Buio
sulla terra
“Era
verso mezzogiorno, quando il sole si eclissó e si fece buio su
tutta la terra fino alle tre del pomeriggio”
(Lc23,44).
Commentando questo passo, il compianto Tonino Bello affermava che
si tratta del passo piú oscuro di tutto il vangelo: il buio, l’oscuritá
totale si è impadronita di tutta la terra. Peró, continuava il
vescovo di Molfetta, da questa pagina esce anche un raggio
invincibile di luce, perché ci dice che il buio e l’agonia della
croce dura solo tre ore: da mezzogiorno alle tre del pomeriggio.
Si tratta allora di vivere questo lungo momento di buio con un
atteggiamento di fede: è in mezzo a questo buio, infatti, che Gesú
affida il suo Spirito al Padre: “Padre, nelle tue mani consegno
il mio spirito” (Lc23,46).
Il
primo suggerimento che ci dá la Parola, dunque, è di accorgerci
del buio che ci circonda, di assumere con consapevolezza quel
disagio che in qualche modo ci avvolge tutti, e di non dormire.
Anche la notte passata nel Getsemani, Gesú invitava i suoi
discepoli a rimanere ben svegli: “Perché dormite? Alzatevi e
pregate” (Lc22,45).
A me
sembra che, invece di seguire l’invito di Gesú, molto spesso
dormiamo nel buio.
Il
cambio climatico
Un
rapporto del Pentagono che il Governo statunitense non ha voluto
pubblicare é stato reso noto dal prestigioso quotidiano “The
Observer”. Questo rapporto ‘segreto’ presenta un panorama
catastrofico dei cambi climatici che si realizzeranno – secondo la
maggioranza degli scienziati contattati dal Pentagono - nel giro
di quindici o vent’anni. Secondo questo rapporto, molte cittá
europee sprofonderanno sotto i mari che si alzano e la Gran
Bretagna vivrá permanentemente in un clima siberiano; l’acqua e
altre fonti di energia diminuiranno sempre piú, causando carestie,
siccità e migrazioni in massa di intere popolazioni. Ancora una
volta, conclude questo rapporto, “sará la guerra a determinare la
vita umana”.
Davanti a questa catastrofe imminente, il pericolo terrorista
appare decisamente come un pericolo secondario. “Non sappiamo
esattamente a che punto siamo in questo processo”, afferma
Doug Randall, uno degli estensori del documento. “Potrebbe
iniziare domani, e noi potremmo non accorgercene per due o tre
anni”. In altre parole, stiamo dormendo. E pensare che questo
non lo dice una Centrale dell’Internazionale Comunista, ma lo dice
il Pentagono! Perché, allora, continuiamo a dormire? Perché il
governo statunitense continua a far orecchie da mercante? Perché
non fa subito qualcosa per diminuire drasticamente il consumo del
petrolio e l’emissione dell’ossido di carbonio? Perché, ci spiega
Jeremy Symons, esperto di questioni climatiche,
“l’Amministrazione Bush sta ignorando l’evidenza solo per
compiacere una manciata di compagnie petrolifere”.
Una
politica eucaristica
“I
re delle nazioni le governano come signori assoluti e quelli che
esercitano il potere si fanno chiamare benefattori. Peró tra voi
non sia cosí…Io sto in mezzo a voi come colui che serve”
(Lc23,25-26).
È
interessante notare che queste parole sull’esercizio politico del
potere, Gesú le pronuncia subito dopo aver istituito l’Eucaristia,
nell’ultima Cena, nell’ultimo discorso rivolto ai suoi discepoli.
L’esercizio della politica, dunque, deve entrare nella logica
eucaristica del servizio, nella logica del dare la vita – e non
del toglierla.
Un
elemento fondamentale che distingue la politica come servizio
dalla politica come manipolazione è il rispetto della veritá. Una
politica basata sulla menzogna è l’esatto opposto di una politica
‘eucaristica’.
A
questo proposito, è bene conservare la memoria di quanto è
successo due mesi fa. Il 20 gennaio di quest’anno il presidente
Bush, nel suo Discorso annuale sullo Stato dell’Unione, a
proposito della Commissione della CIA – guidata da David Kay - che
stava indagando in Iraq alla ricerca delle armi di distruzione di
massa, ha testualmente affermato: “Il Rapporto della
Commissione Kay ha giá identificato dozzine di armi destinate a
programmi di distruzione di massa e significative quantitá di
armamenti che l’Iraq teneva nascosti”. Tre giorni dopo, il
capo della citata Commissione, David Kay, annunciava le sue
dimissioni e smentiva clamorosamente le parole del presidente,
affermando: “Penso che quelle armi non siano mai esistite”.
Due settimane dopo, il direttore della CIA, Gorge Tenet, ha
affermato che “la CIA non ha mai parlato di imminente minaccia
da parte dell’Iraq”.
Com’è possibile mentire cosí spudoratamente e far finta che non
sia successo niente?
“Esercitano
il potere come signori assoluti e si fanno chiamare benefattori”,
diceva Gesú nell’Ultima Cena. Ed è cosí come il presidente Bush
presenta la sua politica menzognera, come una politica al servizio
della pace nel mondo. E cosí, commentando il Discorso sullo Stato
dell’Unione, un giornalista del Los Angeles Times ha
scritto che “l’esercizio del potere americano ha un ruolo
chiave nel mantenimento della pace e dell’ordine mondiale”.
