Le varie
sezioni:
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Kenia
Popolazione:
31.3 milioni
Superficie:
580.370
kmq
Capitale:
Nairobi
Moneta:
scellino del Kenya
Lingua:
inglese
e swahili
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La
bandiera fu adottata nel 1963 al momento del´indipendenza
dalla Gran Bretagna . Il colore nero simboleggia
L´Africa,il colore rosso il sangue dell'umanità
ed il verde la fertilità. Lo scudo masai al
centro simboleggia la difesa della libertà
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Stato
Nome ufficiale:
Jamhuri ya Kenya.
Capitale: Nairobi.
Altre città:
Mombasa; Kisumu; Nakuru; Machakos.
Governo:
Presidente
dal gennaio 2003 è Kibaki
alla guida di una colazione eterogenea denominata
Arcobaleno; organo
legislativo unicamerale: Assemblea Nazionale di 202
membri, eletti ogni 5 anni.
Festa Nazionale:
12 dicembre, Indipendenza (1963).
Forze
armate: 24.200 (1996).
Società
Popolazione:
i keniani discendono dai principali ceppi etnici africani:
bantu, nilocamitici, sudanesi e cusciti. I gruppi più
importanti, dal punto di vista numerico e culturale sono i
kikuyu e i luo; altre etnie: luhya, kamba, meru, gysii,
embu, turkana, pokot, samburu ecc. vi sono minoranze
indiane e arabe.
Religioni:
tradizionali 60%, cattolici 21%, protestanti 13%,
musulmani 6%.
Lingua:
inglese
e swahili (ufficiali). Si parla anche kikuyu e kamba.
Partiti
politici:
Unione Nazionale Africana del Kenya (KANU), fondata nel
1943 da Jomo Kenyatta. Una riforma costituzionale permise
la formazione di nuovi partiti dalla fine del 1991. Il
Forum per il Ripristino della Democrazia (FORD),
principale forza di opposizione, si divise in due gruppi
nel 1992 (FORD-Asili e FORD-Kenya). Altri: Partito
Democratico (DP), Partito Nazionale dello Sviluppo (NDP),
Congresso Sociale del Kenya (KSC), Congresso Nazionale del
Kenya (KNC).
Organizzazioni
sociali:
L’organizzazione Centrale dei Sindacati del Kenya (COTU),
fondata dal governo nel 1965, è l’unica centrale
sindacale.
Ambiente
Situato
sulla costa centro-orientale dell’Africa, il paese manca
di uniformità etnica e geografica. Da Est a Ovest si
possono distinguere quattro regioni principali: la pianura
costiera, con piogge regolari e vegetazione tropicale; una
fascia interna poco popolata con scarse precipitazioni nel
nord-nordovest; una zona montuosa collegata al margine
orientale della grande faglia del Rift, con un clima
moderato dall’altitudine e suoli vulcanici adatti all’agricoltura,
dove si concentra la maggior parte della popolazione e
delle attività economiche; infine, l’ovest è un
altopiano dal clima arido, in parte mitigato dall’influsso
lacustre del Vittoria. Fra i maggiori problemi ambientali
si distinguono: degradazione dei terreni, erosione e
desertificazione, deforestazione; inquinamento dell’acqua
potabile, principalmente intorno alle grandi città, come
Nairobi e Mombasa.
Kenya, uno dei
Paesi con il tasso
di incremento demografico fra i più alti del
mondo, registra un fabbisogno crescente di legna da ardere
e di terra da coltivare. Soltanto il 7% (1995) del
territorio è coltivabile, anche se i
sistemi agricoli degli altipiani del Kenya sono fra i più
produttivi di tutta l'Africa.
L'aumento dell'uso di pesticidi e di fertilizzanti ha
provocato un notevole inquinamento
idrico. Soltanto il 49% (1990-1996) della popolazione rurale
ha la disponibilità di acqua potabile e sicura. In alcune
zone si stanno accelerando l'erosione del terreno e la desertificazione;
la deforestazione
è un problema grave, anche se negli ultimi vent'anni, con
l'ausilio di gruppi privati e di programmi
vivaistici,
sono stati piantati circa 10 milioni di alberi. Il 30 %
circa (stima del 1993) del territorio è coperto da terreni
boscosi, ma soltanto il 3 % circa è occupato
da foreste umide naturali.
Il Kenya è forse più conosciuto per i rinomati safari,
che attirano i turisti e i cacciatori di tutto il mondo, e
costituiscono una risorsa primaria dell'economia
nazionale. Alla conservazione della fauna nelle riserve è
stata quindi data priorità assoluta. Attualmente, quasi
il 12% (1992) del territorio totale è classificato come
parchi, riserve di caccia e altre zone tutelate, anche se
soltanto il 6% (1996) è protetto in modo rigoroso. Sono in
via di estinzione almeno 32 specie
endemiche,
mentre fra gli habitat minacciati sono
le
pendici
del Mount Kenya e le foreste costiere. Sono attualmente in
corso iniziative volte al ripopolamento degli elefanti
africani e dei rinoceronti neri sempre più rari ed è
stata intrapresa una severa campagna contro i bracconieri.
