PREPARARE PROFUMI

 

Lettera agli amici di fr. Alberto Degan

 

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TESTIMONI DELLA CARITA' PROVOCAZIONI DI P.ALEX

 

Ecco la lettera che fr. Degan ha scritto agli amici. La inseriamo nel sito e la proponiamo a voi come uno "strumento" che possa aiutare la vostra riflessione invito alla riflessione  e un invito a invito a nutrire la speranza in questi giorni di preparazione alla  Pasqua

 

Buio sulla terra

“Era verso mezzogiorno, quando il sole si eclissó e si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio” (Lc23,44).

Commentando questo passo, il compianto Tonino Bello affermava che si tratta del passo piú oscuro di tutto il vangelo: il buio, l’oscuritá totale si è impadronita di tutta la terra. Peró, continuava il vescovo di Molfetta, da questa pagina esce anche un raggio invincibile di luce, perché ci dice che il buio e l’agonia della croce dura solo tre ore: da mezzogiorno alle tre del pomeriggio. Si tratta allora di vivere questo lungo momento di buio con un atteggiamento di fede: è in mezzo a questo buio, infatti, che Gesú affida il suo Spirito al Padre: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc23,46).

Il primo suggerimento che ci dá la Parola, dunque, è di accorgerci del buio che ci circonda, di assumere con consapevolezza quel disagio che in qualche modo ci avvolge tutti, e di non dormire. Anche la notte passata nel Getsemani, Gesú invitava i suoi discepoli a rimanere ben svegli: “Perché dormite? Alzatevi e pregate” (Lc22,45).

A me sembra che, invece di seguire l’invito di Gesú, molto spesso dormiamo nel buio.

 

Il cambio climatico

Un rapporto del Pentagono che il Governo statunitense non ha voluto pubblicare é stato reso noto dal prestigioso quotidiano “The Observer”. Questo rapporto ‘segreto’ presenta un panorama catastrofico dei cambi climatici che si realizzeranno – secondo la maggioranza degli scienziati contattati dal Pentagono - nel giro di quindici o vent’anni. Secondo questo rapporto, molte cittá europee sprofonderanno sotto i mari che si alzano e la Gran Bretagna vivrá permanentemente in un clima siberiano; l’acqua e altre fonti di energia diminuiranno sempre piú, causando carestie, siccità e migrazioni in massa di intere popolazioni. Ancora una volta, conclude questo rapporto, “sará la guerra a determinare la vita umana”.

Davanti a questa catastrofe imminente, il pericolo terrorista appare decisamente come un pericolo secondario. “Non sappiamo esattamente a che punto siamo in questo processo”, afferma Doug Randall, uno degli estensori del documento. “Potrebbe iniziare domani, e noi potremmo non accorgercene per due o tre anni”. In altre parole, stiamo dormendo. E pensare che questo non lo dice una Centrale dell’Internazionale Comunista, ma lo dice il Pentagono! Perché, allora, continuiamo a dormire? Perché il governo statunitense continua a far orecchie da mercante? Perché non fa subito qualcosa per diminuire drasticamente il consumo del petrolio e l’emissione dell’ossido di carbonio? Perché, ci spiega Jeremy Symons, esperto di questioni climatiche, “l’Amministrazione Bush sta ignorando l’evidenza solo per compiacere una manciata di compagnie petrolifere”.

 Una politica eucaristica

“I re delle nazioni le governano come signori assoluti e quelli che esercitano il potere si fanno chiamare benefattori. Peró tra voi non sia cosí…Io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc23,25-26).

È interessante notare che queste parole sull’esercizio politico del potere, Gesú le pronuncia subito dopo aver istituito l’Eucaristia, nell’ultima Cena, nell’ultimo discorso rivolto ai suoi discepoli. L’esercizio della politica, dunque, deve entrare nella logica eucaristica del servizio, nella logica del dare la vita – e non del toglierla.

Un elemento fondamentale che distingue la politica come servizio dalla politica come manipolazione è il rispetto della veritá. Una politica basata sulla menzogna è l’esatto opposto di una politica ‘eucaristica’.

A questo proposito, è bene conservare la memoria di quanto è successo due mesi fa. Il 20 gennaio di quest’anno il presidente Bush, nel suo Discorso annuale sullo Stato dell’Unione, a proposito della Commissione della CIA – guidata da David Kay - che stava indagando in Iraq alla ricerca delle armi di distruzione di massa, ha testualmente affermato: “Il Rapporto della Commissione Kay ha giá identificato dozzine di armi destinate a programmi di distruzione di massa e significative quantitá di armamenti che l’Iraq teneva nascosti”. Tre giorni dopo, il capo della citata Commissione, David Kay, annunciava le sue dimissioni e smentiva clamorosamente le parole del presidente, affermando: “Penso che quelle armi non siano mai esistite”. Due settimane dopo, il direttore della CIA, Gorge Tenet, ha affermato che “la CIA non ha mai parlato di imminente minaccia da parte dell’Iraq”.

Com’è possibile mentire cosí spudoratamente e far finta che non sia successo niente?

