Aprile 2016: UNA GIOIA FUORI PROGRAMMA - Lc 10, 25-37
OrmeGiovani Nigrizia - padre Diego dalle Carbonare
Lc 10, 25-37
Dopo che Gesù si commuove per la grandezza della fede dei semplici, gli si presenta un dottore della legge, uno che di semplice ha poco. E gli pone una domanda strana: “Maestro, cosa devo fare per ereditare la vita eterna?” La parola “ereditare” ricorda tanto il famoso giovane ricco che vede la vita eterna come un’altra proprietà di cui impossessarsi (nel vangelo di Luca, appare in 18,18). Ed effettivamente, molte volte vorremmo comprarci il paradiso, se non la misericordia stessa di Dio, con le nostre buone opere. Come se la religione fosse un mercato. Do ut des. Ti do le mie preghiere, i miei digiuni, le mie messe domenicali, e tu mi dai il paradiso – preferibilmente la prima rata me la dai già in questa vita (non si sa mai).
Da questo punto di vista, non c’è grande distinzione fra cristiani, musulmani, atei o che altro. L’idea che il bene possa essere comprato, che sia un diritto acquisito o acquisibile è un’idea molto umana, da antico testamento, e che ci portiamo dentro tutti. Più che un’idea, forse è una tentazione. Una voce che dovremmo imparare a sentire e a rigettare.
Gesù non si scandalizza del materialismo spirituale del sapientone che gli sta di fronte. Come al suo solito, rilancia con una domanda: “che cosa leggi nella legge?”. E qui il dottore della legge si dimostra almeno un passo più in avanti del giovane ricco. Mentre il giovane ricco farà un elenco dei comandamenti, questo dottore della legge ha trovato il riassunto della legge: i due comandamenti. Amerai Dio con tutto il tuo cuore (che nell’antropologia del tempo non significava i sentimenti come per noi, ma le scelte), con tutta la tua anima, con tutte le tue forze e con tutta la tua mente. E amerai il tuo prossimo con lo stesso amore che hai per te stesso, ovvero: farai agli altri quello che tu stesso vorresti che loro ti facessero. Una sintesi stupenda, che merita un applauso. Altrove nei vangeli è solo Gesù a fare una sintesi tanto breve e tanto densa. Pertanto non c’è da meravigliarsi se Gesù gli risponde “Fa' questo e vivrai”.
Fai questo e vivrai. Non ‘erediterai’, ma vivrai. Da oggi e per sempre, anche se la vita eterna non è una vita “più lunga”, ma una vita più profonda. Che può cominciare oggi, qui. Anche il libro della legge lo aveva detto: chi metterà in pratica questi comandi troverà la vita (Lev 18,5). Il salmo 1 e i profeti avevano pure parlato della legge come di una sorgente d’acqua. E chi ci vive accanto è come albero piantato sulla riva del fiume. Quanto fanno bene le regole. Forse ce ne siamo dimenticati, ma ci fanno bene. Nipoti di un mondo dove le regole erano forse troppe e applicate con troppo rigore, siamo un po’ allergici alla legge. Ne sentiamo il peso, ma non ne riconosciamo la forza. Eppure alcune leggi fondamentali sono come il motore per una macchina: pesanti, sì, ma come andare avanti senza?
Al dottore della legge, che la teoria l’ha capita tutta, non manca il modo di cercare un cavillo da cui uscire. Sente di essersi messo in trappola con le sue stesse mani. Ha quasi l’impressione che questo amore che ha nominato due volte possa chiedergli cose imbarazzanti, compromettenti. E allora spinge il maniglione sulla porta di sicurezza, e cerca di uscire dal retro. Chiede: chi è il mio prossimo?
Amare vuol dire non avere altro in mente che, lasciarsi ossessionare, non darsi pace. È sconfitta, non vittoria. È essere catturati-espugnati, non far violenza-possedere. Quando ai parenti di Gesù arriva la voce che il loro figlio è “fuori di sé”, non arriva solo un pettegolezzo, ma – ironicamente – una descrizione molto azzeccata del messia. Lui è uno fuori, “in uscita”, per dirlo con il linguaggio di papa Francesco. È un messia che non ha tempo per guardarsi nell’ombelico, perchè i suoi occhi sono altrove. In avanti. Con compassione.