Quanto all’ipotesi che la minaccia rappresentata da Saddam Hussein
non fosse cosí ‘minacciosa’ come si pensava, il giornalista dice
che, ad ogni modo, l’intervento armato statunitense apre un’epoca
di democratizzazione in Iraq, “un sogno che solo il potere
armato americano ha potuto ispirare”.
Buio
anche sulla politica internazionale, dunque.
In
Ecuador
E
buio anche sulla politica nazionale dell’Ecuador, condizionata dai
grandi poteri trasnazionali. Prima di tutti il presidente Lucio
Gutiérrez, smentendo il suo programma elettorale, si è inchinato
ai voleri del Fondo Monetario Internazionale; per questo il
partito indigena “Pachakutik” è uscito dal Governo. Fra le altre
cose, il FMI ha chiesto al Governo ecuadoregno di elevare le
tariffe telefoniche interne e di abbassare quelle internazionali;
ma la richiesta piú preoccupante è quella di aumentare il prezzo
della bombola del gas da cucina da 1,60 a 7,15 dollari. Non c´è
bisogno di essere indovini per capire come potrá reagire la gente
davanti all’aumento di un bene economico cosí fondamentale.
Insomma, vogliono continuare ad aumentare le tariffe dei servizi
vitali, e cosí, ha commentato un giornalista, succederá quello che
é successo all’asino della favola: che morí dopo aver appreso –
per un po’ di tempo – la difficile arte di vivere senza mangiare.
Una politica evangelica ed eucaristica è quella che mette al
centro delle scelte economiche il cucchiaio popolare, e non gli
interessi delle Istituzioni bancarie trasnazionali.
Purtroppo, la politica asservita agli interessi delle
multinazionali produce questo paradosso: i soldi per militarizzare
il pianeta Marte e per costruire colonie sulla Luna ci sono, e in
abbondanza; ma i soldi per poter garantire a tutti una vita degna
sul pianeta Terra non si trovano.
Il
mondo in fuga: turisti e vagabondi
Questo buio ‘macrostrutturale’ si ripercuote anche nella nostra
vita di tutti i giorni, negli atteggiamenti e nei sentimenti con
cui affrontiamo i problemi della quotidianitá. Per descrivere
questa situazione il sociologo Anthony Giddens usa l’efficace
immagine di un “mondo in fuga” :“The runaway world” è il
titolo di un suo libro. In quello che diró prendo spunto da un
interessantissimo documento scritto da padre Benito de Marchi, per
poi svilupparlo liberamente.
In
mezzo a questo buio manca un punto di riferimento preciso, e cosí
la vita dell’uomo d’oggi è caratterizzata da un “errare nomadico”.
Ogni epoca si riconosce in una figura emblematica che, in qualche
modo, rappresenta le aspirazioni e i sentimenti di tutti.
Nell’Alto Medioevo questa figura era il monaco; nel Basso Medioevo
questa figura era il cavaliere, il trovatore; nel Rinascimento era
l’artista, il pittore; all’inizio del capitalismo era il mercante.
Oggigiorno la figura che piú di altre rappresenta il nostro stato
d’animo – soprattutto in Occidente – è il turista, turista
inteso come colui che rifiuta di concentrarsi in un cammino e un
ideale, perché vuole conoscere tutti i cammini e assaggiare un po’
di tutto, senza impegnarsi definitivamente in niente, per poter
provare emozioni sempre nuove.
A
volte il lavoro che sto facendo nella Pastorale Afro mi sembra
piccolo, marginale, nel senso che è un lavoro che mi assorbe
completamente e mi impedisce di girare per altri mondi, di fare
tante altre cose, che mi sembrano altrettanto importanti. Per un
attimo rimpiango i tempi quando, come laico, potevo permettermi di
fare esperienze interessantissime in distinte parti del mondo. Ma
poi mi rendo conto che quello che mi mancava era un progetto, un
programma di fedeltá che desse senso a tutta la mia vita. E allora
capisco, e sono riconoscente a Dio: certamente la Pastorale Afro è
solo un piccolo pezzo dell’immensa vigna del Signore, ma Dio mi ha
chiamato a lavorare in questo piccolo terreno tanto disprezzato, e
vuole che mi dedichi con tutto il cuore a coltivare questa piccola
fetta della sua vigna.
Capisco molto bene, allora, tutti coloro che cercano una risposta
nel turismo esotico, tutti coloro che stanno fuggendo in cerca di
una terra d’approdo ancora sconosciuta. E non mi riferisco solo a
chi viaggia alle Seychelles: sto parlando di questo forte senso di
disagio, di insoddisfazione, che cerchiamo di nascondere
“muovendoci da un centro commerciale all’altro, da un’esperienza
all’altra, fino ad immergerci nello stravagante della realtà
virtuale”, commenta padre De Marchi. Abbiamo paura di
fermarci.
Ultimamente questo mondo di turisti è stato sconvolto
dall’arrivo di molti vagabondi, coloro cui il sistema
impedisce qualsiasi sogno turistico: gli emarginati, gli
immigrati, etc. Questi vagabondi ci danno fastidio, perché ci
obbligano a pensare in cose cui non vorremmo pensare, e disturbano
i nostri sogni e i nostri programmi turistici.