Esercitano il potere come signori assoluti e si fanno chiamare benefattori”, diceva Gesú nell’Ultima Cena. Ed è cosí come il presidente Bush presenta la sua politica menzognera, come una politica al servizio della pace nel mondo. E cosí, commentando il Discorso sullo Stato dell’Unione, un giornalista del Los Angeles Times ha scritto che “l’esercizio del potere americano ha un ruolo chiave nel mantenimento della pace e dell’ordine mondiale”. Quanto all’ipotesi che la minaccia rappresentata da Saddam Hussein non fosse cosí ‘minacciosa’ come si pensava, il giornalista dice che, ad ogni modo, l’intervento armato statunitense apre un’epoca di democratizzazione in Iraq, “un sogno che solo il potere armato americano ha potuto ispirare”.

Buio anche sulla politica internazionale,  dunque.

 In Ecuador

E buio anche sulla politica nazionale dell’Ecuador, condizionata dai grandi poteri trasnazionali. Prima di tutti il presidente Lucio Gutiérrez, smentendo il suo programma elettorale, si è inchinato ai voleri del Fondo Monetario Internazionale; per questo il partito indigena “Pachakutik” è uscito dal Governo. Fra le altre cose, il FMI ha chiesto al Governo ecuadoregno di elevare le tariffe telefoniche interne e di abbassare quelle internazionali; ma la richiesta piú preoccupante è quella di aumentare il prezzo della bombola del gas da cucina da 1,60 a 7,15 dollari. Non c´è bisogno di essere indovini per capire come potrá reagire la gente davanti all’aumento di un bene economico cosí fondamentale. Insomma, vogliono continuare ad aumentare le tariffe dei servizi vitali, e cosí, ha commentato un giornalista, succederá quello che é successo all’asino della favola: che morí dopo aver appreso – per un po’ di tempo – la difficile arte di vivere senza mangiare. Una politica evangelica ed eucaristica è quella che mette al centro delle scelte economiche il cucchiaio popolare, e non gli interessi delle Istituzioni bancarie trasnazionali.

Purtroppo, la politica asservita agli interessi delle multinazionali produce questo paradosso: i soldi per militarizzare il pianeta Marte e per costruire colonie sulla Luna ci sono, e in abbondanza; ma i soldi per poter garantire a tutti una vita degna sul pianeta Terra non si trovano.

 Il mondo in fuga: turisti e vagabondi

Questo buio ‘macrostrutturale’ si ripercuote anche nella nostra vita di tutti i giorni, negli atteggiamenti e nei sentimenti con cui affrontiamo i problemi della quotidianitá. Per descrivere questa situazione il sociologo Anthony Giddens usa l’efficace immagine di un “mondo in fuga” :“The runaway world” è il titolo di un suo libro. In quello che diró prendo spunto da un interessantissimo documento scritto da padre Benito de Marchi, per poi svilupparlo liberamente.

In mezzo a questo buio manca un punto di riferimento preciso, e cosí la vita dell’uomo d’oggi è caratterizzata da un “errare nomadico”. Ogni epoca si riconosce in una figura emblematica che, in qualche modo, rappresenta le aspirazioni e i sentimenti di tutti. Nell’Alto Medioevo questa figura era il monaco; nel Basso Medioevo questa figura era il cavaliere, il trovatore; nel Rinascimento era l’artista, il pittore; all’inizio del capitalismo era il mercante. Oggigiorno la figura che piú di altre rappresenta il nostro stato d’animo – soprattutto in Occidente – è il turista, turista inteso come colui che rifiuta di concentrarsi in un cammino e un ideale, perché vuole conoscere tutti i cammini e assaggiare un po’ di tutto, senza impegnarsi definitivamente in niente, per poter provare emozioni sempre nuove.

A volte il lavoro che sto facendo nella Pastorale Afro mi sembra piccolo, marginale, nel senso che è un lavoro che mi assorbe completamente e mi impedisce di girare per altri mondi, di fare tante altre cose, che mi sembrano altrettanto importanti. Per un attimo rimpiango i tempi quando, come laico, potevo permettermi di fare esperienze interessantissime in distinte parti del mondo. Ma poi mi rendo conto che quello che mi mancava era un progetto, un programma di fedeltá che desse senso a tutta la mia vita. E allora capisco, e sono riconoscente a Dio: certamente la Pastorale Afro è solo un piccolo pezzo dell’immensa vigna del Signore, ma Dio mi ha chiamato a lavorare in questo piccolo terreno tanto disprezzato, e vuole che mi dedichi con tutto il cuore a coltivare questa piccola fetta della sua vigna.

Capisco molto bene, allora, tutti coloro che cercano una risposta nel turismo esotico, tutti coloro che stanno fuggendo in cerca di una terra d’approdo ancora sconosciuta. E non mi riferisco solo a chi viaggia alle Seychelles: sto parlando di questo forte senso di disagio, di insoddisfazione, che cerchiamo di nascondere “muovendoci da un centro commerciale all’altro, da un’esperienza all’altra, fino ad immergerci nello stravagante della realtà virtuale”, commenta padre De Marchi. Abbiamo paura di fermarci.

Ultimamente questo mondo di turisti è stato sconvolto dall’arrivo di molti vagabondi, coloro cui il sistema impedisce qualsiasi sogno turistico: gli emarginati, gli immigrati, etc. Questi vagabondi ci danno fastidio, perché ci obbligano a pensare in cose cui non vorremmo pensare, e disturbano i nostri sogni e i nostri programmi turistici.