Quella compassione che manca al sacerdote del tempio. Educato e formato ai doveri e alla legge, e alla necessità della sua purezza rituale, non perde il suo tempo ad essere umano. No, lui è sopra gli uomini: è mediatore della santità, non può lasciarsi immischiare in questioni contingenti. Facilmente vediamo in questa figura la mediocre burocrazia e finta spiritualità di molti preti e religiosi – anche missionari. E giustamente. Niente di più lontano dalla loro vocazione alla paternità/maternità spirituale. Ma questo stesso distacco in nome della purezza è purtroppo ben più diffuso di quanto ci concediamo di credere. Infatti, ogni volta che puntiamo il dito sugli altri per sentirci superiori, ogni volta che mettiamo i nostri ideali prima della storia dei nostri fratelli e sorelle, siamo operatori di una delle forme più gravi di violenza: l’indifferenza. Peggio dell’indifferenza viene solo il cinismo, perchè se l’indifferenza è spegnere il cervello, il cinismo è usarlo per mettere la gente sotto il tappeto del nostro senso di superiorità.
Anche il levita ha un cuore freddo, che non ha tempo per gli imprevisti. Anche lui preso dal suo lavoro, schiavo delle mete che lui stesso si è posto. Anche lui non ha ancora incontrato Dio Padre, ma crede in un dio padrone, e crede anche che le esigenze rituali del suo ministero vengano prima della misericordia. “Misericordia io voglio, non sacrificio”, dice uno dei ritornelli profetici più amati da Gesù. Ma a quanto pare, fa comodo nascondersi sotto la coperta del “ho fatto il mio dovere”. Il buonsenso è nemico della scandalosa misericordia di Gesù.
Misericordia scomoda
Sì, scandalosa misericordia. Imbarazzante. Chissà con che sentimenti il moribondo si è fatto aiutare da un samaritano. I samaritani erano al tempo i nemici per eccellenza. Per i giudei l’unico “samaritano buono” era il samaritano morto. Questioni tribali, che non sono estranee a noi italiani. Il tribalismo infatti non è una piaga africana o del sud del mondo. È un sistema di pensare e di agire che abbiamo tutti, con l’unica differenza che in Europa lo chiamiamo in modo diverso: regionalismo, razzismo, orgoglio patrio, maschilismo (e anche un certo femminismo), ecc.
Ma il samaritano se ne infischia delle regole dell’etichetta. I dettami del buonsenso li lascia andare e le giustificazioni del suo dovere (avrà avuto anche lui un lavoro da fare, o vogliamo davvero sempre pensare che gli altri – i diversi – son sempre in giro a far niente?) non le ha neppure prese in considerazione. Di fronte ha un uomo moribondo, un sofferente. Questo è quello che conta. Il resto viene dopo. Il samaritano si lascia sprogrammare perchè ha gli occhi aperti.
Mi piace pensare che fosse una persona semplice, molto probabilmente analfabeta. Perchè gli educati e gli elaborati hanno sempre mille modi di tirar fuori scuse per la loro indifferenza. Invece i semplici rispondono ai problemi in modo semplice. Vedono uno in difficoltà e lo aiutano. Non fanno clamore, non scrivono riflessioni sui giornali, non alzano la voce in modo isterico urlando all’ingiustizia sociale. O almeno, non dopo aver risposto al problema che giace alla loro porta.
In un mondo in cui tutto ci dice che possiamo amare solo ciò che conosciamo – ovvero, prima ti denudi di fronte a me e poi ti concedo il mio facebookiano “Mi piace”, questo strano personaggio di Samaria (che poi altri non è che Cristo) ci mostra la verità delle parole di S. Agostino: “conosci solo ciò che ami”. Prima fai il passo di amare, di servire, di lasciarti compromettere, e poi arriverai a conoscere, a capire. Se invece decidi di vivere nel freddo castello del tuo buonsenso, dei tuoi doveri e della tua reputazione, sappi che quel castello si rimpicciolerà fino a diventare la tua tomba.
Ho letto da qualche parte tre versi di William Blake:
ho cercato il mio Dio, ma lui è misterioso
ho cercato il mio prossimo, e ho trovato tutti e tre.
Chissà che la parabola del buon samaritano non ci insegni a lasciarci sprogrammare, ad uscire dal nostro guscio. Allora sarà Pasqua di Resurrezione per tutti noi. Auguri!
padre Diego dalle Carbonare