciare un’austerità solidale mettendosi a lato degli impoveriti, luogo teologico della presenza amorevole del Padre. Pertanto, Dio può essere servito solo da coloro che promuovono la solidarietà e la fraternità; al contrario, chi si affanna per accrescere la propria ricchezza senza preoccuparsi dei bisognosi, sta impedendo la nascita di una nuova società fraterna voluta da Dio.
v.24 Gesù avverte i suoi che la sete di possesso, anziché portare serenità, è causa di ansia, fonte inesauribile di inquietudine che divora l’animo della persona divenuta preda del dio mammona. Ognuno, quindi, dovrà fare la propria scelta; dovrà chiedersi: “Chi pongo al primo posto nella mia vita: Dio o mammona?” Da questa scelta dipenderà la comprensione dei consigli che seguono sulla Provvidenza Divina (Mt 6,25-34).Non si tratta di una scelta fatta solo con la testa, bensì di una scelta di vita ben concreta che ha a che fare anche con gli atteggiamenti.
Dio e “Mammona” sono due padroni assoluti. Essi chiedono di assorbire tutto l’uomo, la sua persona, le sue preoccupazioni, il suo tempo. Non si può quindi contemporaneamente servire l’uno e l’altro. Ricordiamo che in ebraico le parole emunah (= fede) e mammona appaiono imparentate fra loro per la costante della loro comune radice mn, la stessa che poi ritroviamo in quella espressione aramaica molto utilizzata nella liturgia, cioè Amen! Mammona è la sostanza, la solidità, ciò che dà sicurezza, cioè che è solido e su cui si può costruire: il fondamento. Gesù, in questo testo sapienziale, invita i suoi discepoli a fare una scelta: o vi fondate su Dio o vi fondate su dell‘altro. Il verbo adoperato da Gesù è però il verbo servire: “Nessuno può servire a due padroni!”.
In greco padrone è tradotto con il termine Kýrios. Quindi, non potete avere due Signori, non potete servire a Dio, chiamandolo Signore, e contemporaneamente servire ad altri beni, ricchezze, fondamenti, chiamandoli ugualmente Signore. Di Signore ce n’è uno solo, dovete scegliere chi volete servire. E‘ bene pero comprendere che chi sceglie mammona distrugge la sua vita e al contempo alimenta un sistema che è sempre causa distruzione e morte, ieri come oggi.
Il popolo d’Israele ne sapeva qualcosa, in particolare per quella esperienza paradigmatica di schiavitù vissuta in Egitto, e dalla quale era stato liberato da Yahvè con mano potente; avrebbe dovuto capire, già allora, che i beni della terra sono un dono di Dio per tutti, e pertanto avrebbe dovuto stabilire come fondamento sociale un’economia di giustizia.
San Giovanni Crisostomo ha un’espressione molto profonda: “Non condividere con i poveri i propri beni è defraudarli, è togliere loro la vita. Non sono nostri i beni che possediamo: sono dei poveri” (IV secolo d.C.).
Interessante, a questo proposito, anche l’affermazione del teologo Enrico Chiavacci, quando dice che Gesù ci ha consegnato 2 precetti fondamentali di etica economica validi per quanti vogliono essere suoi discepoli. Il primo precetto è: “Non cercare di arricchirti! ” Il secondo precetto è: “Se hai, hai per condividere! ”.
Eppure la disuguaglianza nel mondo di oggi batte tutti i record; i nuovi dati di OXFAM denunciano gravi ingiustizie economiche e sociali. E mentre il patrimonio dei più ricchi cresce a ritmi sempre più impressionanti, aumenta anche la povertà estrema nel mondo. Secondo la Banca Mondiale stiamo probabilmente assistendo al più grande aumento di disuguaglianza e povertà globale dal secondo dopoguerra. Interi Paesi rischiano la bancarotta e quelli più poveri spendono oggi quattro volte di più per rimborsare i debiti rispetto a quanto destinano per la spesa pubblica in sanità.