Di questi vagabondi, alcuni ci sono utili perché garantiscono certi lavori di cui il mercato ha bisogno, ma altri sono davvero ‘popolazione eccedente’. Sappiamo, ad esempio, che in Colombia ogni giorno muoiono, uccisi nell’oscuritá che ci circonda, cinque o sei di questi vagabondi, i cosiddetti ‘desechables’, una parola che letteralmente significa ‘una persona che si puó buttar via, che si puó buttare nella spazzatura’. Si tratta di persone che non  stanno mai ferme, non dormono mai nello stesso posto, e ogni notte cercano un posticino nella strada dove poter dormire. Nell’epoca del mercato, i vagabondi che compongono la popolazione eccedente “si eliminano o per fame o con una pallottola”, commenta Eduardo Galeano, e cita il caso di un ingegnere argentino che, qualche anno fa, ammazzó a colpi di pistola due giovani che volevano rubargli il mangiacassette dell’auto. Venuto a conoscenza del fatto, un importante giornalista di Buenos Aires dichiaró: “Io mi sarei comportato allo stesso modo”. Davvero, il diritto alla proprietà di un mangianastri è piú importante del diritto alla vita di due vagabondi. “La gente vale meno delle cose”, conclude Galeano.

 Fuga dalla propria realtà

Tutto il mondo è in fuga. In Europa c’è gente che fugge in cerca di paradisi esotici. Ma non sono gli unici; anche a Malvinas, il barrio marginale dove operano i comboniani di Guayaquil, ci sono molti giovani in fuga, giovani che non vogliono conoscere il loro quartiere: vivono in Malvinas, ma conoscono solo l’isolato della loro strada, piú in lá non si arrischiano ad andare, perché – dicono – è un quartiere pericoloso. E non sanno che i giovani dell’altro isolato la pensano esattamente allo stesso modo nei loro confronti. Questi giovani non accettano la loro realtà e, anche se mancano i soldi per altre cose piú essenziali, implorano i genitori di comprargli un telefonino. Con un telefonino in mano, si ha l’impressione di vivere nel mondo dove vorremmo vivere: mandando messaggi al centro della cittá o in altri quartieri, è come se vivessimo fuori di Malvinas. E di fatto, alcuni giovani conoscono molto meglio i quartieri del Nord o del Centro che non il proprio quartiere.

Pastoralmente, allora, la principale sfida è quella di aiutare questi giovani a vivere nella propria realtà, con tutte le difficoltà che ció comporta. Per questo, tra le altre cose, abbiamo in programma un video popolare con temi scelti dai giovani stessi: droga, violenza, etc. I giovani scriveranno con noi il copione, parlando dei loro problemi ma anche dello loro speranze, e cercheremo insieme una possibile soluzione. Pablo e Cesar, ad esempio, due giovani negri di Malvinas che frequentano il Centro Afro, hanno composto alcune canzoni rap che esprimono la loro rabbia ma anche la loro voglia di vivere.

Per non parlare poi dei tanti equadoregni che fuggono negli Stati Uniti e in Europa, e di tutte quelle persone che, pur rimanendo in Ecuador, vivono con gli occhi e la mente fuori del nostro paese. A volte io chiedo alla gente: Dove stiano educando i nostri figli: in Ecuador o negli Stati Uniti? Che modelli e che valori stiamo loro trasmettendo?

 I nostri giovani

E i nostri giovani italiani? Da cosa stanno fuggendo? Fratel Joél, messicano, mio compagno di comunitá, mi dice che in questi ultimi due anni ch’é stato in Italia è rimasto colpito dalla fragilità dei nostri giovani: “Dietro una macchina, dietro un computer o un telefonino, si sentono sicuri, ma quando ho cercato di istaurare con loro un rapporto personale a tu per tu, quando cercavo di parlare con loro di come si sentivano, emergeva tutta la loro fragilità. Molti si mettevano a piangere ”.

Bisogna partire da qui, da questa fragilità, per ri-umanizzare la nostra società tecnificata.

Quando comunico con una persona via Internet, è molto facile, perché l’altra persona non mi disturba: posso aprire il suo messaggio quando voglio io, quando ho tempo; posso rispondergli oggi o domani, o posso anche far finta di non aver ricevuto il suo messaggio, posso anche non rispondergli, se non ho voglia, perché tanto la reazione di una persona nascosta dietro la macchina non tocca piú di tanto la mia vita reale. Peró quando questa stessa persona viene a trovarti, non puoi decidere di prestarle attenzione domani, o di far finta che non sia arrivata: la presenza fisica di questa persona ti costringe a porti in un atteggiamento di ospitalità, anche se la tua mente è attraversata da tutt’altri pensieri. La visita di una persona in carne ed ossa sconvolge la mia routine. E all’inizio provo un senso di disagio; mi rendo conto che  la tecnologia – poco a poco – ci sta disabituando alla relazione umana.

Alcuni missionari dicono che la priorità pastorale in Europa è come far rinascere l’interesse, il desiderio di Dio in una societá che sembra averlo completamente dimenticato. Ma forse, prima ancora di questo, l’urgenza che dobbiamo affrontare è come portare alla luce il desiderio - presente nei nostri giovani - di una relazione umana autentica, come ricostruire le relazioni umane: un prerequisito imprescindibile dell’evangelizzazione è l’umanizzazione.

