OrmeGiovani scritto da padre Saverio Paolillo e pubblicato nel numero di Nigrizia di gennaio 2017
Il clima di fraternità che regna tra i membri della comunità cristiana di Gerusalemme descritta da Luca nei primi 5 capitoli degli Atti degli Apostoli è messo a dura prova. Otre alle minacce esterne, appaiono i primi conflitti interni. A innescare la crisi è la discriminazione delle vedove del gruppo degli ellenisti nella distribuzione dei donativi. Non si tratta di una semplice mancanza di carità nei loro confronti, ma del sintomo di un problema più profondo: la tensione tra gruppi differenti.
C’era da aspettarselo. Con il passare degli anni la comunità cresce. Arrivano nuovi membri che portano con sé la loro alterità. Costituita inizialmente da cristiani provenienti dal giudaismo tradizionale, la chiesa di Gerusalemme non è ancora pronta a ricevere persone che provengono da altre culture ed esperienze religiose. Molti dei suoi membri formano l’ala conservatrice e tradizionalista della chiesa. Nonostante la conversione al cristianesimo, continuano a seguire le tradizioni giudaiche, tra le quali anche quelle di stampo settario che, contraddicendo il Vangelo, promuovono la discriminazione. Fanno fatica ad aprire le porte per accogliere le differenze come dono reciproco, valorizzarle e integrarle tra di loro in una comunione che è tanto più ricca quanto più è diversa. Per loro, tutti quelli che la pensano diversamente costituiscono una minaccia alla “ortodossia”. In difesa della tradizione impongono ai “diversi” un’unica alternativa: l’omologazione o l’esclusione. È la difficoltà che rischia la Chiesa in ogni epoca, quando, dominata dalla paura del suo proprio coraggio profetico, evita il confronto con gli altri, mette a tacere le voci discordanti, si rifiuta di leggere i segni dei tempi e preferisce arroccarsi sul passato votandosi ad un’opera di conservazione e restaurazione. Una Chiesa che vive così dimostra un’insufficiente fiducia nello Spirito Santo, il quale non può essere ingabbiato e sequestrato in un «pezzo» di istituzione che ne pretende l’esclusiva. Una comunità ecclesiale che si chiude in sé puzza di muffa. Invece di essere un segno dinamico del Regno, inserito nella storia attuale, presente nella vita delle persone, solidale con i più poveri e aperto al dialogo con tutti, diventa un asilo di persone che trovano rifugio in rituali e tradizioni del passato che non hanno niente a che vedere con il suo vero patrimonio che è il Vangelo. Benvenuti a bordo della Chiesa tutti coloro che l’aiutano ad aprire porte e finestre alle continue incursioni dello Spirito e a scrollarsi di dosso quelle sovrastrutture, spacciate come tradizioni cristiane destinate «a maggior gloria di Dio», ma che sono soltanto invenzioni umane per alimentare il narcisismo dei prelati, sfoggiare lusso e garantirne il potere. Tutto ciò costituisce una negazione dell’essenza del Vangelo.
A mettere in subbuglio la chiesa di Gerusalemme sono gli Ellenisti. Nati e cresciuti fuori dalla Palestina, erano conosciuti come i Giudei della diaspora. A contatto con altre mentalità, soprattutto con la cultura greca di cui avevano adottato la lingua, hanno una visione più aperta. Costituiscono l’ala più avanzata, aperta e critica del giudaismo tradizionalista. Coloro che tornano a Gerusalemme mantengono le loro sinagoghe e costituiscono un gruppo a parte. Alcuni di loro, entrati in contatto con la comunità cristiana, si convertono al cristianesimo, rincarando la dose di critiche contro quelle tradizioni giudaiche promotrici di pregiudizi, da cui i cristiani conservatori non si erano ancora liberati.