Nel quadro del Programma MAB (Man and the Biosphere,
l'uomo e la biosfera) dell'UNESCO sono state
riconosciute cinque riserve della biosfera.
Il Kenya ha ratificato accordi internazionali per la
tutela dell'ambiente che hanno per oggetto la
biodiversità, il cambiamento del clima, le specie in via
d'estinzione, lo scarico di rifiuti in mare, la vita
marina, la protezione dello strato di ozono,
l'inquinamento di origine navale e le zone umide.
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Kenya
mosaico di vita
Nel
Kenya pare abbia avuto origine l’uomo.
Il
Kenya dai mille volti, dei tanti paesi dalle mille storie, dalle
infinite sfumature e universi. Dal punto di vista da cui cerchiamo
di guardarlo ne troviamo uno diverso: televisione, giornali,
viaggi, esperienze ci portano una miriade di aspetti. Si và
dall’afropessimismo alla gioia, dai bimbi che giocano tra le
baracche ai sorrisi e colori a tutti i costi.
C’è
il Kenya dei turisti, quelli che scorazzano per le suntuose
spiagge di Malindi e Mombasa, quelli che girano con grandi jeep
per i safari nel tentativo di catturare l’immagine di qualche
animale raro. Spesso si dimenticano della gente, dell’anima del
Kenya. Dei tanti gruppi che abitano questa terra a volte difficile
da vivere. La terra coltivabile infatti è meno della metà del
paese. Terra rossa, feconda per le coltivazioni. Molto di questi
appezzamenti però sono destinati alle monoculture
per esportazioni. Come il caffè che in Kenya non consuma
quasi nessuno se non i wazungu.
Il
Kenya è anche quello dei missionari, delle molte congregazioni
che affiancano la popolazione. Missionari che sono immersi in una
moltitudine di manifestazione religiose (oltre 500). Vivono tra la
gente povera, assetata di speranza. Quella che non ha nulla.
Quella a cui basta un granello di speranza e la possibilità di
arrivare a sera.
Ma
non tutti gli istituti, però, soprattutto quelli che hanno anche
missioni come hobby tendono a rimanere ‘europei’ nello stile
di vita e di costruzioni.
E’
il Kenya degli operai, dei contadini, il Kenya dei poveri, degli slums
di Nairobi,
dei
grandi appezzamenti di terreno, magari quelli del presidente Moi e
della sua famiglia. E’ il Kenya politico, strategico per le
logiche dei conflitti e delle mediazioni dell’Africa Orientale.
E’ i Kenya del commercio che appartiene con evidenza agli
stranieri: indiani arabi.. Nel Kenya ci sono I masai che sono
giunti persino a colorare le nostre pubblicità con i loro
mantelli rosso fuoco. E’ il Kenya dell’AIDS, delle percentuali
catastrofiche che gelano il sangue
E’
il Kenya delle persone, che ogni mattina si alzano per vivere, per
soffrire, gioire, per rendere grazie a Dio. Dal povero bimbo di
strada che aspira la colla, al manager della Nairobi bene. Dalla
mamma delle zone rurali che con fatica alleva i suoi figli e
coltiva la terra, ai giovani in cerca da vivere nelle città.
Persone che con grande fiducia guardano al futuro. Non solo mitici
atleti keniani super-veloci e super-tonici, o popolazioni delle
zone rurali di esclusivo interesse antropologico.
C’è
il Kenya dei ricchi che come molti poveri seguono il luccichio del
denaro ed il brillare delle luci di città. Quei ricchi che se ne
stanno barricati nelle ville controllate 24 ore su 24 dai
guardiani. Il Kenya delle differenze e dei contrasti, degli
estremi. Persone, che sono come noi, ragazzi che vanno in Chiesa e
cercano d essere felici. Il Kenya dei tanti giovani (il 75% dei
keniani ha meno di venticinque anni), che vogliono una vita
migliore, basata sulla giustizia, sull’equità e sulla pace.
Desiderano un futuro diverso, possibilità, per manifestarsi, per
fare esplodere e sentire le loro voci. Giovani che si trovano
e condividono le proprie paure e incertezze, i
propri desideri lavorando insieme per la propria gente.
Ci
sono poi i bimbi, che giocano, ridono, sprizzano gioia e fanno
felici i volontari. Ma evidente è anche la spazzatura, il
degrado, la disperazione, la solitudine.