Le nuove tecnologie sono senza dubbio molto utili, ma dobbiamo stare attenti a saperle dominare, e a non lasciarci dominare da loro. Un rischio molto concreto è che l’informatizzazione selvaggia ci renda incapaci di sostenere una relazione umana autentica.

 L’identitá afroecuatoriana

A volte si fugge anche dalla propria identità.

Alcuni, a proposito della popolazione afroamericana, parlano di popolazione ‘invisibilizzata’. In effetti, non ci sono dati certi sul numero di afroamericani, a tal punto che il BID (Banco Interamericano del Desarrollo)  rinuncia a dare dati univoci, e si limita a dire che la popolazione afroamericana è senz’altro superiore ai 64 milioni e senza dubbio inferiore ai 124 milioni.

In Ecuador i dati dell’ultimo censimento ufficiale dicono che gli afroecuatoriani sono il 5% della popolazione, ma secondo calcoli piú realistici gli afro costituiscono il 9 o 10% della popolazione nazionale.

Questa incertezza e varietá di dati è dovuta a diversi fattori. Prima di tutto, ci sono alcune nazioni che non hanno ancora riconosciuto il volto negro del proprio popolo, e i dati sono manipolati anche per evitare che i negri si rendano conto della propria forza  numerica. In Colombia, ad esempio, un calcolo realistico direbbe che i negri costituiscono piú del 20% della popolazione, ma questo non risulta nelle statistiche ufficiali.

Accanto a questo, peró, esiste un altro fattore che spiega l’incertezza dei dati ufficiali, ed è che ci sono molti negri che non si riconoscono come tali: abituati ad essere disprezzati dalla societá, alcuni afroecuatoriani non vogliono identificarsi come negri. Una delle prioritá della Pastorale Afro, dunque, è aumentare l’autostima della popolazione nera, affinché accetti con orgoglio la propria identitá e la propria storia.

Per questo cerchiamo di riscoprire e rivalorizzare la presenza dell’Africa e del negro nella Bibbia, per questo cerchiamo di recuperare la storia perduta del negro in Ecuador. I risultati di questa ricerca – che non arrivano sui banchi delle scuole equadoregne – ci dicono che la storia del negro in Ecuador non è solamente una storia di oppressione e schiavitù, ma è anche contrassegnata dalla presenza di tante figure che hanno lottato – spesso con successo – per la propria libertá e per la libertá del proprio popolo.

Da circa un mese è entrata in funzione la Scuola di Formazione Afroecuatoriana, che vuole formare leader neri che amino il proprio popolo e lo aiutino a riscoprire la bellezza della propria cultura. Il papa ha detto che “la Chiesa ha l’obbligo di avvicinarsi agli americani di origine africana a partire dalla loro cultura, valorizzando seriamente le sue ricchezze spirituali e umane”. Seguendo la metodología del ‘salvare l’Africa con l’Africa’, abbiamo scelto - come formatori di questa Scuola - Missionari Laici Afroecuatoriani coadiuvati da noi comboniani. Agli ‘alunni’ della nostra scuola – e fra questi c’è anche un sacerdote – facciamo conoscere gli elementi principali della religiositá, della cultura e della storia del negro in Ecuador. È importante che la gente veda che a dare questi temi sono gli stessi negri, ormai protagonisti della propria evangelizzazione.

Ai formatori della nostra Scuola stiamo dando anche una formazione biblica specifica nell’ermeneutica negra. Il nostro sogno è che, a partire dall’anno prossimo, questi laici negri formino un equipe itinerante che dia corsi di cultura e teología afro nelle varie diocesi dove saranno chiamati.

È un piccolo progetto per far sí che il popolo afro possa arricchire la Chiesa equadoregna con la sua spiritualitá, a proposito della quale mons. Bartolucci, vescovo di Esmeraldas, scriveva: “Per salvarsi, il mondo occidentale ha bisogno di quei valori evangelici (sobrietá, solidarietá, rispetto della Natura, fraternità, allegria, gioia di vivere) che sono caratteristiche proprie del patrimonio culturale tradizionale dei popoli afroamericani. L’autentica spiritualitá negra, sempre purificata dalla Parola di Dio, puó offrire la soluzione a uno dei piú gravi problemi del nostro tempo: la progressiva disumanizzazione prodotta da una societá tecnificata, fredda e opulenta”.

E cosí, smettendo di fuggire da sé stessi, e recuperando appieno la propria identità, gli afroamericani renderanno un grande servizio alla Chiesa e a tutta la società.

 

La scomparsa del futuro

In questo mondo che fugge si possono individuare diverse maniere di vivere la fuga, ma un elemento caratteristico che unifica tutte queste esperienze, ci spiega Anthony Giddens, è che sembriamo aver perso il senso del destino dell’umanitá.