Con il loro arrivo alla chiesa di Gerusalemme viene a mancare l’omogeneità dell’originaria comunità cristiana favorita dall'appartenenza ad un'unica etnia e cultura, quella giudaica. Esplode il conflitto. Serpeggia il malcontento, ci sono lamentele, corrono voci di favoritismi e disparità di trattamento. L'aiuto della comunità alle persone disagiate - vedove, orfani e poveri in genere -, sembra privilegiare i cristiani di estrazione ebraica rispetto agli altri. Gli Apostoli non negano il conflitto né lo mascherano per paura di danneggiare l’immagine della comunità che, pochi capitoli prima, Luca descrive come ideale. “La comunità unanime – scriveva p. Silvano Fausti - non è un frullato dove tutti sono simili. Siamo tutti uguali, ma diversi: ognuno è quello che è, nella sua unicità. I nostri limiti e i nostri doni però non sono luogo di difesa e aggressione, ma di comunione nel reciproco scambio di ricevere e dare. Solo le dittature, anche e soprattutto quelle anonime del mercato, hanno bisogno di cancellare la persona e omologarla, identificandola con il proprio prodotto". I dissidi non si risolvono facendo finta di niente. Vanno affrontati. Si dirimono "discutendo, esaminando, pregando", "non con le chiacchiere, le invidie, le gelosie" (papa Francesco). Nella mentalità comune, i conflitti sono visti come una minaccia da rimuovere e da evitare. Ci strappano dal nostro quieto vivere. Fanno tremare le nostre solide posizioni. L’istinto di conservazione e di autoaffermazione crea sospetto, chiusura, diffidenza, boicottaggio reciproco, resistenza alla novità. I conflitti spaventano perché, per l’immaturità degli interlocutori, per la radicalizzazione delle proprie posizioni e per l’incapacità di lasciarsi mettere in discussione, sfociano in litigi in cui si perde di vista l’argomento in questione e entra in gioco il desiderio di vincere a qualunque costo. In realtà il conflitto non è un campo di battaglia dove il punto di vista dei più forti prevale su quello dei più deboli, ma una palestra dove ci si allena all’ascolto, all’accoglienza e alla valorizzazione delle differenze. È un terreno di gioco dove tutti vincono. È un’opportunità di crescita. Un campo fecondo da coltivare per raccogliere uno stile di vita più creativo. La vita senza conflitti è scialba. Produce persone monotone, grigie, dominate da una tendenza prepotente, fanatiche, unilaterali e ammalate dalla sindrome di dominazione. Il confronto tra idee diverse apre nuovi cammini da percorrere insieme verso una comprensione sempre più sorprendente e arricchente della realtà.
È questa la strada percorsa dagli Apostoli che convocano una riunione per discutere il problema e arrivare a una soluzione che favorisca la crescita della comunità: la scelta di sette diaconi ellenisti che si occupano esclusivamente dell’assistenza ai poveri così che gli Apostoli possano dedicarsi al servizio della Parola di Dio. Finora gli Apostoli facevano tutto da soli. Le nuove necessità della chiesa li obbligano a decentralizzare il potere e condividere servizi e responsabilità con altre persone. La crisi diventa un’opportunità per riorganizzare la vita della comunità e darle un nuovo formato più funzionale al servizio del Vangelo. Dalle difficoltà nasce un nuovo ministero nella chiesa: il diaconato inteso non come un gradino della scala gerarchica, ma come un servizio ai più poveri. La decisione non è imposta. Spetta alla comunità scegliere quelli più adatti a questo nuovo servizio.
Luca non ci offre i particolari della discussione che, sicuramente, deve essere stata abbastanza accalorata, ma ci tiene a dire che tutto avviene in clima di preghiera. È bello vedere questo confronto schietto tra i pastori e i fedeli che insieme arrivano ad una soluzione senza cedere alla tentazione di litigare o di promuovere quegli intrighi che creano divisioni. Alla fine della riunione gli Apostoli impongono le mani sui sette diaconi per trasmettere loro il dono dello Spirito che è l’Amore. Le persone scelte per il servizio ai poveri devono essere al di sopra di qualunque sospetto, non possono badare ai propri interessi, devono essere libere dalla sete di potere ed essere, soprattutto, impregnate della stessa Carità che sgorga dalla relazione amorosa che avvolge il Dio trinitario. La Carità, infatti, è il dono dello Spirito indispensabile all’esercizio di qualsiasi ministero all’interno della comunità. L’apostolo Paulo ci ammonisce abbondantemente su questo tema quando ci allerta che senza la Carità tutto ciò che facciamo non serve assolutamente a niente (1Cor 13).
P. Saverio Paolillo
Missionario Comboniano