E’
la terra delle lande deserte, della quotidianità silenziosa, dei
piccoli segni, della vita calma, delle giornate che passano in
sordina. Come in sordina passano anche i morti per le malattie più
semplici, per la criminalità, per i conflitti, per le tensioni
che scoppiano. Vi sono i segni evidenti dello sviluppo, ma quello
occidentale che è sinonimo di crescita, di incremento delle
ricchezze. Non per forza però è sinonimo di ben-essere, di vita
migliore per la gente. Molto spesso invece è sinonimo di morte,
di impossibilità di eguaglianza, di esclusione.
Il
Kenya di Nairobi. la megapoli che
scoppia per troppa gente in troppo poco spazio, dei contrasti
stridenti. Nairobi la bella, la corrotta, l’astuta, la ricca, la
tranquilla, la caotica, la piangente. Nairobi significa fonte,
dove nasce l’acqua. Dove nasceva l’acqua ora vi sono le sue
figlie che si prostituiscono, per mangiare, per dare di che vivere
ai propri figli, dove tutto sembra perduto e perso, nei rigagnoli
delle baracche, della gente ammassata su luride catapecchie e il
sopruso è la legge. Si
fa di tutto per vivere: si vende ogni cosa, si ruba, si coltiva
anche il più piccolo spazio di terra. Ma è dove c’è la puzza
di marcio, di lurido, che si alzano al cielo piccole ma forti
fiammelle di speranza. E’ nei luoghi più impensabili che la
speranza prende forma. Dove la resurrezione si vede e si
tocca, la si desidera ardentemente, dove la vita batte la morte
anche quando tutto sembra dire di no.
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Moderni
grattacieli si stagliano sugli ampi viali di Nairobi,
maggiore città del Kenya
e centro commerciale, culturale e delle comunicazioni della
nazione, nonché nota località turistica e via d'accesso per le
riserve di caccia del Kenya. Nairobi si trova immediatamente a sud
dell'Equatore,
tuttavia, data l'altitudine,
gode di una piacevole temperatura.
La maggior parte degli abitanti di Nairobi abita in grandi
caseggiati popolari. Il Governo e l'industria
sono la principale fonte di lavoro della città.
In
origine sorgente
paludosa
lungo la linea ferroviaria, Nairobi si sviluppò successivamente
come insediamento coloniale, fino a diventare la moderna e
frenetica capitale del Kenya. Conosciuta dal popolo
indigeno dei Masai come N'erobi, o "luogo
delle acque fredde", alla fine del XIX secolo la città attirò
i coloni britannici, desiderosi di coltivare i fertili altipiani
circostanti. Molti di essi giunsero a Nairobi su quella
che gli scettici britannici soprannominarono "la Ferrovia dei
Pazzi".
Man mano che questi coloni si impossessavano della terra più
produttiva della regione, cresceva il risentimento tra la
popolazione locale dei kikuyu. La loro rivolta, chiamata la
Ribellione dei Mau Mau, scoppiò nel 1952. Fu ispirata dagli
scritti di Mzee Jomo Kenyatta, che auspicava l'avvento di una
riforma territoriale e che, in qualità di padre del nuovo Kenya,
divenne il primo presidente della nazione.
Quando conquistò l'indipendenza dalla
Gran
Bretagna nel 1963 Nairobi era una città di frontiera.
Attualmente è una delle più importanti città dell'Africa,
e vanta ampi viali su cui si affacciano grattacieli, molti spazi
aperti e un affollato aeroporto internazionale; ospita inoltre la
sede del Programma ambientale delle Nazioni
Unite.
Il turismo è una fonte sempre più importante di valuta estera
per il Kenya e Nairobi è anche un famoso punto di partenza per i
safari. La riserva di caccia del Nairobi
National Park, fondata nel 1948, è situata 24 km circa
a sud della città.
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«Korogocho è pane, acqua e medicine, ma anche armi, droga e stupri. È il limite
dei buonisti, della ricerca di soluzioni programmate e
dall’alto, ma è duro sforzo quotidiano per la vita. Korogocho
è festa, sorrisi e strette di mano, cori di “Aia iu” (How are you? – Come stai?) e corse per cadere tra braccia amiche
che è bello anche solo avvicinare. Korogocho
è quella “malattia là” (AIDS) è come un ospedale
all’aperto, ma non è un ospedale perché non ci sono medici,
infermieri e corsie. Korogocho è il limite degli scrittori e dell’immaginazione perché
non si può descrivere, ma solo vivere. Non ci sono categorie
sociologiche efficaci, ma solo e sempre parziali, mancano i
vocaboli, “nord” e “sud” non significano niente perché la
ricchezza la trovi esattamente dall’altra parte della strada.
