DICEMBRE 2012
Passi di liberazione
Passi di liberazione…
Chilometri di riscatto dei "Custodi della bellezza"
Lc 2,15-20
15Avvenne che, quando si
allontanarono da loro verso il cielo gli angeli, i pastori parlavano l’un
l’altro: Andiamo dunque fino a Betlem e vediamo questa parola che è accaduta,
che il Signore ha notificato a noi.
16 E andarono in fretta e
scoprirono e Maria e Giuseppe e il bambino sdraiato nella mangiatoia. 17 Ora
visto, notificarono circa la parola che fu detta loro circa il bambino.
18 E tutti quanti udirono si stupirono
circa quanto si parlava da parte dei pastori verso loro.
19 Ora Maria conservava tutte
queste parole comparandole nel cuore suo.
20 E ritornarono i pastori
glorificando e lodando Dio su tutto quanto udirono e videro come fu detto a
loro.
I Vangeli non sono cronaca di giornale o biografie di Gesù. Nonostante contengano anche fatti storici sono teologia, ricostruzioni della comunità cristiana sul percorso e sul programma di Gesù di Nazaret alla luce della situazione che vivono 30-40 dopo la sua morte. Contengono delle verità, dei messaggi, validi universalmente. Tutta la cornice del Vangelo della comunità di Luca attorno alla nascita di Gesù di Nazaret è ricamata di simboli di povertà, debolezza, emarginazione, esclusione. Simboli del Dio dei poveri e degli ultimi che non esclude nessuno dal suo raggio di azione e di amore. Perché crede profondamente nel cambio di rotta. Crede nell’uomo! Proprio coloro che erano ritenuti i più lontani da Dio si rivelano i più vicini, i primi a farsi avanti. Ad accogliere. Il racconto vuole proprio evidenziare che i casi disperati sono proprio la sorgente della speranza e del nuovo.
Allora la
comunità di Luca come fa a passarci questo messaggio?
1. Usando un linguaggio che tutti possono capire. In Ciad abbiamo 200 lingue locali e difficoltà enormi a riconoscerci popolo, nazione. Ma questo tipo di linguaggio parla dritto al cuore di tutti. Simboli di povertà, di esclusione, di emarginazione che contengono sete di riscatto, liberazione e indignazione rispetto alla costruzione di un mondo dove il 10% della popolazione mondiale ha in mano l’83% delle risorse.
2. Narrandoci di un posto che non c’é. Quello per nascere. E del rimedio nel deposito, quello dove, nelle case palestinesi del tempo, si ospitavano gli animali. E’ per questo che trovano una mangiatoia, non c’è altro. La nostra gente in fondo al Ciad vive in capanne di mattoni cotti al sole e tetti di paglia. Galline, capre ed anatre entrano ed escono più o meno tollerati. Non è raro dormire insieme.
3. Parlandoci di persone miserabili come i pastori. A contatto con le bestie, erano considerati non-persone, gente abbruttita, ladri e criminali. Gente grezza, da evitare ed escludere, che non vale nulla. Come i bambini-pastori del Ciad di oggi, costretti a rincorrere le pecore e i buoi in savana, in praterie fino alla foresta a sud. Venduti dalle famiglie per 6-8 euro, abbandonano prestissimo la scuola e i propri cari, mettendosi al soldo di qualche padrone che neanche hanno mai visto e conosciuto. Non torneranno più a casa. Non sapranno mai leggere e scrivere.
Ma la missione
è cosa loro. Gli ultimi della società sono loro i primi a ricevere la notizia
di una novità che cambia la storia. Evento di liberazione per tutti i poveri.
Nell’Oggi di Dio (Lc 2,11). Non qualcosa di eclatante e potente, ma la
fragilità di un bambino (Lc 2,12). Una debolezza che libera. Come quella dei
nostri bambini schiavi nei mercati di N’Djamena e delle piccole al soldo degli
arabi nelle case della capitale o mutilate nei genitali nelle campagne. Violentate
e umiliate per un niente al giorno. Come faranno a liberare? Indifesi, senza
armi. Gli unici però capaci di far posto al Dio dell’imprevedibile. I soggetti
della missione, dell’evangelizzazione, della liberazione. Mai e poi mai gli
oggetti. Sono loro la “Gloria di Dio”, i
poveri che vivono, come diceva un giorno Oscar Romero.