A questo proposito, penso si possa dire che il futuro è scomparso dalla mente e dall’immaginazione dell’operatore economico neoliberale, che è incapace di ragionare e pianificare a largo termine. La ‘razionalitá’ neoliberale, infatti, ragiona a breve termine: vuole vedere risultati immediati; per questo la salvaguardia dell’ambiente è considerata la principale nemica dello ‘sviluppo’. Alcuni mesi fa il famoso scrittore Vargas LLosa ha detto che gli indios americani – con il loro ‘fanatico’ interesse per la salvaguardia della natura – sono i principali nemici dello ‘sviluppo’, e ha ragione: sono i principale nemici dello ‘sviluppo’ cosí come lo intende il neoliberismo. Lo sviluppo neoliberale, dice Eduardo Galeano, è “un ponte senza fiume, un’autostrada che ti fa vedere i campi distrutti per costruire l’autostrada”.

Secondo la mentalità neoliberale, la vita si realizza solo in una dimensione orizzontale. L’Impero vuole rubarci il futuro, vuole che il futuro scompaia dalla nostra mente e dal nostro immaginario collettivo. Il neoliberismo, infatti, si presenta come ‘fine della storia’, un modo per dirci che non c’è piú futuro, perché abbiamo raggiunto l’ultima tappa del camminare dell’uomo: tutto quello per cui hanno lottato, sofferto e sperato i nostri antenati e i nostri padri ha raggiunto il suo scopo e il suo termine. In altre parole, l’Impero vuole imprigionare il futuro, vuole incatenarlo al presente; il neoliberismo vuole cancellare il concetto stesso di futuro inteso come fonte de speranza e proiezione dei nostri sogni: in quest’ottica, la vita si sviluppa in un eterno presente, arrivato al suo punto di perfezione, sempre uguale a se stesso.

 

Pellegrini alla ricerca del futuro

Con i Missionari Afroecuatoriani stiamo studiando il profeta Ezechiele e le sue grandi visioni che presentava al popolo esiliato a Babilonia. Analizzando la famosa visione delle ossa inaridite (Ez37,1-14), ad esempio, ci siamo chiesti: a che serve essere visionari, a che serve sognare un futuro diverso? forse è una forma di ‘escapismo’ spirituale, una consolazione alienante che mira a far dimenticare la situazione presente?

E siamo giunti a questa conclusione: di tutti i popoli deportati a Babilonia, Israele è l’unico che è sopravvissuto a quello e ad altri Imperi. Altri popoli, incapaci di sognare, si sono assimilati all’Impero e si sono perduti, giá non esistono piú come popoli. Un popolo che non sogna e che non tiene visioni, dunque, è destinato a morire: è impossibile vivere senza un orizzonte di futuro.

Ma dov’é questo futuro? Nemmeno noi missionari lo sappiamo: anche noi siamo in ricerca, anche noi ci mettiamo in cammino, neanche noi vogliamo rimanere fermi nello stesso punto. La missione, allora, diventa un pellegrinaggio: il pellegrino non sa come e quando terminerá il suo cammino, e non conosce esattamente il percorso che lo porterá alla meta agognata, perché anche lui è immerso nel buio che copre “tutta la terra” dal mezzogiorno alla tre. Ma in mezzo a questo buio ci affidiamo, come Gesú, al Padre: mettendoci nella mani di Dio, sentiamo che un orizzonte invisibile sta conducendo i nostri passi. Anche noi ci muoviamo a tastoni, ma sentiamo che non siamo soli, e in questo cammino – un cammino che ci conduce dalla Croce alla Resurrezione – riscopriamo un senso e una pienezza che temevamo aver perduto. “Solo come pellegrino, il missionario puó farsi credibile nel mondo di oggi”, commenta padre De Marchi. “Solo come pellegrini possiamo rappresentare una sfida per il vagare consumistico dei ‘turisti’ della societá postmoderna e nello stesso tempo diventare motivo di speranza per i ‘vagabondi’ nella loro spossante ricerca di una ospitalità. Allora l’ambizione umile dell’azione missionaria consiste nell’aprire il mondo dei ‘turisti’ e ‘vagabondi’ al senso del pellegrinaggio”.

Dobbiamo allora liberare il futuro dalla prigione in cui vorrebbe rinchiuderlo il neoliberismo, e proclamare a voce alta che la ricerca e la speranza hanno ancora diritto di cittadinanza in questo mondo. Evangelizzare il futuro, dunque, significa riconfermare la nostra fede nel “disegno prestabilito nella pienezza dei tempi di ricapitolare in Cristo tutte le cose” (Ef1,10). Cristo – e non il neoliberismo – è il fine della storia. Ha ancora un senso, dunque, sognare un futuro diverso, un futuro in cui tutte le cose si saranno trasformate a immagine di Cristo. Come questo avverrá non lo sappiamo, peró si sappiamo che il neoliberismo non è la parola ultima e definitiva sulla storia dell’uomo.