Da questa breve analisi, emerge soprattutto un dato: per la prima volta in 25 anni aumentano allo stesso tempo la ricchezza estrema e l’estrema povertà. Il fatto poi che l’1% più ricco del Pianeta si sia aggiudicato il 63% dell’incremento della ricchezza globale, segna un altro dato storico: viene battuto il record dell’intero decennio 2012-2021, in cui il top-1% aveva beneficiato di poco più della metà (il 54%) dell’incremento della ricchezza planetaria.
Contemporaneamente, la FAO (= Food and Agriculture Organization of the United Nations) ci comunica che oggi, nel mondo, 1 persona su 10 sulla Terra soffre la fame, mentre ogni anno buttiamo via qualcosa come 1 miliardo e 300 milioni di tonnellate di cibo buono.
Questo (dis)ordine di cose si mantiene grazie alla fabbricazione di armi che servono per difendere gli interessi dei potenti di turno. Nel 2020, il 10% del mondo, per difendere la propria ricchezza, ha speso 1981 miliardi di dollari in armi; nello stesso anno, la spesa militare in Italia ammontava a 23,8 miliardi di dollari, pari all‘1,3% del PIL italiano. Ovviamente, questo sistema economico-finanziario-militarizzato sta pesando così tanto sul nostro pianeta da mettere a rischio l’intero ecosistema, oltre a esacerbare il già faticoso fenomeno migratorio; e così c’è chi fugge dalla fame, chi dalle guerre e chi dai disastri climatici, e non saranno certo i muri o i fili spinati o i poliziotti a fermarli.
v. 25: Di fronte a questo scenario, è bello rivolgere il nostro sguardo verso papa Francesco; egli, come, Giovanni XXIII, H Camara, Giuseppe Dossetti, Giacomo Lercaro (…), continua a sognare e a impegnarsi per una Chiesa povera e solidale con gli impoveriti della terra e per una Chiesa – comunità cristiana che non si lascia ammaliare dalle ricchezze di questo mondo che portano con sé solo dolore, paura e affanno accumulandole per sé. Gesù non ha bisogno di gente sempre agitata; se si è presi da queste cose, difficilmente, si potrà lavorare per quello che veramente conta: rendere visibile la bellezza del “Regno di Dio”.
v. 26 - 32: L’immagine degli “uccelli” e quella successiva dei “gigli del campo” sono state spesso fraintese: non sono un invito all’ingenuità e al disimpegno. Gli “uccelli” erano ritenuti insignificanti, ed erano esclusi dalla benedizione dell’ebreo sugli animali. Se gli uccelli “non seminano e non mietono” non significa che non fanno nulla; seguono semplicemente l’istinto, e l’istinto del cristiano è seguire il disegno di Dio, anzi il disegno del Padre. Sì, perché dobbiamo comprendere che il cuore di tutto il Discorso della Montagna è la nostra relazione filiale con l’Abbà, senza la quale la proposta di vita di Gesù è semplicemente dura e utopistica. Ecco, allora, che la parola di Gesù apre il discepolo alla consapevolezza che la propria vita, pur nella fatica e nel lavoro quotidiano, non dipende, in profondità, dalla smodata cura che l’uomo ha per sé, ma dal Padre celeste a cui domandiamo ogni giorno il pane quotidiano. Possiamo, quindi, scorgere nel parole di Gesù una immensa fiducia di Gesù nella provvidenza del Padre, la sua unica ricchezza, il suo unico tesoro, che non gli farà mancare nulla di tutto ciò di cui ha bisogno per vivere dignitosamente e da figlio amatissimo.
