OTTOBRE 2015: Piccoli gesti di accoglienza
OrmeGiovani ComboniFem - Monica De Spirito
Quando vedi le barche italiane sei felice, lo sai che non sei
arrivato, ma sai che sei salvo. Io sono stato fortunato, non tutti quelli sulla
barca con me hanno visto le navi. Io sì. Molti non le hanno viste. Ora sono
felice, è stata dura la vita può essere molto dura, ma è passato e non voglio
parlarne.
E’ così che Sekou, minore non accompagnato della Costa d’Avorio, ci
racconta del suo viaggio in una notte d’estate. E’ in Italia da cinque mesi e
parla già molto bene l’Italiano. Ha un grande sorriso e occhi profondi, ride
spesso e dice “Mamma mia” per tutto, lui che la madre l’ha persa da piccolo e
che è cresciuto con sua nonna la cui morte l’ha spinto al viaggio perché non
aveva più nulla a casa sua. Lui, Amara, Moussa, sono arrivati assieme su quella
barca ma non si sono parlati fino all'arrivo in Italia, perché “sulla barca non
si parla”. Hanno una gran voglia di lavorare, di darsi da fare ma anche qui non
c’è lavoro eppure farebbero di tutto pur di sentirsi uomini con dignità, quella
dignità data dall'uscire di casa ed essere impegnati tutto il giorno, data dal
sudore e dai calli sulle mani; perché invece l’altra dignità, quella di essere
umano, quel diritto inalienabile che troppo spesso questa Europa addormentata e
stordita dimentica o non vuole vedere, quella dignità dicevamo, ce l’hanno
eccome. Appartiene a loro come a noi e risiede nei loro denti bianchissimi e
nelle gambe lunghe segnate da inequivocabili segni di bruciature di sigarette e
ferite da machete. Ferite di una guerra silenziosa, quella della Libia, del
mercato di schiavi moderno che in Africa ha solo cambiato costa. La Libia… nel
mio immaginario i porti libici non sono molto diversi da quelli della costa
occidentale africana dove sono ancora visitabili i castelli degli schiavi, le
prigioni prima di essere deportati nelle Americhe. Quanto possono essere
differenti? Il Mare è lo stesso anche se cambia nome. Ma questi uomini e donne
decidono di partire a differenza dei loro parenti lontani. Devono partire
perché se restano muoiono. Nessuno lascerebbe casa propria se potesse
scegliere. La domanda che dovremmo farci noi, forse è proprio questa: a loro è
rimasta una scelta?
Sekou abita a Faenza, dopo essere sbarcato in Sicilia. E’ ospitato da
una comunità che accoglie minori non accompagnati e vive lì con altri nove
ragazzi, due suoi compagni di viaggio e poi Afgani, Albanesi e Kosovari. Lui,
Amara e Moussa collaborano attivamente con l’o.n.g. ManiTese nella gestione dei
mercatini dell’usato. E’ in questo contesto che ci siamo conosciuti, al campo
estivo di ManiTese Faenza. Trascorrevano con noi l’intera giornata per poi
tornare a casa entro le 22.30. “A me piacerebbe tanto rimanere qui la sera, ma
non possiamo. E’ che voi qui vi divertite, cantate, ridete a noi invece tocca
tornare in comunità, ma sono un ragazzo come voi e mi piacerebbe rimanere.” E’
la prima volta, da quando sono arrivati in Italia, che si trovano a vivere
un’esperienza così, in mezzo a ragazzi della loro età, a divertirsi a cantare e
ballare. Moussa e Amara hanno già ottenuto il visto umanitario per cinque anni,
sono felici, a Sekou il visto viene concesso un giorno di agosto e ce lo dice a
pranzo sorridendo forte; due anni però, solo due anni, ma lui ridendo dice
“Mamma mia va bene così”.
Abbiamo trascorso assieme dieci giorni, senza mai parlarci veramente
fino all'ultima sera durante la quale, seduti sui nostri materassi, ci siamo
raccontati un po’ delle nostre vite, Sekou, Giovanna ed io. Noi a raccontare
della nostra amicizia e lui a dirci che siamo fortunate ad avere una special
friend, quel amico che nella vita ti rimane accanto nel bene e nel male perché,
come dice Sekou, “la vita è difficile ma è bello avere uno special friend con
cui condividere tutto”. Il suo amico speciale vive a Schio (VI) ora, dopo la
Sicilia è stato mandato in una comunità lì, e Sekou vorrebbe tanto andare a
trovarlo. Durante quella chiaccherata, schietta vera e difficile, perché ci
sono stati momenti in cui lui non voleva raccontare di sé, qualcosa in me è
cambiato. Lo sguardo di quei ragazzi, le parole dirette che ti arrivano al
cuore hanno acceso in me il desiderio di lasciarmi coinvolgere di più in tutto
questo baillame di notizie e vicende di esseri umani. Sono tornata a casa dal
campo col il grandissimo desiderio di “sporcarmi le mani”, di mettermi di
persona a fare qualcosa per quell'umanità in viaggio, fosse anche solo cucinare
qualcosa e portarlo nei luoghi di accoglienza. Non posso più fare finta di
nulla, io che comunque non l’ho mai fatto, ma non riesco più a limitarmi a
stare a casa a scrivere per denunciare. La mia coscienza, il mio desiderio al
momento mi chiama ad altro, a mettere il mio corpo oltre che la mia mente al
servizio, le mie capacità, i miei strumenti. C’è bisogno di fare qualcosa e in
fretta. E allora penso, io sono tornata a casa, a Padova che non è poi così
lontana da Schio e so cosa significa stare lontana dai propri amici, dunque
penso: magari Sekou può lasciare la comunità per un week end e potremmo fare
una gita tutti assieme. Lo scrivo a Sekou e lui è entusiasta dell’idea, già
immagino il suo sorriso grande, gli operatori sono d’accordo ora bisogna solo
trovare il giorno, tuttavia è possibile e finalmente Sekou potrà rivedere il
suo special friend. Ed io sorrido e penso che per tanto tempo non sapevo cosa
fare per aiutare perché mi sentivo troppo piccola davanti alle tragedie del
mare, dimenticando però che ci vuole veramente poco per rendere felice una
persona. Tutti noi nel nostro piccolo possiamo fare qualcosa; non posso certo
salvare il mondo ma posso far sorridere qualcuno. Come ama ricordarmi la mia
special friend molte piccole persone che in molti piccoli posti
fanno molte piccole cose, questo può cambiare il volto del mondo.