Di
questi vagabondi, alcuni ci sono utili perché garantiscono certi
lavori di cui il mercato ha bisogno, ma altri sono davvero
‘popolazione eccedente’. Sappiamo, ad esempio, che in Colombia
ogni giorno muoiono, uccisi nell’oscuritá che ci circonda, cinque
o sei di questi vagabondi, i cosiddetti ‘desechables’, una
parola che letteralmente significa ‘una persona che si puó buttar
via, che si puó buttare nella spazzatura’. Si tratta di persone
che non stanno mai ferme, non dormono mai nello stesso posto, e
ogni notte cercano un posticino nella strada dove poter dormire.
Nell’epoca del mercato, i vagabondi che compongono la popolazione
eccedente “si eliminano o per fame o con una pallottola”,
commenta Eduardo Galeano, e cita il caso di un ingegnere argentino
che, qualche anno fa, ammazzó a colpi di pistola due giovani che
volevano rubargli il mangiacassette dell’auto. Venuto a conoscenza
del fatto, un importante giornalista di Buenos Aires dichiaró: “Io
mi sarei comportato allo stesso modo”. Davvero, il diritto
alla proprietà di un mangianastri è piú importante del diritto
alla vita di due vagabondi. “La gente vale meno delle cose”,
conclude Galeano.
Fuga
dalla propria realtà
Tutto il mondo è in fuga. In Europa c’è gente che fugge in cerca
di paradisi esotici. Ma non sono gli unici; anche a Malvinas, il
barrio marginale dove operano i comboniani di Guayaquil, ci
sono molti giovani in fuga, giovani che non vogliono conoscere il
loro quartiere: vivono in Malvinas, ma conoscono solo l’isolato
della loro strada, piú in lá non si arrischiano ad andare, perché
– dicono – è un quartiere pericoloso. E non sanno che i giovani
dell’altro isolato la pensano esattamente allo stesso modo nei
loro confronti. Questi giovani non accettano la loro realtà e,
anche se mancano i soldi per altre cose piú essenziali, implorano
i genitori di comprargli un telefonino. Con un telefonino in mano,
si ha l’impressione di vivere nel mondo dove vorremmo vivere:
mandando messaggi al centro della cittá o in altri quartieri, è
come se vivessimo fuori di Malvinas. E di fatto, alcuni
giovani conoscono molto meglio i quartieri del Nord o del Centro
che non il proprio quartiere.
Pastoralmente, allora, la principale sfida è quella di aiutare
questi giovani a vivere nella propria realtà, con tutte le
difficoltà che ció comporta. Per questo, tra le altre cose,
abbiamo in programma un video popolare con temi scelti dai giovani
stessi: droga, violenza, etc. I giovani scriveranno con noi il
copione, parlando dei loro problemi ma anche dello loro speranze,
e cercheremo insieme una possibile soluzione. Pablo e Cesar, ad
esempio, due giovani negri di Malvinas che frequentano il Centro
Afro, hanno composto alcune canzoni rap che esprimono la
loro rabbia ma anche la loro voglia di vivere.
Per
non parlare poi dei tanti equadoregni che fuggono negli Stati
Uniti e in Europa, e di tutte quelle persone che, pur rimanendo in
Ecuador, vivono con gli occhi e la mente fuori del nostro paese. A
volte io chiedo alla gente: Dove stiano educando i nostri figli:
in Ecuador o negli Stati Uniti? Che modelli e che valori stiamo
loro trasmettendo?
I
nostri giovani
E i
nostri giovani italiani? Da cosa stanno fuggendo? Fratel Joél,
messicano, mio compagno di comunitá, mi dice che in questi ultimi
due anni ch’é stato in Italia è rimasto colpito dalla fragilità
dei nostri giovani: “Dietro una macchina, dietro un computer o
un telefonino, si sentono sicuri, ma quando ho cercato di
istaurare con loro un rapporto personale a tu per tu, quando
cercavo di parlare con loro di come si sentivano, emergeva tutta
la loro fragilità. Molti si mettevano a piangere ”.
Bisogna partire da qui, da questa fragilità, per ri-umanizzare la
nostra società tecnificata.
Quando comunico con una persona via Internet, è molto facile,
perché l’altra persona non mi disturba: posso aprire il suo
messaggio quando voglio io, quando ho tempo; posso rispondergli
oggi o domani, o posso anche far finta di non aver ricevuto il suo
messaggio, posso anche non rispondergli, se non ho voglia, perché
tanto la reazione di una persona nascosta dietro la macchina non
tocca piú di tanto la mia vita reale. Peró quando questa stessa
persona viene a trovarti, non puoi decidere di prestarle
attenzione domani, o di far finta che non sia arrivata: la
presenza fisica di questa persona ti costringe a porti in un
atteggiamento di ospitalità, anche se la tua mente è attraversata
da tutt’altri pensieri. La visita di una persona in carne ed ossa
sconvolge la mia routine. E all’inizio provo un senso di disagio;
mi rendo conto che la tecnologia – poco a poco – ci sta
disabituando alla relazione umana.
Alcuni missionari dicono che la priorità pastorale in Europa è
come far rinascere l’interesse, il desiderio di Dio in una societá
che sembra averlo completamente dimenticato. Ma forse, prima
ancora di questo, l’urgenza che dobbiamo affrontare è come portare
alla luce il desiderio - presente nei nostri giovani - di una
relazione umana autentica, come ricostruire le relazioni umane: un
prerequisito imprescindibile dell’evangelizzazione è
l’umanizzazione.