Conviene, però, aggiungere subito che la provvidenza di Dio suppone la collaborazione di ogni persona; gli uccelli non mancano di nutrimento, ma il cibo se lo vanno a cercare (2Ts 3,6-12). La fiducia totale nel Padre, non toglie l’impegno della comunità per procurarsi i beni necessari. L’invito, quindi, è a impegnarsi nel lavoro quotidiano, senza che questo sia impostato e vissuto sul criterio dell’accumulo, ma su quello della condivisione. Quando la comunità vive e opera con questo obiettivo, tutto il resto sarà dato in abbondanza. Vivere e occuparsi della crescita del Regno dei cieli in mezzo a noi significa, allora, rinunciare alla bramosia di possedere e scoprire, invece, la gioia del condividere.
Vivere per il bene degli altri, soprattutto per coloro che sono ritenuti un ‘esubero’ dalla società, consente al Padre di prendersi cura dei suoi figli/e.
v. 33-34: Gesù adesso ci dice di che cosa deve preoccuparsi il suo discepolo: cercare prima il Regno di Dio e la sua giustizia. Il Regno di Dio deve stare al centro di tutte le nostre preoccupazioni. Il Regno richiede una convivenza, dove non ci sia accumulazione, ma condivisione in modo che tutti abbiano il necessario per vivere. Il Regno è la nuova convivenza fraterna, in cui ogni persona si sente responsabile dell’altra. La vita, infatti, ha un’estensione molto più ampia di ciò che sembra riempirla (cibo, vestiti, cose, denaro ecc.), e il credente è chiamato a guardare tutto ciò che compone e serve alla vita dalla prospettiva del Regno, dalla prospettiva di Dio: allora ogni cosa sarà data in aggiunta, cioè acquisterà il suo giusto valore.
Oggi, sebbene viviamo dentro un sistema che ammazza per fame, impoverisce sempre più gente, ammazza il pianeta e ci sta portando a un punto di non ritorno, c’è ancora una chance, una speranza di riuscire a ravvivare la speranza nel cuore di quanti si ribellano a tutto ciò. Questo qualcosa è il Regno di Dio e la sua giustizia, che, riassumendo, significa creare relazioni corrette secondo il sogno di Dio; vale a dire, spazi di equità, solidarietà e fratellanza con tutta l’umanità. Preoccuparsi del Regno e della Sua giustizia è lo stesso che cercare di stabilire una relazione di familiarità con Dio come Padre Nostro, e tessere relazioni di fratellanza e sororità con tutti. Per questo, se vogliamo recuperare la nostra convivialità, dobbiamo ritornare ad incontrarci e a lavorare insieme sulla base del Bene Comune. In questo senso in Italia abbiamo una realtà molto interessante, fatta di piccoli gruppi che si stanno dando da fare; solo gli manca la voglia di unirsi e formare un grande movimento capace di partecipare attivamente ai tavoli di discussione come dovrebbe fare un movimento che ha sviluppato una coscienza politica e si presenta come soggetto politico.
Cerchiamo, allora, per primo il regno e la giustizia di Dio! La Parola del Regno è parola efficace che cura l’ansia e l’affanno dell’uomo per tutto ciò che non procura un tesoro nel cielo. Se il discepolo respira la Parola del suo maestro, allora riuscirà a superare il pericolo del soffocamento e a vivere da figlio. La sua prima vera occupazione è un ascolto attento della Parola e una condotta di vita profondamente ispirata a essa.
Vivere in pienezza
Anche Daniele Comboni, nella sua vita di apostolo dell’Africa, visse giocandosi tutto per rendere visibile il Regno di Dio e la sua giustizia. Egli era cosciente di trovarsi di fronte a una missione che appariva impossibile, tanto che nel 1860 il Vaticano aveva pensato di chiuderla. Decine e decine di missionari erano morti, Comboni stesso ci era andato molto vicino nella sua prima spedizione (1857-59) che arrivò alla missione di Santa Croce, nell’attuale Sud Sudan. Oltre al clima estremo e alle malattie per cui allora non c’erano cure, anche l’ambiente socio-politico era difficile. Da un lato la dominazione del Sudan da parte degli inglesi e degli egiziani, dall’altro il diffuso commercio di africani schiavizzati non facevano vedere “i bianchi” di buon occhio. In più, l’ambiente musulmano rendeva ancor più difficile la nascita di comunità cristiane. Inoltre, ci si doveva addentrare in territori sconosciuti, con mezzi di fortuna, senza sicurezze e con costi altissimi.