Korogocho
è terra dalle vene aperte, mani e piedi spaccati dalla fatica. È
un campo di raccolta per alcolisti “votati alla morte”,
randagi della strada e antropologicamente impoveriti, tribolati,
ma non schiacciati. Korogocho
è il limite della “speranza razionale” quella centrata sul
fare che cerca un appiglio che non c’è perché Korogocho
è spinta verso una speranza che può essere solo totale e che
esige abbandono».
Testo
di Fabrizio Floris (sociologo, economista)
tratto
da AA.VV., Città o baraccopoli?Gli insediamenti informali in
Africa: il caso di Nairobi, L’Harmattan Italia, Torino 1998
[Questo libro parla
dell’urbanizzazione in Africa, di baracche e grattacieli, di
donne e missione. Nella prima parte si analizzano gli aspetti
sociali e culturali della “rivoluzione urbana” dalla
prospettiva della città di Nairobi. Nella seconda si affrontano
le conseguenze della crescita della città con uno studio
economico-sociale e di genere della baraccopoli di Korogocho]
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Piccoli
segni di speranza: Workshop a Dol Dol
“Ontomonon, Naboisho” significa “Solidarietà
per il bene comune” ed è il motto nato da un workshop, la prima
forte esperienza per le donne Masai di Dol Dol. Invitate a una
seria e profonda riflessione su se stesse, la propria società e i
vari problemi che incontrano nello stare insieme come gruppo nei
progetti di sviluppo, hanno risposto alla sfida insieme alle missionarie del posto che con loro condividono la propria vita.
Prima di tutto un’analisi in ambito sociale: mancanza di acqua
per la propria famiglia e per gli animali, la terra venduta poco
alla volta a ricchi affaristi, come pagare le rate della scuola,
la mancanza di buoni leaders che le rappresentino in politica per
difendere i loro diritti... sono esempi di ciò che si è
discusso.
Con l’approfondimento del tema è emersa la difficoltà e la
paura di dare un nome ad altri problemi. Poi una donna rompe il
muro di silenzio: è una che non conta con l’aiuto del marito né
per cercare l’acqua, né per il cibo per i bambini, né per le
medicine.
Tra i Masai è la donna che si fa carico della famiglia, ma
paradossalmente è considerata dall’uomo: incapace di pensare,
di decidere e di assumere responsabilità. Cresciuta in una
cultura che sottolinea la sua inferiorità fin dalla nascita, se
le viene proposto di prendere una decisione si mostra paralizzata
e incapace e attende che sia l’uomo ad agire per lei. Per chi si
oppone a questa cultura corre il rischio di essere disapprovata
dalle stesse donne e punita dal marito.
Un applauso di liberazione conclude la discussione e il dibattito,
ma rimangono problemi e sogni comuni.
“Solidarietà per il bene comune” è il motto. Insieme per
sentirsi forti e unite anche nella fede, per vedere la realtà con
gli occhi di Dio e vivere la propria storia senza più subirla.
Tutte ad un’unica scuola: donne masai e missionarie condividono
la loro vita tra sentimenti contrastanti e gioie semplici. Senza
mai abituarsi al dolore, vivono e soffrono insieme.
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APPUNTI DAL KENYA –
12.07.01/08.08.01
In
ordine logico dovrei iniziare col parlare dei PREPARATIVI… I
miei sono stati un po’ rocamboleschi! Per motivi di salute, fino
all’ultimo la mia partenza è stata molto incerta, così poi ho
dovuto recuperare tutto in fretta, e per fare le vaccinazioni
questa non è una bella strategia!
Iniziamo
dalle vaccinazioni: mi sono appoggiata alla clinica delle malattie
tropicali del Civile. Ho trovato una buona organizzazione, ma
un’eccessiva precauzione : mi sono affidata alle loro linee
guida, ma per quanto riguarda la profilassi malarica , ho dato
retta ai missionari, che ci hanno consigliato un farmaco meno
pesante, per fortuna! Per il resto : vaccino anti febbre gialla,
anti epatite A, anti febbre tifoidea. Non ho fatto l’antimeningo-coccica,consigliata
dall’ospedale, perché al momento non sono segnalati focolai di
questa brutta malattia.
Già
questo primo approccio con l’aspetto sanitario del mio viaggio,
mi aveva dato da riflettere. Il mondo in quei giorni si
divideva per me in tre categorie: c’era chi guardava alla
mia prossima dipartita come a un viaggio estremamente pericoloso e
pernicioso; c’era chi ne era entusiasta, ne voleva sapere più
dei missionari, e si sprecava in racconti di lontani “safari”
esotici; c’era chi non capiva e mi guardava con un po’ di
diffidenza… e rimaneva in un silenzio quasi più fastidioso dei
mille consigli che mi piovevano sulla testa!