 

Liberare Dio

In questo pellegrinaggio, dunque, Dio si rivelerá a noi come sorpresa. A volte anche noi missionari abbiamo voluto incatenare Dio nei nostri schemi, nelle nostre categorie mentali e culturali. Forse è per questo che non sempre abbiamo saputo accompagnare la gente all’incontro con quel Dio che ci sorprende ogni giorno. In quest’epoca di grandi cambiamenti culturali, forse abbiamo incatenato Dio in uno schema e in un linguaggio che non dice quasi niente al turista e al vagabondo del mondo postmoderno. Forse ci siamo dimenticati che Dio è un mistero ineffabile che non puó essere racchiuso in nessuna categoria culturale. A questo proposito, mi ha sempre colpito il passo in cui Maria scopre, angosciata, che Gesú non sta nella sua stessa carovana, e cosí deve mettersi a cercarlo (Lc2,44). Anche noi missionari, a volte, diamo per scontato che Gesú stia sempre nella nostra carovana. Ma nessuno possiede Gesú, nemmeno sua madre. Nessuno possiede Dio. Sembra quasi che Gesú - stanco dei nostri discorsi – sia scappato dalla nostra carovana, per costringerci a rimetterci in movimento e ad andarlo a cercare. È necessario, allora, mantenerci in questo atteggiamento di ricerca e di pellegrinaggio: solo in questo modo potremo coinvolgere altre persone nella nostra ricerca.

E in questa ricerca Dio ci sorprenderá, facendoci scoprire nuovi nomi del suo ineffabile mistero. È quello che mi è successo, ad esempio, quando sono stato a Riobamba, in quella che fu la diocesi di mons. Proaño, e ho parlato con Delfín, un indio che da poco ricopre la carica di Co-vicario della Pastorale Indigena Diocesana. Questa è la sua testimonianza: “Nella nostra cosmovisione indigena esistono tre elementi fondamentali: Pachakamak (Dio), Pachamama (la Natura) e Runa (l’uomo e i popoli). Noi pensiamo che questi tre elementi devono convivere e svilupparsi in armonia: non è giusto che il Runa (l’uomo) voglia ‘progredire’ a scapito di Pachamama, la Madreterra. Per la cultura dominante la Natura non ha alcun valore, soprattutto la Natura del Sud del Mondo, destinato ad essere la pattumiera dell’Impero. Per questo noi chiamiamo il neoliberismo Yakipacha, cioé il ‘Tempo della tristezza e della corruzione’. Yakipacha è il mondo alla rovescia, il mondo che si sviluppa in modo contrario alla volontá di Dio.

Per noi non c’è vero sviluppo se non si rispetta allo stesso tempo Dio e la Natura: la Terra (Pachamama) è il seno materno dei popoli indigeni, Maria è il seno materno del Figlio di Dio, e la donna è il seno materno dell’uomo (Runa). Viviamo grazie a queste tre madri, perciò non possiamo accettare che si attacchi e si distrugga nessuna di loro.

Alcune sette protestanti considerano la terra solo come materia, e dicono che le cose ‘materiali’ non hanno importanza: ‘Che muoia la terra, dicono, e poi Gesú verrá a salvare i suoi eletti’. Ma noi non possiamo accettare questo messaggio e farci complici della mentalità distruttrice delle multinazionali. Gesú non è un terrorista che dice: ‘Distruggete la Creazione di Dio, non mi interessa il futuro di questo pianeta’. Gesú non è Osama Bin Laden”.

 

La ‘Via Crucis’

Quando si parla di pellegrini, potremmo inavvertitamente assumere un’immagine romantica e intimista del pellegrinaggio. Per questo credo che è importante, in questo periodo di Quaresima, contemplare alcuni elementi della Via Crucis – il Cammino della Croce - che ci aiutino a capire le esigenze di un vero pellegrinaggio cristiano.

 

Simone il Cireneo

Mentre lo conducevano via, presero un certo Simone di Cirene che veniva dalla campagna, e gli imposero la croce da portare dietro a Gesú” (Lc23,26).

Il verbo greco che si traduce in italiano con ‘prendere’ – epilambánomai –indica un’azione di forza. I soldati afferrarono con violenza questo povero contadino che tornava dal lavoro dei campi. Simone è di origine africana, di Cirene, una cittá della costa libica. Leggendo la Bibbia con i Missionari Afroecuatoriani, stiamo sempre attenti alla presenza del negro e dell’africano nella Scrittura. È interessante notare, dunque, che la “Via Crucis” inizia con la solidarietá forzata di un contadino africano. Dio si sente debole, ha bisogno dell’aiuto di un africano per poter continuare a camminare, per poter portare a termine il suo piano di salvezza.

I soldati “impongono la croce” al Cireneo. Si tratta quasi di una investitura solenne del popolo Afro. E di fatto, l’Africa è presente nei momenti cruciali della vita di Gesú: a Natale, Gesú si salva dalla furia di Erode grazie all’ospitalitá della terra africana (Egitto); e adesso, in Settimana Santa, un altro africano aiuta il Signore a raggiungere il Golgota, il luogo dove si realizzerá il piano universale di salvezza.

Il passo parallelo di Marco ci informa che il Cireneo è il padre di Alessandro e Rufo (Mc15,21), due membri della prima comunitá cristiana. Ció significa che, pur non avendo scelto lui la Croce, alla fine Simone si convertí in discepolo di Cristo ed educó i suoi figli in questa stessa fede. L’Africa e i figli dell’Africa, dunque, sono chiamati sin dal principio a condividere il cammino di Gesú e a collaborare al suo piano di salvezza.

Allo stesso modo, nel cammino che ci conduce dalla Croce alla Risurrezione, siamo chiamati ad essere aperti all’incontro inaspettato con i Crocifissi di oggi, un incontro che  nemmeno il Cireneo aveva programmato.

