L'apartheid della salute

di Pietro Greco

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Un cittadino degli Stati Uniti spende, in media, 4.187 dollari ogni anno per garantirsi la propria salute. Un tedesco, 2.713 dollari. Un cittadino dell’Etiopia ogni anno spende, in media, 4 dollari. In Germania tutti hanno accesso al sistema sanitario nazionale. Negli Stati Uniti 40 milioni di poveri, più o meno il 15% della popolazione, ne sono sostanzialmente esclusi. In Etiopia, tranne una ristretta élite, nessuno ha accesso a un sistema sanitario che assicuri almeno le prestazioni minime.

In Sierra Leone l’età media della popolazione non supera i 39 anni. In Svizzera l’età media supera gli 82 anni. In alcuni quartieri ricchi di New York e delle grandi metropoli americane l’aspettativa di vita sfiora gli 85 anni. In alcuni quartieri poveri di quelle medesime città l’aspettativa di vita supera di poco i 40 anni.

In Occidente malaria e tubercolosi, le malattie dei poveri, sono sostanzialmente sparite. Nel Terzo Mondo mietono almeno 5 milioni di vittime ogni anno. In nessuna parte del mondo dall’Aids si guarisce. Ma in Occidente la malattia può essere curata, nell’Africa sub-sahariana l’Aids sta spazzando via un’intera generazione.

Rapporto 2004. Salute e globalizzazione appena uscito per i tipi della Feltrinelli (pagine 276, euro 16,00) a cura dell’Osservatorio italiano sulla salute globale (OSG).

Il quadro statistico proposto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) è chiaro fino alla brutalità: un adulto povero di età compresa tra 15 e 59 anni ha dieci volte più probabilità di morire in questa fascia di età di un coetaneo ricco. Un bambino povero di età compresa tra 0 e 4 anni ha 100 volte più probabilità di morire in questa fascia di età di un coetaneo ricco. Una donna povera ha 300 volte più probabilità di morire mentre dà alla luce un figlio di una partoriente ricca. Il 60% degli 11 milioni di decessi tra i bambini sotto i cinque anni nel Terzo Mondo è causata dalla denutrizione, ovvero direttamente dalla povertà.

D’altra parte, l’intero sistema biomedico mondiale è sempre più tarato verso le esigenze dei paesi ricchi. Meno del 10% della spesa in ricerca medica al mondo è indirizzata verso la cura di malattie che interessano il 90% della popolazione mondiale. A investire in ricerca sono i paesi ricchi. E i ricchi investono quasi unicamente per risolvere i propri problemi di salute. Dei 1233 nuovi farmaci immessi sul mercato tra il 1975 e il 1999 solo 13 riguardano malattie tropicali.

L’insieme di queste e di altre disuguaglianze sanitarie - o, per dirla con l’Oms «delle differenze sanitarie non necessarie ed evitabili; e che sono allo stesso tempo inaccettabili e ingiuste» - sono ormai tali, rileva Le Monde Diplomatique in un numero speciale, Apartheid Mèdical, pubblicato nelle scorse settimane, da aver creato una nuova e grave forma di discriminazione: la discriminazione medica. L’apartheid mèdical, appunto.

Le differenze sanitarie sono certamente ingiuste, perché ledono quel «diritto universale alla salute» che, dal 7 aprile del 1948, giorno in cui fu firmato l’atto costitutivo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, costituisce un caposaldo morale, se non legale, nella regolazione dei rapporti tra i popoli. Ma costituiscono, rileva Giovanni Berlinguer, una minaccia anche per gli stessi ricchi, in «un’epoca di crescente globalizzazione dei rischi». Come dimostrano il virus dell’Aids e un’altra trentina di virus e batteri a diffusione globale.

In altri termini, occorre rimuovere l’inaccettabile apartheid sanitaria, perché è iniqua e perché è conveniente. Per realizzare questa urgente rimozione, occorre cercare le cause che determinano la nuova forma di apartheid e proporre delle azioni concrete.

Per l’Osservatorio italiano sulla salute globale la causa principale che, negli ultimi due decenni, ha determinato il massimo di discriminazione sanitaria nel mondo proprio mentre il mondo raggiungeva il massimo della ricchezza assoluta è chiara: la trasformazione concettuale della salute da diritto a merce operata dal pensiero neoliberista imperante negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso.