Le
nuove tecnologie sono senza dubbio molto utili, ma dobbiamo stare
attenti a saperle dominare, e a non lasciarci dominare da loro. Un
rischio molto concreto è che l’informatizzazione selvaggia ci
renda incapaci di sostenere una relazione umana autentica.
L’identitá
afroecuatoriana
A
volte si fugge anche dalla propria identità.
Alcuni, a proposito della popolazione afroamericana, parlano di
popolazione ‘invisibilizzata’. In effetti, non ci sono dati certi
sul numero di afroamericani, a tal punto che il BID (Banco
Interamericano del Desarrollo) rinuncia a dare dati univoci, e si
limita a dire che la popolazione afroamericana è senz’altro
superiore ai 64 milioni e senza dubbio inferiore ai 124 milioni.
In
Ecuador i dati dell’ultimo censimento ufficiale dicono che gli
afroecuatoriani sono il 5% della popolazione, ma secondo calcoli
piú realistici gli afro costituiscono il 9 o 10% della popolazione
nazionale.
Questa incertezza e varietá di dati è dovuta a diversi fattori.
Prima di tutto, ci sono alcune nazioni che non hanno ancora
riconosciuto il volto negro del proprio popolo, e i dati sono
manipolati anche per evitare che i negri si rendano conto della
propria forza numerica. In Colombia, ad esempio, un calcolo
realistico direbbe che i negri costituiscono piú del 20% della
popolazione, ma questo non risulta nelle statistiche ufficiali.
Accanto a questo, peró, esiste un altro fattore che spiega
l’incertezza dei dati ufficiali, ed è che ci sono molti negri che
non si riconoscono come tali: abituati ad essere disprezzati dalla
societá, alcuni afroecuatoriani non vogliono identificarsi come
negri. Una delle prioritá della Pastorale Afro, dunque, è
aumentare l’autostima della popolazione nera, affinché accetti con
orgoglio la propria identitá e la propria storia.
Per
questo cerchiamo di riscoprire e rivalorizzare la presenza
dell’Africa e del negro nella Bibbia, per questo cerchiamo di
recuperare la storia perduta del negro in Ecuador. I risultati di
questa ricerca – che non arrivano sui banchi delle scuole
equadoregne – ci dicono che la storia del negro in Ecuador non è
solamente una storia di oppressione e schiavitù, ma è anche
contrassegnata dalla presenza di tante figure che hanno lottato –
spesso con successo – per la propria libertá e per la libertá del
proprio popolo.
Da
circa un mese è entrata in funzione la Scuola di Formazione
Afroecuatoriana, che vuole formare leader neri che amino il
proprio popolo e lo aiutino a riscoprire la bellezza della propria
cultura. Il papa ha detto che “la Chiesa ha l’obbligo di
avvicinarsi agli americani di origine africana a partire dalla
loro cultura, valorizzando seriamente le sue ricchezze spirituali
e umane”. Seguendo la metodología del ‘salvare l’Africa con
l’Africa’, abbiamo scelto - come formatori di questa Scuola -
Missionari Laici Afroecuatoriani coadiuvati da noi comboniani.
Agli ‘alunni’ della nostra scuola – e fra questi c’è anche un
sacerdote – facciamo conoscere gli elementi principali della
religiositá, della cultura e della storia del negro in Ecuador. È
importante che la gente veda che a dare questi temi sono gli
stessi negri, ormai protagonisti della propria evangelizzazione.
Ai
formatori della nostra Scuola stiamo dando anche una formazione
biblica specifica nell’ermeneutica negra. Il nostro sogno è che, a
partire dall’anno prossimo, questi laici negri formino un equipe
itinerante che dia corsi di cultura e teología afro nelle varie
diocesi dove saranno chiamati.
È un
piccolo progetto per far sí che il popolo afro possa arricchire la
Chiesa equadoregna con la sua spiritualitá, a proposito della
quale mons. Bartolucci, vescovo di Esmeraldas, scriveva: “Per
salvarsi, il mondo occidentale ha bisogno di quei valori
evangelici (sobrietá, solidarietá, rispetto della Natura,
fraternità, allegria, gioia di vivere) che sono caratteristiche
proprie del patrimonio culturale tradizionale dei popoli
afroamericani. L’autentica spiritualitá negra, sempre purificata
dalla Parola di Dio, puó offrire la soluzione a uno dei piú gravi
problemi del nostro tempo: la progressiva disumanizzazione
prodotta da una societá tecnificata, fredda e opulenta”.
E
cosí, smettendo di fuggire da sé stessi, e recuperando appieno la
propria identità, gli afroamericani renderanno un grande servizio
alla Chiesa e a tutta la società.
La
scomparsa del futuro
In
questo mondo che fugge si possono individuare diverse maniere di
vivere la fuga, ma un elemento caratteristico che unifica tutte
queste esperienze, ci spiega Anthony Giddens, è che sembriamo aver
perso il senso del destino dell’umanitá.