I
mesi precedenti alla partenza erano anche scanditi da incontri di
preparazione, tenuti dai Missionari
Comboniani, incontri che avevano il
duplice scopo di costruire un buon gruppo e di accostare
quest’ultimo al mondo in cui tra poco sarebbe approdato. Eravamo
sette ragazzi
(tra cui, tre ex-arnaldine!!!), provenienti dal
nord Italia tra i 29 e i 22 anni. Gli incontri ci hanno preparato
un po’ alla storia del Continente
Africano, della Chiesa in
Africa, del Kenya, delle missioni presenti nel territorio Kenyota…
Abbiamo anche rinfrescato il nostro inglese e tentato di imparare
un po’ di Ki-swahili, lingua davvero interessante.
Ci
sarebbero tante altre cose da dire, ma la mia mente già pensa al
viaggio. Very comfortable! Abbiamo prenotato con anticipo sulla
United Emirates Company che ci ha trattato davvero con i guanti.
Il volo partiva da Milano, ha fatto scalo a Doubay, dove abbiamo
trascorso la notte in aeroporto, quindi siamo atterrati a Nairobi.
Senza la sosta, mi pare un totale di 15 ore. Nell’ultima
mezz’ora di volo, i miei occhi hanno avvistato il suolo
africano, secco, vorrei dire brullo. Che strano vedere un
aereoporto nel mezzo di un paesaggio da safari . E poi, durante
l’atterraggio, che effetto vedere in lontananza alcuni animali
brucare gli arbusti e muoversi in quell’accenno di savana. E
poi, scesi dall’aereo, lo squallore dell’aereoporto di
Nairobi: dopo quello fastoso di Doubay, questo buio, maleodorante,
triste, faceva un certo effetto. E poi la fila presso uno
sportello per pagare una prima tassa ( quando sei un turista
bianco, le tasse si moltiplicano in Africa!). E poi aspettare una
land-rover che i
missionari usano per muoversi nei posti più impervi di tutto quel
territorio. E’ stata un’impresa stipare i nostri corpi e le
nostre valigione dentro quella jeep!
La
casa in cui ci hanno ospitato non era da missionari
comboniani, tuttavia si trovava in una zona abbastanza
tranquilla ed era adatta alla funzione di promotion centre: era
una stupenda casa in stile coloniale, con dependance in zona
residenziale senza troppe pretese ( mi riferisco alle residenze di
ambasciatori e loro corte a seguire, provare per credere: un lusso
davvero impressionante, soprattutto se a confronto, stridentissimo,
con tanta miseria). La cosa che subito mi ha impressionato, oltre
la guida a sx ( retaggio inglese),
è la violenza che serpeggia in questa grande città: le
case “decenti” ( in pratica tutte le case che non fossero
baracche), erano meticolosamente recintate e avevano un custode e
appena calava la sera la gente che ritornava stanca a piedi da
lontani lavori aveva appena il tempo di chiudersi nelle proprie
abitazioni, perché poi la strada diventava violenta, pericolosa,
criminale.
Che
bello invece l’impatto con i missionari
comboniani. Ci hanno accolto premurosi, curiosi di
conoscerci, attenti alle nostre esigenze. Prevenivano i nostri
bisogni, ci aiutavano a destreggiarci con questa terra e le se sue
usanze. Cercavano di illustrarci i loro “trucchi”, ci
raccontavano le loro storie, ci davano consigli maturati da tanti
anni di esperienza, ma sempre con la premura di compagni di
viaggio che non si sono mai dimenticati della loro prima volta,
del loro primo impatto, della loro prima “fragilità”, perché
è fragile come un bambino l’uomo che non conosce le usanze, i
tabù, le norme della terra in cui si trova a vivere. Gli
“advices” erano di varia natura: “Controllate le ciabatte
prima di metterci dentro i piedi la mattina”; “Non bevete l’acqua
dai rubinetti , prendetela dal purificatore in cucina”; “Per
fare la doccia, ditemelo che accendo il boiler… Una volta che
l’hanno fatta due persone, bisogna aspettare che si
ricarichi”; “Anche se non sudate, bevete sempre. E mangiate,
mangiate! E’ l’unico modo per tenersi informa…Qui non
bisogna farsi cogliere dalla debolezza, vera causa di tutte le
malattie!”Eccetera eccetera… Anche l’approccio col cibo è
stato piuttosto divertente! Dico divertente perché la colazione
è all’inglese, per cui al mattino era un tripudio di pane
tostato con marmellata, con caffèlatte, thè. Il fratello
comboniano che ci ospitava era tedesco, quindi approntava sempre
uova, carne, fagioli… Il padre comboniano prediligeva invece
porridge… Per quanto riguarda invece gli altri pasti , abbiamo
assaggiato piatti locali: il riso è la base di ogni pasto. Riso e
verdure, riso e carne di vacca stufata; ugali e sukumawiki (
polenta bianca ed erbette), fagioli e mais, tantissime patate… E
poi tanta frutta freschissima: papaya (dalle potenti virtù
lassative), banane gustosissime, mango, arance, kiwi… L’unica
cosa che scarseggiava era l’acqua: meglio bere thè bollito,
oppure sempre e solo bibite, dal momento che il pericolo infezioni
si annidava sempre nell’acqua.