Gli scartati della storia prendono coraggio e si mettono in cammino. Dicono: “Andiamo!”. Si fidano di sé stessi, il primo passo per fidarsi di Dio. Come stanno facendo i giovani in questi giorni d’estate a Khartoum per protestare contro il governo. Passi coraggiosi in contesti dove le proteste sono represse. “Vediamo” si dicono i derelitti della società. Non solo nell’oggi dell’informazione l’immagine la fa da padrona (là dove non ci sono immagini non si racconta!...é questo il dramma di un'Africa che fa notizia solo se ci sono video o foto). Anche per loro, in quella storia, è importante comprovare con gli occhi. Marciano senza indugio, a piedi scalzi come Baba Simon, grande missionario che si è fatto povero tra i poveri al nord del Camerun. Trovano perché cercano, come è promesso nel Vangelo: “cercate e troverete” (Lc 11,9). Una volta fatta esperienza, la fiducia aumenta. I messaggeri non li hanno fregati. E’davvero Buona Notizia! Va detta a tutti, riferita come è stata detta, ma anche con quel tocco di novità e creatività che caratterizza il resoconto dei testimoni che raccontano Dio. Qui in Africa teologi, testimoni del Vangelo e appassionati del Dio della vita: Jean Marc Ela, Desmond Tutu, Albert Nolan, Mveng, Benezet Bujo. Missione è narrare un incontro personale con Gesù di Nazaret, qualcosa che cambia la direzione della vita. E che la indirizza a spenderla con e per i poveri e la causa della giustizia. Fino a dare la vita come i martiri di Uganda, i vescovi Claverie e Munzhiriwa, il mititante della causa nera sudafricana Steve Biko, il difensore congolese dei diritti umani Floribert Chebeya, i trappisti di Thibirine, Annalena Tonelli, Fratel Alfredo Fiorini e i missionari comboniani martiri della giustizia.
Quel racconto deve stupire al punto da provocare vite stanche e addormentate. Per risvegliare quell’anelito nascosto e profondo rinchiuso in ognuno di noi: il desiderio della vita in pienezza. O il Vangelo stupisce ancora e ci scaravolta fuori dalle nostre beghe, piccolezze e menate, o ci penserà la vita. Ma il primo punta a cambiarci lentamente fino a farci fondere con Dio stesso, la seconda a volte, arriva bruscamente a sbatterci in faccia la realtà.
Maria, donna missionaria e del Vangelo ha già urlato il suo canto rivoluzionario del Magnificat (Lc 1,46-55), una sorta di inno alla liberazione integrale dell’uomo e dei popoli dal potere e dall’oppressione. Ora custodisce la bellezza e la sfida dell’evento maternità. Non consuma, non divora e non spreca come l’Occidente impazzito e le borse in crisi. Soltanto medita a fondo. Come le nostre donne africane, la cui voce non è troppo spesso in capitolo nelle riunioni e nelle decisioni. Capaci però con la loro ostinata passione per i figli di tenere a galla famiglie traballanti e futuri troppo incerti. Senza troppe parole sono loro che lavorano nei campi, vanno al mercato, preparano da mangiare, vanno a prendere l’acqua la pozzo, si occupano dei piccoli. Ahimé, sono anche quelle che cominciano a prendere le brutte abitudini degli uomini e ad affogarsi nell’alcool.
I poveri ritornano dall’incontro che li sta cambiando. Cantano ed esprimono la loro gioia per tutto quello che hanno visto, vissuto e sperimentato. Celebrano la vita. Come le nostre piccole comunità cristiane nei villaggi in fondo al Ciad. A ritmo di tamburi e di danze l’Eucarestia diventa davvero quel ringraziamento sincero e vivo per una vita che vale finalmente la pena di essere vissuta fino in fondo. Non c’è limite e tempo. Niente orologi. C’è solo gioia e festa. Liturgie dense, dove palpita la vita.
I poveri non vanno a casa, perché non c’è ritorno e non c’è casa per un missionario. Ma viaggio di sola andata, itineranza radicale e per dimora il mondo. Là dove ci sono persone, poveri e abbandonati in particolare, c’è sempre missione. In frontiera, ai confini della sofferenza umana, della fame e sete di giustizia. E di quel bisogno innato e incontenibile, dentro ognuno di noi, di ridare sapore al mondo.
P. Filippo Ivardi