Nel 1978, con la Conferenza di Alma Ata, ricorda Gavino Maciocco, l’umanità raggiunse il massimo della consapevolezza che la salute è un diritto e che il governo della salute è una delle priorità della governance mondiale. Questa consapevolezza teorica aveva riscontri concreti. Con le grandi campagne di vaccinazione, l’Oms aveva contribuito a contrastare e, talvolta, a eradicare pericolose malattie in tutto il mondo. Clamoroso il caso del vaiolo. Ad Alma Ata i paesi di tutto il mondo acconsentirono sulla necessità di proseguire lungo questa strada e costruire in tutto il mondo le condizioni di un’assistenza sanitaria di base universale. Dopodiché …

Dopodiché si impose una nuova (vecchia) scuola di pensiero, quella neoliberista. E molti economisti iniziarono a sostenere che gli investimenti in sanità non devono «avvenire per decisione degli esperti sulla base di un bisogno, ma attraverso la scelta del consumatore, che controlla la valutazione del suo capitale di salute e decide di incrementarlo». Sulla spinta della necessità di far quadrare i bilanci pubblici, la salute viene trasformata da diritto in merce e l’ammalato da paziente a consumatore.

La nuova filosofia si impone negli Stati Uniti e conquista le grandi istituzioni finanziarie globali: la Banca Mondiale e il Fondo monetario internazionale. Occorre, si dice, introdurre forme di partecipazione alla spesa sanitaria anche nelle strutture pubbliche (user fees); promuovere programmi di assicurazione; privatizzare i servizi sanitari; decentrare il governo della sanità.

Gli effetti della nuova filosofia sanitaria sono devastanti, soprattutto nel Terzo Mondo. Mentre l’Europa, infatti, riesce sostanzialmente a difendere il suo welfare sanitario (neppure Margaret Tatcher riesce a imporre la filosofia neoliberista in Inghilterra, perché il 70% dei suoi elettori tories non ci sta a smantellare il sistema sanitario nazionale), nei paesi in via di sviluppo più esposti ai programmi (che somigliano molto a dei diktat) delle grandi organizzazioni finanziarie è il disastro. Nei paesi più poveri, soprattutto dell’Africa sub-sahariana, la quota del Prodotto interno lordo destinata alla sanità diminuisce, anziché aumentare. Disincentivati dalle user fees, insomma dai ticket, gli ammalati evitano di rivolgersi ai medici e agli ospedali. L’assistenza sanitaria in molti paesi subisce una drastica riduzione. Negli anni ’90 questa riduzione diventa drammatica anche nei paesi ex comunisti. Nel Kirgizistan il 50% delle persone che si rivolgono a un ospedale vengono respinte perché non hanno di come pagare. In Russia l’età media dei maschi crolla da 65 a 58 anni. Persino nei paesi ancora formalmente comunisti, ma esposti alle richieste della Banca Mondiale, le condizioni sanitarie peggiorano. In Vietnam il 60% delle famiglie povere è costretto a indebitarsi: per un terzo di quelle famiglie la causa principale dell’indebitamento risiede nell’accesso al sistema sanitario. A Phnom Penh, in Cambogia, il 20% dei pazienti si rivolge agli usurai per potersi curare.

E tutto questo mentre la deregulation nella vendita dei farmaci - smerciati ormai sulle bancarelle in molti paesi del Terzo Mondo - ne rende inutile se non pericoloso, in ogni caso irrazionale, l’uso. È stato calcolato che in India il 70% della spesa per farmaci è non necessaria. Ed è stato calcolato, dalla Banca Mondiale, che nei prossimi anni per i soli diritti brevettali un flusso di denaro pari a 40 miliardi di dollari passerà dai paesi poveri ai paesi ricchi.

Come uscire dalla trappola? Gavino Maciocco propone quattro tipologie d’azione: rafforzare i servizi sanitari pubblici, perché senza questi servizi i poveri non sanno come curarsi (e persino i ricchi si curano male); sostituire le user fees, il pagamento diretto, con sistemi (assicurativi o statali) che socializzano la spesa; rafforzare il ruolo regolatore dello stato e, a livello internazionale, trovare fonti di finanziamento per creare il primo nucleo di un sistema sanitario globale.

Occorre, ancora, rafforzare il ruolo dell’Organizzazione Mondiale di sanità, magari individuando in essa quel nucleo di sistema sanitario globale di cui parlavamo sopra. Bisogna rafforzare la cooperazione. Riproporre i grandi progetti (come, per esempio, il 3 per 5 dell’Oms - curare 3 milioni di sieropositivi entro il 2005). E riproporre l’intervento pubblico.

In altre parole, per rimuovere la più grande e, forse, la più grave forma di apartheid nel mondo, l’apartheid sanitaria, occorre realizzare il programma di Gro Harem Brundtland, segretaria dell’Oms dal 1998 fino allo scorso dicembre 2003, e imporre il diritto alla salute in testa all'agenda politica internazionale. Come elemento assolutamente prioritario della governance (ma non sarebbe meglio dire del governo democratico) globale.

Ma occorre anche ritornare alla antica definizione di salute: non più merce, ma diritto. E all’antica definizione di paziente: non più consumatore, ma persona. In fondo, la salute e il benessere psico-fisico dei cittadini sono precondizioni essenziali per qualsiasi tipo di sviluppo. Compreso lo sviluppo economico.

 

Tratto da: L'Unità (06/03/2004)