A
questo proposito, penso si possa dire che il futuro è scomparso
dalla mente e dall’immaginazione dell’operatore economico
neoliberale, che è incapace di ragionare e pianificare a largo
termine. La ‘razionalitá’ neoliberale, infatti, ragiona a breve
termine: vuole vedere risultati immediati; per questo la
salvaguardia dell’ambiente è considerata la principale nemica
dello ‘sviluppo’. Alcuni mesi fa il famoso scrittore Vargas LLosa
ha detto che gli indios americani – con il loro ‘fanatico’
interesse per la salvaguardia della natura – sono i principali
nemici dello ‘sviluppo’, e ha ragione: sono i principale nemici
dello ‘sviluppo’ cosí come lo intende il neoliberismo. Lo sviluppo
neoliberale, dice Eduardo Galeano, è “un ponte senza fiume,
un’autostrada che ti fa vedere i campi distrutti per costruire
l’autostrada”.
Secondo la mentalità neoliberale, la vita si realizza solo in una
dimensione orizzontale. L’Impero vuole rubarci il futuro, vuole
che il futuro scompaia dalla nostra mente e dal nostro immaginario
collettivo. Il neoliberismo, infatti, si presenta come ‘fine della
storia’, un modo per dirci che non c’è piú futuro, perché abbiamo
raggiunto l’ultima tappa del camminare dell’uomo: tutto quello per
cui hanno lottato, sofferto e sperato i nostri antenati e i nostri
padri ha raggiunto il suo scopo e il suo termine. In altre parole,
l’Impero vuole imprigionare il futuro, vuole incatenarlo al
presente; il neoliberismo vuole cancellare il concetto stesso di
futuro inteso come fonte de speranza e proiezione dei nostri
sogni: in quest’ottica, la vita si sviluppa in un eterno presente,
arrivato al suo punto di perfezione, sempre uguale a se stesso.
Pellegrini alla ricerca del futuro
Con
i Missionari Afroecuatoriani stiamo studiando il profeta Ezechiele
e le sue grandi visioni che presentava al popolo esiliato a
Babilonia. Analizzando la famosa visione delle ossa inaridite
(Ez37,1-14), ad esempio, ci siamo chiesti: a che serve essere
visionari, a che serve sognare un futuro diverso? forse è una
forma di ‘escapismo’ spirituale, una consolazione alienante che
mira a far dimenticare la situazione presente?
E
siamo giunti a questa conclusione: di tutti i popoli deportati a
Babilonia, Israele è l’unico che è sopravvissuto a quello e ad
altri Imperi. Altri popoli, incapaci di sognare, si sono
assimilati all’Impero e si sono perduti, giá non esistono piú come
popoli. Un popolo che non sogna e che non tiene visioni, dunque, è
destinato a morire: è impossibile vivere senza un orizzonte di
futuro.
Ma
dov’é questo futuro? Nemmeno noi missionari lo sappiamo: anche noi
siamo in ricerca, anche noi ci mettiamo in cammino, neanche noi
vogliamo rimanere fermi nello stesso punto. La missione, allora,
diventa un pellegrinaggio: il pellegrino non sa come e
quando terminerá il suo cammino, e non conosce esattamente il
percorso che lo porterá alla meta agognata, perché anche lui è
immerso nel buio che copre “tutta la terra” dal mezzogiorno alla
tre. Ma in mezzo a questo buio ci affidiamo, come Gesú, al Padre:
mettendoci nella mani di Dio, sentiamo che un orizzonte invisibile
sta conducendo i nostri passi. Anche noi ci muoviamo a tastoni, ma
sentiamo che non siamo soli, e in questo cammino – un cammino che
ci conduce dalla Croce alla Resurrezione – riscopriamo un senso e
una pienezza che temevamo aver perduto. “Solo come pellegrino,
il missionario puó farsi credibile nel mondo di oggi”,
commenta padre De Marchi. “Solo come pellegrini possiamo
rappresentare una sfida per il vagare consumistico dei ‘turisti’
della societá postmoderna e nello stesso tempo diventare motivo di
speranza per i ‘vagabondi’ nella loro spossante ricerca di una
ospitalità. Allora l’ambizione umile dell’azione missionaria
consiste nell’aprire il mondo dei ‘turisti’ e ‘vagabondi’ al senso
del pellegrinaggio”.
Dobbiamo allora liberare il futuro dalla prigione in cui
vorrebbe rinchiuderlo il neoliberismo, e proclamare a voce alta
che la ricerca e la speranza hanno ancora diritto di cittadinanza
in questo mondo. Evangelizzare il futuro, dunque, significa
riconfermare la nostra fede nel “disegno prestabilito nella
pienezza dei tempi di ricapitolare in Cristo tutte le cose”
(Ef1,10). Cristo – e non il neoliberismo – è il fine della storia.
Ha ancora un senso, dunque, sognare un futuro diverso, un futuro
in cui tutte le cose si saranno trasformate a immagine di Cristo.
Come questo avverrá non lo sappiamo, peró si sappiamo che il
neoliberismo non è la parola ultima e definitiva sulla storia
dell’uomo.
Liberare
Dio
In
questo pellegrinaggio, dunque, Dio si rivelerá a noi come
sorpresa. A volte anche noi missionari abbiamo voluto
incatenare Dio nei nostri schemi, nelle nostre categorie mentali e
culturali. Forse è per questo che non sempre abbiamo saputo
accompagnare la gente all’incontro con quel Dio che ci sorprende
ogni giorno. In quest’epoca di grandi cambiamenti culturali, forse
abbiamo incatenato Dio in uno schema e in un linguaggio che non
dice quasi niente al turista e al vagabondo del mondo postmoderno.