E
poi le notti. Le notti freddissime ( Nairobi
è a 700m sul livello mare, era appena finita la stagione delle
piogge, e l’aria era umida) con pesanti coperte. Le notti
illuminate da una luna stupenda, chiara, sempre vigile! Le notti
per il resto prive di luci eppure vive di voci in lontananza. Non
una persona per strada, eppure rumore di baraccopoli in distanza,
di persone ammassate in slums, che si stanno per coricare dopo una
giornata di lavoro se va bene, di miseria sempre.
E
i risvegli mattutini. Sempre molto fresco. Per fortuna le
zanzare non ci hanno quasi mai importunato. E mentre noi ci
svegliavamo , migliaia di persone già percorrevano a piedi le
strade della città per recarsi al lavoro, a prendere acqua, a
scuola: una fiumana di gente che doveva affrontare per due volte
al giorno anche due, tre ore di cammino. Passavano anche matatu,
camioncini da sette posti che trasportavano fino a venti-
venticinque persone, che regolarmente facevano incidenti, che a
momenti perdevano le sospensioni per strada, ma che erano la manna
di tanti poveri lavoratori.
Mi
hanno impressionato tantissimo i bambini che andavano a scuola.
Tutti con le loro uniformi colorate, sdrucite, praticamente senza
cartelle, merende, senza nessun adulto che li accompagnasse per un
cammino a volte davvero pericoloso. Eppure così felici e fieri di
potere andare a scuola. Classi
anche di 40 / 60 bambini che non fiatavano, ma che
imparavano attenti e contenti a leggere, a scrivere, a fare di
conto. E’ fortissima la coscienza che l’istruzione è la più
recente arma contro la povertà, contro un futuro già scritto che
per molti moltissimi è già una condanna. Mi sono vergognata
tantissimo di fronte a quegli scolaretti in erba: nonostante tanti
anni di studio, nonostante abbia conseguito la maturità classica
presso il buon vecchio “Arnaldo”, credo di non avere mai
avvertito il valore dell’istruzione forte come quei piccolini,
così orgogliosi di sapere scrivere e parlare inglese.
Mi
hanno impressionato i bambini in generale. A scuola e non.
Anzitutto la loro “mansuetudine”: non ho mai assistito
a nessun capriccio, forse perché spossati dalla fame, dalle
malattie, dalla stanchezza; la loro solidarietà: fratellini che
portano in spalle i loro fratelli minori ( a 4/5 anni!), che li
curano, che si prendono per mano, che si aspettano, che si curano
gli uni degli altri. Bambini che ridono con poco. Che vivono
praticamente di aria, che non si lamentano della “sbobba” che
mangiano a scuola, se se la possono permettere ( una pappetta col
miglio), che corrono a piedi nudi. Bambini che nonostante
siano bambini non ti attirano: sporchi, spesso con strani
bozzi in testa, con una specie di nodi di legno sulla pelle , con
la scabbia, col muco verde, con una tosse da fare paura, spesso
senza qualche dentino. Bambini che corrono incontro al turista
bianco, un po’ divertiti, un po’ impauriti, un po’
incuriositi e che ti cantano in coro : “Wasungu (=bianchi), how are you?” Bambini che vorresti abbracciare,
che ti mettono in crisi perché riescono ad essere bambini anche
in quest’immondezzaio che non si meritano, bambini che forse
l’anno prossimo non ci saranno più: malaria, aids, diarrea
molto forte, oppure un periodo di debolezza, come è impossibile
che non si presenti, date le condizioni di vita…
E
poi le donne. Ogni giorno che passa ringrazio di essere nata donna
nel mondo occidentale dell’ultimo novecento. Quando tanti dicono
che se l’Africa va avanti è grazie alle sue donne, è proprio
vero: sono loro che procurano di che vivere alla propria famiglia,
sono loro che si curano dei figli, quando il marito dopo due o tre
anni se ne va ( senza bisogni di alcuna giustificazione), che si
curano degli anziani, che vanno a lavorare… Sono loro che
partoriscono quattro, cinque, sei, sette figli, che patiscono di
generazione in generazione l’escissione e l’infibulazione, che
contraggono l’aids dai loro uomini, che a 17 anni hanno già due
bambini… Io non vedo facili vie d’uscita… Eppure, anche
davanti ad uno scenario del genere, così crudo e, ai miei occhi
di signorina occidentale, senza senso e dignità, rimango
incantata dall’insegnamento di queste donne : il valore della
vita, che rimane tale in ogni condizione. Voglio dire, da noi la
nascita di un bambino è spesso soppesata, problematizzata,
cercata o rifiutata… Quasi sempre mi sembra essere frutto di una
razionalizzazione. In Africa, invece, è frutto delle viscere.
