OrmeGiovani scritto da padre Saverio Paolillo e pubblicato nel numero di Nigrizia di novembre 2016
“Non ci potrà essere nessun bisognoso in mezzo a voi” (Dt 15,4).
Questo testo biblico era scolpito in un vecchio pezzo di legno all’entrata di un villaggio di pescatori del nord-est brasiliano. Non si trattava di un condominio di lusso, ma di un gruppo di case semplici abitate da persone umili che condividevano tutto quello che avevano. Il clima di fraternità era evidente. L’accoglienza nei miei confronti fu calorosa. Era quasi l’ora di pranzo quando decisi di salutarli. Non volevo disturbare. Non avevo avvisato del mio arrivo e mi rendevo conto che un commensale in più avrebbe ridotto ulteriormente le porzioni destinate a ciascuno di loro. Ma non ci fu verso. Una donna anziana insistette molto perché rimanessi a pranzo con loro. “Non preoccuparti! – Mi disse con un sorriso dolce che illuminava un volto scavato dalla fatica e bruciato dal sole. - Basta aggiungere acqua nei fagioli e ce n’è per tutti!”. Fu un pranzo semplice, ma il profumo di fraternità lo rese un grande banchetto. Ne uscii con una sensazione di sazietà. Per la prima volta mi alzavo da tavola non con la pancia piena, ma con il cuore gonfio di gioia.
Era così che vivevano i primi cristiani. La comunione fraterna era la loro marca originale. A parlarcene è l’evangelista Luca nel libro degli Atti degli Apostoli. È un tema che gli sta a cuore. Lo cita per ben tre volte (At 2,43-47; 4,32-35 e 5,12-16). Insiste per provocare. La comunione fraterna non può essere ridotta a un fossile della preistoria del “cristianesimo primitivo”, ma è lo stile di vita del cristiano di ogni tempo e di ogni luogo.
Il secondo racconto (At 2,42-47), posto a conclusione dell’avvenimento di Pentecoste, non lascia dubbi: la comunione fraterna è effetto immediato del dono dello Spirito. A partire dalla Pentecoste la vita non può essere la stessa. “Che dobbiamo fare?”, indagano coloro che si sentono trafitti nel cuore dalle profetiche parole di Pietro (At 2,37). Questi non ci pensa due volte. La risposta è lapidaria: “Pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per la remissione dei vostri peccati; dopo riceverete il dono dello Spirito Santo” (At 2,38). Per vivere in comunità bisogna nascere dallo Spirito. Solo lo Spirito può dare in dono l’armonia. “Noi possiamo fare accordi, una certa pace, ma l’armonia è una grazia interiore che soltanto può farla lo Spirito Santo” (Papa Francesco). Quindi, prima di imbarcarsi in una nuova avventura con Gesù e prendere il largo verso un nuovo orizzonte sulla rotta del Vangelo, bisogna rompere con la “generazione perversa” (At 2,40) e scegliere da che parte stare. Il Vangelo non tollera sconti, compromessi al ribasso e intrallazzi con logiche opposte alla sua essenza. Il discepolo di Gesù, attraverso il Battesimo nello Spirito, è reso partecipe della vita di Dio che è comunione di persone e dialogo d’amore. La sua conversione al progetto del Padre che si incarna in Gesù di Nazaret lo tira fuori dal suo guscio, lo obbliga a sciogliere gli ormeggi che lo mantengono attraccato al molo delle sue sicurezze, gli fa issare l’ancora che lo trattiene sulla riva della mediocrità e lo imbarca in un nuovo modello di vita la cui marca essenziale è la comunione fraterna. Sulla barca di Gesù si naviga insieme. È qui che si prova l’autenticità della fede.
Il testo di Luca lo dice chiaramente. Coloro che si convertivano al Vangelo “erano perseveranti nell'ascoltare l'insegnamento degli apostoli e nell'unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere” (At 2,42). “Avevano un cuore solo e un'anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune” (At 4,32).