Forse ci siamo dimenticati che Dio è un mistero ineffabile che non
puó essere racchiuso in nessuna categoria culturale. A questo
proposito, mi ha sempre colpito il passo in cui Maria scopre,
angosciata, che Gesú non sta nella sua stessa carovana, e cosí
deve mettersi a cercarlo (Lc2,44). Anche noi missionari, a volte,
diamo per scontato che Gesú stia sempre nella nostra carovana. Ma
nessuno possiede Gesú, nemmeno sua madre. Nessuno possiede Dio.
Sembra quasi che Gesú - stanco dei nostri discorsi – sia scappato
dalla nostra carovana, per costringerci a rimetterci in movimento
e ad andarlo a cercare. È necessario, allora, mantenerci in questo
atteggiamento di ricerca e di pellegrinaggio: solo in questo modo
potremo coinvolgere altre persone nella nostra ricerca.
E in
questa ricerca Dio ci sorprenderá, facendoci scoprire nuovi nomi
del suo ineffabile mistero. È quello che mi è successo, ad
esempio, quando sono stato a Riobamba, in quella che fu la diocesi
di mons. Proaño, e ho parlato con Delfín, un indio che da poco
ricopre la carica di Co-vicario della Pastorale Indigena
Diocesana. Questa è la sua testimonianza: “Nella nostra
cosmovisione indigena esistono tre elementi fondamentali:
Pachakamak (Dio), Pachamama (la Natura) e Runa
(l’uomo e i popoli). Noi pensiamo che questi tre elementi devono
convivere e svilupparsi in armonia: non è giusto che il Runa
(l’uomo) voglia ‘progredire’ a scapito di Pachamama, la
Madreterra. Per la cultura dominante la Natura non ha alcun
valore, soprattutto la Natura del Sud del Mondo, destinato ad
essere la pattumiera dell’Impero. Per questo noi chiamiamo il
neoliberismo Yakipacha, cioé il ‘Tempo della tristezza e
della corruzione’. Yakipacha è il mondo alla rovescia, il
mondo che si sviluppa in modo contrario alla volontá di Dio.
Per
noi non c’è vero sviluppo se non si rispetta allo stesso tempo Dio
e la Natura: la Terra (Pachamama) è il seno materno dei
popoli indigeni, Maria è il seno materno del Figlio di Dio, e la
donna è il seno materno dell’uomo (Runa). Viviamo grazie a
queste tre madri, perciò non possiamo accettare che si attacchi e
si distrugga nessuna di loro.
Alcune sette protestanti considerano la terra solo come materia, e
dicono che le cose ‘materiali’ non hanno importanza: ‘Che muoia la
terra, dicono, e poi Gesú verrá a salvare i suoi eletti’. Ma noi
non possiamo accettare questo messaggio e farci complici della
mentalità distruttrice delle multinazionali. Gesú non è un
terrorista che dice: ‘Distruggete la Creazione di Dio, non mi
interessa il futuro di questo pianeta’. Gesú non è Osama Bin Laden”.
La ‘Via
Crucis’
Quando si parla di pellegrini, potremmo inavvertitamente assumere
un’immagine romantica e intimista del pellegrinaggio. Per questo
credo che è importante, in questo periodo di Quaresima,
contemplare alcuni elementi della Via Crucis – il Cammino della
Croce - che ci aiutino a capire le esigenze di un vero
pellegrinaggio cristiano.
Simone
il Cireneo
“Mentre
lo conducevano via, presero un certo Simone di Cirene che veniva
dalla campagna, e gli imposero la croce da portare dietro a Gesú”
(Lc23,26).
Il
verbo greco che si traduce in italiano con ‘prendere’ –
epilambánomai –indica un’azione di forza. I soldati
afferrarono con violenza questo povero contadino che tornava dal
lavoro dei campi. Simone è di origine africana, di Cirene, una
cittá della costa libica. Leggendo la Bibbia con i Missionari
Afroecuatoriani, stiamo sempre attenti alla presenza del negro e
dell’africano nella Scrittura. È interessante notare, dunque, che
la “Via Crucis” inizia con la solidarietá forzata di un contadino
africano. Dio si sente debole, ha bisogno dell’aiuto di un
africano per poter continuare a camminare, per poter portare a
termine il suo piano di salvezza.
I
soldati “impongono la croce” al Cireneo. Si tratta quasi di una
investitura solenne del popolo Afro. E di fatto, l’Africa è
presente nei momenti cruciali della vita di Gesú: a Natale, Gesú
si salva dalla furia di Erode grazie all’ospitalitá della terra
africana (Egitto); e adesso, in Settimana Santa, un altro africano
aiuta il Signore a raggiungere il Golgota, il luogo dove si
realizzerá il piano universale di salvezza.
Il
passo parallelo di Marco ci informa che il Cireneo è il padre di
Alessandro e Rufo (Mc15,21), due membri della prima comunitá
cristiana. Ció significa che, pur non avendo scelto lui la Croce,
alla fine Simone si convertí in discepolo di Cristo ed educó i
suoi figli in questa stessa fede. L’Africa e i figli dell’Africa,
dunque, sono chiamati sin dal principio a condividere il cammino
di Gesú e a collaborare al suo piano di salvezza.
Allo
stesso modo, nel cammino che ci conduce dalla Croce alla
Risurrezione, siamo chiamati ad essere aperti all’incontro
inaspettato con i Crocifissi di oggi, un incontro che nemmeno il
Cireneo aveva programmato.