E’ vita. Senza alcun aggettivo in aggiunta. E’ e basta. Non mi
sto pronunciando a favore di un atteggiamento o dell’altro. Sto
solo dicendo che mi ha fatto un gran bene vivere con persone che
accolgono la vita. Senza condizioni. Forse perché non sono
padrone di dettarne alcuna?
Non
sto nemmeno celebrando la vita di un fantomatico paradiso
terrestre: alcol, prostituzione, droghe girano anche qui, come
palliativo di una vita di miseria… e gli uomini diventano sempre
più simili alle bestie…
E
poi le baraccopoli, che crescono a ridosso delle discariche, da
cui possono essere estratti migliaia di rifiuti “riciclabili”:
cibo, materiale combustibile, lamiere con cui costruire i tetti
delle baracche, qualche copertone con cui fabbricare delle
ciabatte… Una manciata di terra in cui vivono decine di migliaia
di persone in condizioni igieniche e morali estremamente
precarie… Le parole di P.Zanotelli
descrivono molto bene quella
realtà… Io faccio ancora fatica a parlarne : mi fa ancora male
cercare parole per descrivere situazioni per cui di fatto parole
ancora non ci sono… La cosa che mi fa andare avanti è la
presenza silenziosa eppure prepotente, forte e costante di Cristo
in mezzo a questi poveri … E’ qualcosa di sconvolgente e di
consolante allo stesso tempo… Per tutto questo rimando ai libri
di Padre
Alex : dopo tante sofferenze, lui ha trovato le parole.
Ma
non c’è stata solo la città. C’è stata anche la zona rurale
verso il nord-est: sempre più fredda! Spostandoci verso
l’Uganda abbiamo incontrato anche i primi blocchi militari, che
ci lasciavano passare senza aspettare il convoglio perché eravamo
coi missionari . Non abbiamo potuto passare per il deserto dei
Turkana proprio a causa dei guerriglieri che come cani sciolti
infestano il nord del kenya , rendendo impossibile viaggiare.
Nella
zona rurale le condizioni di vita delle persone migliorano: ognuno
ha di che sfamarsi, l’acqua è disponibile in maggiore quantità,
quindi anche le condizioni igieniche sono lievemente più serene e
la vita più decorosa. Tuttavia le condizioni sociali, soprattutto
la condizione femminile, sono più arretrate. Inoltre il telefono
e l’elettricità mancano, se ci sono delle emergenze mediche (
penso solo ai parti, così frequenti e spesso così a rischio),
l’ospedale è lontanissimo. E poi ci sono sempre gli anni di
carestia,imprevedibili e dannosissimi.
Dal
punto di vista paesaggistico, mi si allargava il cuore quando
vedevo quel bellissimo paesaggio collinare verdissimo ( da foresta
amazzonica!), rigoglioso, solcato dalla strada rossa argillosa,
che si stendeva sino all’orizzonte… E l’aria pura. E il sole
che, essendo all’equatore, quando non c’erano nuvole, batteva
fortissimo : bastava un quarto d’ora per scottarsi!
Mi
rendo conto di non avere parlato di una costante dei nostri
viaggi: la strada!!! La strada sì, che ci ha fatto rimpiangere le
più sgangherate strade di Brescia. Quelle asfaltate erano spesso
disseminate di “bumps”, ovverosia di dossi non segnalati, che
ci hanno regalato salti divertentissimi ( un po’ meno per le
nostre vertebre ); quelle sterrate danno un effetto
idromassaggio/frullato da leggera nausea, a volte riserbano
sorprese quali rampicate per cui si fatica a procedere persino con
le marce ridotte, oppure, con le piogge, si trasformano in scivoli
pericolosissimi ( scivolare in un impasto di fango con la jeep
messa di costa è davvero un’esperienza angosciante) ; quando
poi ti vedi sbucare all’improvviso delle mucche
o delle capre ostinate che non ne vogliono sapere di
spostarsi dalla strada è davvero un bello spettacolo!