Farci carico della croce del fratello…Certo, non tocca a un turista preoccuparsi di tutto questo: il turista viaggia per divertirsi e non per risolvere i problemi degli altri. Diverso, naturalmente, è il comportamento che ci aspetteremmo da un pellegrino. E noi? In questa societá di sentimenti light, saremo capaci di farci carico della croce dei nostri fratelli? Ci comporteremo da pellegrino o da turista?

La settimana scorsa, la Comunitá Afro del quartiere Esmeraldas Chiquito, con cui ci incontriamo tutti i martedì, ha organizzato un’iniziativa di solidarietà per aiutare la signora Yoanna, che vive con i suoi tre figli in una baracca di caña, una specie di bambú. A causa dell’intensa pioggia di questi giorni, la piccola baracca dove vivono Yoanna e la sua famiglia si é accasciata su se stessa, e adesso lei e i bambini non hanno riparo. Davanti a questa emergenza, il gruppo afro della parrocchia ha organizzato un bingo e un “mercato delle pulci”: il ricavato andrá a favore della signora Yoanna. Il ‘mercato delle pulci’ qui si organizza quando alcuni benefattori offrono vestiti usati in buone condizioni: si mettono tutti in vendita a un prezzo stracciato, e quello che si ricava va in aiuto della persona che si vuol beneficiare. Si tratta di un esempio concreto di solidarietà fra poveri, che si responsabilizzano gli uni della croce degli altri.

 

Giuseppe di Arimatea

“C’era un uomo di nome Giuseppe, membro del Sinedrio, persona buona e giusta. Non aveva aderito alle decisioni e all'operato degli altri. Egli era di Arimatèa, una città dei Giudei, e aspettava il regno di Dio. Si presentò a Pilato e chiese il corpo di Gesù. Lo schiodó dalla croce, lo avvolse in un lenzuolo e lo depose in una tomba scavata nella roccia, nella quale nessuno era stato ancora deposto” (Lc23,50-53).

Un uomo “buono e giusto” come Giuseppe è una piccola luce di speranza in mezzo al buio che copre la terra. Quest’uomo ci indica gli atteggiamenti che dobbiamo coltivare durante il nostro pellegrinaggio. Certamente, non sappiamo quando ci apparirá il Risorto, ma questi atteggiamenti ci aiuteranno a preparare il nostro incontro con Lui, e a riempire di senso e di speranza la nostra attesa.

Il primo atteggiamento che ci suggerisce la Parola è la capacitá e il coraggio di saper andare controcorrente, di non “aderire alle decisioni e all’operato”  dell’Impero che – allora come oggi – continua a crocifiggere gli emarginati. Per questo, Giuseppe esprime apertamente il suo disaccordo e chiede il corpo di Gesú a Pilato. Immaginiamoci la scena: Pilato è il rappresentante dell’Impero che ha decretato la condanna a morte di Gesú. Chiedere all’Imperatore che restituisca il corpo dei crocifissi è una maniera di ricordargli la sua responsabilità e di obbligarlo a render conto dei suoi crimini. Ci vuol coraggio per far questo. E in effetti, nel passo parallelo, Marco ci informa che Giuseppe d’Arimatea “andó coraggiosamente da Pilato per chiedere il corpo di Gesú” (Mc15,43). L’attenzione al corpo e alla dimensione corporale assume una chiara implicazione politica.

Questa attenzione al corpo si manifesta anche nell’atto di avvolgere Gesú in un lenzuolo. L’uomo tocca il Corpo di Dio per dargli un po’ di tenerezza. Nel vangelo di Luca, come sottolinea padre Fausti, la vita di Gesú è contrassegnata – al principio e alla fine – da due manifestazioni di tenerezza verso il suo corpo: Maria lo avvolge in fasce (Lc2,7) e Giuseppe di Arimatea lo avvolge in un lenzuolo. Al principio e alla fine della sua vita terrena, Dio si affida alla nostra tenerezza.

Questo desiderio di toccare il Corpo di Dio è un elemento caratteristico della devozione popolare, soprattutto del popolo negro. Dovremmo allora riscoprire e valorizzare le implicazioni politiche di questa devozione, in un’ottica liberatrice: mostrare tenerezza per un corpo torturato dall’Impero è un atto di protesta e di disaccordo politico contro le “decisioni e l’operato” dell’Imperatore.

Generalmente, non siamo abituati ad associare la politica alla tenerezza. Purtroppo, il disprezzo per la dimensione corporale ha portato il cristianesimo occidentale a giustificare massacri, guerre, schiavitù, etc, con il pretesto che quello che si uccideva o si incatenava era solo un corpo, non un’anima. L’assolutizzazione della dimensione ‘spirituale’ – intesa come contrapposta a tutto ció che è materiale – produce violenza in tutti i campi: violenza contro l’uomo, contro la Natura, etc. Perciò, la tenerezza verso il corpo – tipica della cultura afro – è ció di cui abbiamo piú bisogno per evangelizzare la nostra pratica pastorale, la politica, l’economia, etc.