Farci carico della croce del fratello…Certo, non tocca a un
turista preoccuparsi di tutto questo: il turista viaggia per
divertirsi e non per risolvere i problemi degli altri. Diverso,
naturalmente, è il comportamento che ci aspetteremmo da un
pellegrino. E noi? In questa societá di sentimenti light,
saremo capaci di farci carico della croce dei nostri fratelli? Ci
comporteremo da pellegrino o da turista?
La
settimana scorsa, la Comunitá Afro del quartiere Esmeraldas
Chiquito, con cui ci incontriamo tutti i martedì, ha
organizzato un’iniziativa di solidarietà per aiutare la signora
Yoanna, che vive con i suoi tre figli in una baracca di caña,
una specie di bambú. A causa dell’intensa pioggia di questi
giorni, la piccola baracca dove vivono Yoanna e la sua famiglia si
é accasciata su se stessa, e adesso lei e i bambini non hanno
riparo. Davanti a questa emergenza, il gruppo afro della
parrocchia ha organizzato un bingo e un “mercato delle pulci”: il
ricavato andrá a favore della signora Yoanna. Il ‘mercato delle
pulci’ qui si organizza quando alcuni benefattori offrono vestiti
usati in buone condizioni: si mettono tutti in vendita a un prezzo
stracciato, e quello che si ricava va in aiuto della persona che
si vuol beneficiare. Si tratta di un esempio concreto di
solidarietà fra poveri, che si responsabilizzano gli uni della
croce degli altri.
Giuseppe
di Arimatea
“C’era un uomo di nome Giuseppe, membro del Sinedrio, persona
buona e giusta. Non aveva aderito alle decisioni e all'operato
degli altri. Egli era di Arimatèa, una città dei Giudei, e
aspettava il regno di Dio. Si presentò a Pilato e chiese il
corpo di Gesù. Lo schiodó dalla croce, lo avvolse in
un lenzuolo e lo depose in una tomba scavata nella roccia,
nella quale nessuno era stato ancora deposto”
(Lc23,50-53).
Un
uomo “buono e giusto” come Giuseppe è una piccola luce di speranza
in mezzo al buio che copre la terra. Quest’uomo ci indica gli
atteggiamenti che dobbiamo coltivare durante il nostro
pellegrinaggio. Certamente, non sappiamo quando ci apparirá il
Risorto, ma questi atteggiamenti ci aiuteranno a preparare il
nostro incontro con Lui, e a riempire di senso e di speranza la
nostra attesa.
Il
primo atteggiamento che ci suggerisce la Parola è la capacitá e il
coraggio di saper andare controcorrente, di non “aderire
alle decisioni e all’operato” dell’Impero che – allora come oggi
– continua a crocifiggere gli emarginati. Per questo, Giuseppe
esprime apertamente il suo disaccordo e chiede il corpo di Gesú
a Pilato. Immaginiamoci la scena: Pilato è il rappresentante
dell’Impero che ha decretato la condanna a morte di Gesú. Chiedere
all’Imperatore che restituisca il corpo dei crocifissi è una
maniera di ricordargli la sua responsabilità e di obbligarlo a
render conto dei suoi crimini. Ci vuol coraggio per far questo. E
in effetti, nel passo parallelo, Marco ci informa che Giuseppe d’Arimatea
“andó coraggiosamente da Pilato per chiedere il corpo di
Gesú” (Mc15,43). L’attenzione al corpo e alla dimensione
corporale assume una chiara implicazione politica.
Questa attenzione al corpo si manifesta anche nell’atto di
avvolgere Gesú in un lenzuolo. L’uomo tocca il Corpo di Dio per
dargli un po’ di tenerezza. Nel vangelo di Luca, come sottolinea
padre Fausti, la vita di Gesú è contrassegnata – al principio e
alla fine – da due manifestazioni di tenerezza verso il suo corpo:
Maria lo avvolge in fasce (Lc2,7) e Giuseppe di Arimatea lo
avvolge in un lenzuolo. Al principio e alla fine della sua vita
terrena, Dio si affida alla nostra tenerezza.
Questo desiderio di toccare il Corpo di Dio è un elemento
caratteristico della devozione popolare, soprattutto del popolo
negro. Dovremmo allora riscoprire e valorizzare le implicazioni
politiche di questa devozione, in un’ottica liberatrice: mostrare
tenerezza per un corpo torturato dall’Impero è un atto di
protesta e di disaccordo politico contro le “decisioni e
l’operato” dell’Imperatore.
Generalmente, non siamo abituati ad associare la politica alla
tenerezza. Purtroppo, il disprezzo per la dimensione corporale ha
portato il cristianesimo occidentale a giustificare massacri,
guerre, schiavitù, etc, con il pretesto che quello che si uccideva
o si incatenava era solo un corpo, non un’anima. L’assolutizzazione
della dimensione ‘spirituale’ – intesa come contrapposta a tutto
ció che è materiale – produce violenza in tutti i campi: violenza
contro l’uomo, contro la Natura, etc. Perciò, la tenerezza verso
il corpo – tipica della cultura afro – è ció di cui abbiamo piú
bisogno per evangelizzare la nostra pratica pastorale, la
politica, l’economia, etc.