Ma Comboni segue la sua ispirazione, certo della sua autenticità, e sceglie di giocarsi tutto: la missione diventa il senso, la pienezza della sua vita, indipendentemente dai risultati. Percepisce che lo Spirito sta preparando una nuova epoca e lui si lascia coinvolgere in questa realtà, si rende strumento nelle mani di Dio.
La sua determinazione è totale: riprende il motto di Garibaldi (“Qui si fa l’Italia o si muore!”), proclamando “O Nigrizia o morte!”, cioè sceglie di impegnarsi in un cammino senza reti di salvataggio, senza sicurezze perché gli africani possano fare esperienza dell’incontro con il Risorto che trasforma la vita, le relazioni e le strutture sociali ingiuste. Crede fermamente che ciò che conta sia la fedeltà alla missione, a prescindere dal vedere i risultati immediati, o il successo del proprio lavoro.
Il suo modello era Gesù di Nazareth capace di trasformare la vita del suo popolo passando attraverso grandi avversità, tra queste la più dolorosa e scioccante: l’essere messo a morte in croce. La testimonianza di vita di Gesù è balsamo per il Comboni, fonte d’ispirazione, coraggio e forza di scegliere di andare avanti sempre, nonostante i propri limiti, le fragilità, gli insuccessi, le calunnie e le ingiustizie che dovrà sopportare.
L’esperienza della missione gli fa comprendere come la venuta del Regno di Dio annunciata da Gesù si faccia strada sempre attraverso le difficoltà. Lo sperimenta quando si schiera dalla parte degli africani, si impegna per la giustizia sociale, esponendosi personalmente per liberare gli africani ridotti in schiavitù, per i diritti umani, per il riconoscimento della loro dignità e per lo sviluppo del loro potenziale. Arriva così a promuovere la genesi di una società alternativa, più fraterna, solidale, umana: la comunità agricola di Malbes (El Obeid) in Sudan è un villaggio in cui gli africani vivono in una comunità sostenibile, libera dalla schiavitù e dallo sfruttamento.
Oggi viviamo in mondo in cui c’è tanta indifferenza, anzi l’altro ormai appare ai miei occhi come un ostacolo; la Chiesa, e noi siamo parte di essa, non può annunciare il vangelo in Europa senza prima smascherare le sue contraddizioni e la sua disumanizzazione, e senza porsi quelle domande che sono indispensabili per una vera trasformazione. Per esempio, domande come:
perché ci sono tante persone che ancora oggi muoiono di fame, se Dio c’ha dato una terra che ha risorse sufficienti per tutti?
Perché dobbiamo adottare lo spirito di competizione tra noi e tra i popoli, e non lo spirito di solidarietà?
Perché alimentiamo il consumismo come filosofia di vita, che provoca in noi una spirale insaziabile di bisogni artificiali e che ci va svuotando di spirito e sensibilità umanitaria? E del consumismo non è facile liberarsene; esso penetra in noi in forma sottile e ci domina. Erick Fromm diceva: “l’uomo può essere uno schiavo senza catene”; come liberarci da questa schiavitù se viviamo credendo di essere liberi?...
A partire da queste domande, e da tante altre che possono presentarsi lungo il percorso, proviamo a vivere secondo ciò che ci umanizza e ci rende davvero felici insieme agli altri!
P. Antonio D’Agostino,mccj
PER LA RIFLESSIONE
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Quale logica senti che ti appartiene di più: la logica dell’accumulo o quella della condivisione?
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Dove senti che sta il tuo “tesoro”? Per chi o per cosa realmente vivi?
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Che tipo di Chiesa sogni?
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Qual posto occupa Dio nelle tue scelte quotidiane?
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Cosa possiamo fare concretamente per limitare le diseguaglianze e le iniquità fra i popoli?