Anche noi, dunque, siamo chiamati a chiedere all’Imperatore il corpo di tutti gli iracheni, di tutti gli italiani e statunintensi uccisi in questa guerra nata da una menzogna. Questa tenerezza, infatti, non deve ridursi a un vuoto sentimentalism, ma deve sfociare in un impegno politico, nella pratica di “schiodare dalla croce” i crocifissi della Storia, come fece Giuseppe.

Infine Luca ci dice che questo uomo buono e giusto “aspettava il regno di Dio”. Il Regno di Dio è l’attuare di Dio nella nostra vita e nella storia. In questo momento Gesú è morto, e la terra è ancora avvolta nelle tenebre, e tuttavia Giuseppe continua a sperare nell’intervento del Signore. Non sa come e quando Dio interverrá, ma confida che il Signore non rimarrá zitto zitto e – al momento opportuno – fará sentire la sua voce. Camminiamo nell’oscuritá, e vediamo il corpo morto di Gesú, ma al tempo stesso sappiamo che questa  morte e questo buio non è la fine del cammino dell’uomo: non accettiamo questo presente come parola definitiva sulla storia umana, e continuiamo a credere che Dio ha preparato un futuro diverso per tutti noi.

 

Preparare profumi

“Era il giorno della parasceve, e giá splendevano le luci del sabato. Le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea seguivano Giuseppe; esse osservarono la tomba e come era stato deposto il corpo di Gesù; poi tornarono indietro e prepararono profumi e mirra. Il giorno di sabato riposarono secondo il comandamento” (Lc23,54-56).

“Preparare profumi” è un’altra manifestazione di preoccupazione e affetto per il Corpo. Preparare profumi per un morto è come dire che non crediamo che il morto è davvero completamente morto. Questo sentimento è molto vivo e diffuso nella religiosità degli afroecuatoriani. Come scrive Marcos Villamán, il popolo afro crede che “i morti continuano a vivere con tutto quello che sono, e una parte essenziale di quello che sono è la dimensione corporale”. Nella cultura afro non è possibile immaginare la vita senza il corpo, per cui se diciamo che i morti continuano a vivere significa che anche il loro corpo – pur trasfigurato e trasformato – continua a vivere. È per questo che, tra gli afro, quando muore un familiare e si organizza la veglia al defunto, “il cadavere è bagnato e ben vestito, di modo che possa entrare adeguatamente al nuovo luogo in cui si verrá a trovare. Il corpo del defunto dev’essere trattato con rispetto, dev’essere coperto, perché lí sta ancora presente la persona, e senza un vestito la persona potrebbe sentire vergogna”.

Un turista generalmente non si interessa di cimiteri, a meno che non abbiano una caratteristica architettonica particolare, né si interessa dei morti sepolti nella terra che sta visitando. Un turista si sente sempre di passaggio, e per questo non si sente coinvolto piú di tanto in ció che avviene al suo intorno.

Come pellegrini, invece, siamo chiamati anche noi a “osservare le tombe”, cioè a sentirci coinvolti nel dolore e nel destino dei nostri fratelli, soprattutto di coloro che sono perseguitati e uccisi dal Potere. E anche noi siamo chiamati – in questa notte di morte – a spiare e a preparare “le prime luci le sabato”. Il Signore non è ancora risorto, ma l’odore dei profumi preparati da queste donne apre giá un nuovo orizzonte, l’orizzonte del terzo giorno. “Preparare profumi”, dunque, significa vivere questo momento di buio con un atteggiamento di attesa fiduciosa; significa non arrendersi di fronte alla politica di morte dell’Impero; significa saper scoprire, in mezzo a questo sentiero oscuro, tanti segni di speranza che annunciano le prime luci del sabato. Non siamo soli: nel nostro cammino, nonostante il dolore e le difficoltà, sperimentiamo la solidarietà inaspettata di tanti Cirenei, assistiamo alla testimonianza coraggiosa di tanti Giuseppe di Arimatea che sfidano il potere politico, e restiamo ammirati di fronte alla tenerezza e alla compassione di tante donne che non si arrendono alla morte e continuano a preparare profumi. Il seme della Resurrezione è giá presente in questo cammino che stiamo percorrendo, in tutti questi atteggiamenti che ci preparano ad accogliere il Risorto.

Perciò, che nessuno dica che preparare mirra è un gesto alienante, perché l’aroma di questi profumi continua ad inebriarci a distanza di duemila anni: benedette le mani che li hanno preparati e che ci hanno schiuso una fragranza eterna di speranza!

Sembra incredibile: un profumo preparato da mano di donna ha il potere di vanificare una condanna a morte decretata dall’Impero. Se prepariamo e crediamo in questi profumi, dunque, “il primo giorno dopo il sabato” (Lc24,1) incontreremo anche noi la tomba vuota, e scopriremo che la politica di tenebra e di morte – che fino a ieri sembrava imbattibile - sará stata sopraffatta dai profumi preparati dal nostro popolo e dalla Luce del Risorto. La fragranza di questi profumi, allora, dará consolazione ai tanti vagabondi che incroceranno il nostro cammino e fará nascere una  brezza di nostalgia – nostalgia di Dio - nel cuore e nella mente di tanti turisti. E cosí, tutti insieme come pellegrini, cammineremo uniti all’incontro del Risorto, che ci invita alla Grande Festa del Terzo Giorno.

 Alberto

 

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