Anche noi, dunque, siamo chiamati a chiedere all’Imperatore il
corpo di tutti gli iracheni, di tutti gli italiani e statunintensi
uccisi in questa guerra nata da una menzogna. Questa tenerezza,
infatti, non deve ridursi a un vuoto sentimentalism, ma deve
sfociare in un impegno politico, nella pratica di “schiodare dalla
croce” i crocifissi della Storia, come fece Giuseppe.
Infine Luca ci dice che questo uomo buono e giusto “aspettava il
regno di Dio”. Il Regno di Dio è l’attuare di Dio nella nostra
vita e nella storia. In questo momento Gesú è morto, e la terra è
ancora avvolta nelle tenebre, e tuttavia Giuseppe continua a
sperare nell’intervento del Signore. Non sa come e quando Dio
interverrá, ma confida che il Signore non rimarrá zitto zitto e –
al momento opportuno – fará sentire la sua voce. Camminiamo nell’oscuritá,
e vediamo il corpo morto di Gesú, ma al tempo stesso sappiamo che
questa morte e questo buio non è la fine del cammino dell’uomo:
non accettiamo questo presente come parola definitiva sulla storia
umana, e continuiamo a credere che Dio ha preparato un futuro
diverso per tutti noi.
Preparare profumi
“Era
il giorno della parasceve, e giá splendevano le luci del sabato.
Le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea seguivano
Giuseppe; esse osservarono la tomba e come era stato
deposto il corpo di Gesù; poi tornarono indietro e prepararono
profumi e mirra. Il giorno di sabato riposarono secondo il
comandamento”
(Lc23,54-56).
“Preparare profumi” è un’altra manifestazione di preoccupazione e
affetto per il Corpo. Preparare profumi per un morto è come dire
che non crediamo che il morto è davvero completamente morto.
Questo sentimento è molto vivo e diffuso nella religiosità degli
afroecuatoriani. Come scrive Marcos Villamán, il popolo afro crede
che “i morti continuano a vivere con tutto quello che sono, e
una parte essenziale di quello che sono è la dimensione
corporale”. Nella cultura afro non è possibile immaginare la
vita senza il corpo, per cui se diciamo che i morti continuano a
vivere significa che anche il loro corpo – pur trasfigurato e
trasformato – continua a vivere. È per questo che, tra gli afro,
quando muore un familiare e si organizza la veglia al defunto, “il
cadavere è bagnato e ben vestito, di modo che possa entrare
adeguatamente al nuovo luogo in cui si verrá a trovare. Il corpo
del defunto dev’essere trattato con rispetto, dev’essere coperto,
perché lí sta ancora presente la persona, e senza un vestito la
persona potrebbe sentire vergogna”.
Un
turista generalmente non si interessa di cimiteri, a meno che non
abbiano una caratteristica architettonica particolare, né si
interessa dei morti sepolti nella terra che sta visitando. Un
turista si sente sempre di passaggio, e per questo non si sente
coinvolto piú di tanto in ció che avviene al suo intorno.
Come
pellegrini, invece, siamo chiamati anche noi a “osservare le
tombe”, cioè a sentirci coinvolti nel dolore e nel destino dei
nostri fratelli, soprattutto di coloro che sono perseguitati e
uccisi dal Potere. E anche noi siamo chiamati – in questa notte di
morte – a spiare e a preparare “le prime luci le sabato”. Il
Signore non è ancora risorto, ma l’odore dei profumi preparati da
queste donne apre giá un nuovo orizzonte, l’orizzonte del terzo
giorno. “Preparare profumi”, dunque, significa vivere questo
momento di buio con un atteggiamento di attesa fiduciosa;
significa non arrendersi di fronte alla politica di morte
dell’Impero; significa saper scoprire, in mezzo a questo sentiero
oscuro, tanti segni di speranza che annunciano le prime luci del
sabato. Non siamo soli: nel nostro cammino, nonostante il dolore e
le difficoltà, sperimentiamo la solidarietà inaspettata di tanti
Cirenei, assistiamo alla testimonianza coraggiosa di tanti
Giuseppe di Arimatea che sfidano il potere politico, e restiamo
ammirati di fronte alla tenerezza e alla compassione di tante
donne che non si arrendono alla morte e continuano a preparare
profumi. Il seme della Resurrezione è giá presente in questo
cammino che stiamo percorrendo, in tutti questi atteggiamenti che
ci preparano ad accogliere il Risorto.
Perciò, che nessuno dica che preparare mirra è un gesto alienante,
perché l’aroma di questi profumi continua ad inebriarci a distanza
di duemila anni: benedette le mani che li hanno preparati e che ci
hanno schiuso una fragranza eterna di speranza!
Sembra incredibile: un profumo preparato da mano di donna ha il
potere di vanificare una condanna a morte decretata dall’Impero.
Se prepariamo e crediamo in questi profumi, dunque, “il primo
giorno dopo il sabato” (Lc24,1) incontreremo anche noi la tomba
vuota, e scopriremo che la politica di tenebra e di morte – che
fino a ieri sembrava imbattibile - sará stata sopraffatta dai
profumi preparati dal nostro popolo e dalla Luce del Risorto. La
fragranza di questi profumi, allora, dará consolazione ai tanti
vagabondi che incroceranno il nostro cammino e fará nascere una
brezza di nostalgia – nostalgia di Dio - nel cuore e nella mente
di tanti turisti. E cosí, tutti insieme come pellegrini,
cammineremo uniti all’incontro del Risorto, che ci invita alla
Grande Festa del Terzo Giorno.
Alberto
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