Le “foto” scattate da Luca provano che è possibile costruire una profonda comunione fraterna tra coloro che aderiscono al Vangelo. Anche oggi è possibile vivere così. Anzi è l’unica alternativa se non vogliamo finire scannati tra di noi. L’unione fraterna e la condivisione dei beni sono gli ingredienti indispensabili per rendere più bella la nostra vita. Si vive bene non quando si vive per sé, contro gli altri e a prescindere dagli altri, ma quando si vive insieme, accogliendosi reciprocamente come membri di un’unica famiglia.
Nel racconto di Luca la prima parola che salta agli occhi dei lettori è “perseveranza”. Questo termine produce allergia nei nostri giorni. C’è una voglia matta di fare esperienze part-time, senza impegni definitivi. La comunione fraterna con la condivisione dei beni, però, non è un’esperienza passeggera, ma lo stile di vita del cristiano. Noi siamo fatti per vivere insieme in armonia fraterna. “La terra serve per vivere e la vita è vivere con gli altri. Se invece fai della terra e dei beni l’oggetto di possesso allora diventi feticista e idolatra, sacrifichi la tua vita alle cose e ammazzi gli altri, sperperi i beni, li usi solo per uccidere i fratelli i quali fanno altrettanto e il mondo diventa l’inferno che conosciamo bene e che fa molta notizia. Però noi non siamo fatti per questo, siamo fatti per una vita bella che qui viene descritta come unione fraterna” (P. Fausti).
Quali sono i pilastri che sostengono la comunità?
Luca ne indica quattro:
L'insegnamento degli apostoli. Non è una dottrina, ma la memoria di un incontro, il racconto di un’esperienza concreta. Gli apostoli comunicano quello che hanno vissuto convivendo con il Maestro. Soltanto chi entra in contatto con questa fonte può sentire il gusto del Vangelo autentico.
La condivisione dei beni. Non è una novità del cristianesimo. Era già presente nella tradizione ebraica: “Non chiuderai la mano davanti al tuo fratello bisognoso, ma gli aprirai la mano e gli presterai quanto occorre alla necessità in cui si trova” (Dt 15,4.7-8). Gesù radicalizza. Per il Maestro l’attaccamento ossessivo ai beni materiali, soprattutto ai soldi, cosituisce un grande intralcio alla vita comunitaria. Al giovane ricco che gli chiede di seguirlo, risponde: “Va’, vendi tutti i tuoi beni, da’ il ricavato ai poveri, poi vieni e seguimi” (Mc 10,21).
La frazione del pane. È la celebrazione dell’eucarestia. La comunità si riuniva nelle case, mangiava insieme e faceva memoria di quello che il Signore, prima di morire, aveva lasciato come tradizione nell’ultima Cena: “Fate come io ho fatto in memoria di me”. Che cosa ha fatto Gesù? Ha preso il pane, lo ha spezzato e lo ha dato a tutti dicendo “questo è il mio corpo”. In quel gesto di Gesù c’è la prova massima del suo amore. La sua vita non Gli appartiene più. È dono agli altri. Nasce così un nuovo stile di vita in cui tutto è dono, tutto è amore. Non si fa comunità se a monte non c’è questa spiritualità eucaristica, cioè, se non c’è disponibilità a donarsi completamente.
Infine, c’è la preghiera, vissuta come esperienza filiale e fraterna. È così che Gesù ci insegna a pregare con le parole del Padre Nostro, preghiera della famiglia. La consapevolezza di essere figli di un unico Padre rafforza i vincoli di fraternità tra di noi. Se il Padre è “nostro”, possiamo dirigerci a Lui soltanto col “noi”. Porsi in atteggiamento di preghiera signfica, pertanto, aprirsi alla comunione fraterna. Il mondo ha bisogno di cristiani che vivono così. La loro testimonianza diventa fonte di irradiazione del Vangelo. Lo stesso Luca lo dice: le comunità cristiane, per la maniera in cui vivevano, attraevano la simpatia della gente (Lc 2,47;4,33; 5,13). Vivere in comunione fraterna è, quindi, la maniera migliore di evangelizzare.
P. Saverio Paolillo