So
anche che dovrei almeno accennare a che cosa significare avere la
pelle bianca nel continente nero, che cosa ha comportato
relazionarsi a persone dalla vita tanto diversa
dalla nostra, come abbiamo intrecciato discorsi, se ci
siamo riusciti… Iniziamo dall’ovvio: abbiamo parlato in
inglese, anche se nei paesini rurali, la gente parlava quasi
esclusivamente il suo dialetto, nemmeno ki-swahili… Sono sempre
stati molto accoglienti: ovunque ci invitavano ad entrare nelle
loro umili casupole e ci offrivano immancabilmente del chai ( thè
col latte), ci facevano partecipi del loro quotidiano ( la storia
della loro famiglia, la loro attuale condizione, i loro problemi),
spesso ci lasciavano piccoli ricordini, ancora più spesso
volevano il nostro indirizzo e ci pregavano di mandare copia delle
fotografie scattate… In tutte le scuole, i centri di sviluppo,
gli ospedali, venivamo messi doverosamente al corrente di tutti i
progetti, venivamo fatti partecipi del cammino percorso… E’
gente che crede moltissimo al lavoro di promozione,
all’attivismo politico ( almeno quella istruita): è qualcosa di
veramente commovente. Per certi aspetti, sembrava di tornare
indietro nel tempo, alla nostra povera Italia del secondo
dopoguerra, quando la gente rivendicava i diritti inalienabili
dell’uomo e della vita democratica, quando fare politica ad ogni
gradino della società era un dovere e un diritto essenziale,
sentito da tutti. Quanto scontato e cinico mi è parso il nostro,
il mio modo di vivere la politica, nel suo senso più ampio...
Infine,
devo confessare che essere stranieri non è sempre cosa semplice:
può mettere alla prova i tuoi nervi sentirti gli occhi addosso
perché hai la pelle del colore “sbagliato”,
perché sei bianco e quindi sei sicuramente ricco e quindi
i bambini e i venditori ti corrono dietro per strapparti qualche
soldo. Ovunque di
sera , se sei bianco, è meglio che non ti fai proprio vedere,
perché sei bersaglio facile. E poi voi wasungo, che siete venuti
a fare qui? Ad osservarci come animali nello zoo? Ma che volete
capire voi, che vivete nel paese di cuccagna? Che esseri strani
siete che a 20 anni non siete ancora sposati e, soprattutto, non
avete ancora figli ( quando lo venivano a sapere, scoppiavano
risate fragorose)…
Ci
sarebbero tante altre storie ed emozioni da raccontarvi… Mi
sento di concludere questa primo breve “resoconto” con il
sentimento più forte che mi sono portata via dal Kenya (insieme
all’argilla rossa che non viene più via dai pantaloni, e ad una
certa confusione che non lascia la mia testa o il mio cuore) : una
bella e sana sferzata di vita. Se tutto un popolo di donne uomini
e bambini continua ad andare avanti tra sforzi enormi, se un
intero popolo lavora giorno dopo giorno con un solo pasto nello
stomaco spaccandosi la schiena, se nonostante tutti gli stenti e
le miserie tanti bambini continuano a sorridere, allora anch’io
ho il dovere di andare avanti, di non arrendermi di non disperare.
Mi da una forza enorme sentirmi in comunione con i nostri fratelli
del Kenya: sentire la loro forza, il loro coraggio ( perché ci
vuole tanto coraggio, e non incoscienza, ad andare avanti senza
essere padroni non dico del proprio futuro, ma nemmeno del proprio
presente),il loro silenzioso eppure caparbio amore per la vita mi
è di perenne monito a non lasciarmi mai andare, a superare tutte
le difficoltà, ad impegnarmi, in tutto quello che posso, per un
mondo più giusto.
Infine,
mi scuso per la povertà del mio scritto: sto approfittando di una
pausa-influenza, e la fretta e la febbre stanno obnubilando
persino la grammatica di questi appunti! Così, attendo eventuali
commenti e domande, quale occasione per approfondire un discorso
toccato a volo d’uccello!
Non
posso concludere, però, senza ringraziarla per l’opportunità
che mi ha dato: è passato poco più di un anno da questo strano
viaggio, che ho raccontato a tante persone… Eppure prima d’ora
non mi ero mai fermata a mettere per iscritto quest’esperienza
che spesso faccio fatica a ricomporre con tutto il resto della mia
vita!
Questo
è solo un inizio, ma è già molto importante! Grazie di cuore!
Con
affetto e gratitudine,
Annalisa
Annalisa una giovane
come tante che ha deciso di immergersi con entusiasmo
nell'impegno affianco degli ultimi. E tu??? Dai
un'occhiata alle nostre proposte...
GIM
e CAMPI
ESTIVI
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LE
ULTIME ELEZIONI VINTE DA KIBAKI
PRESIDENZIALI: AL VIA
CAMPAGNA ELETTORALE, PARTITO DI GOVERNO E
OPPOSIZIONE
UFFICIALIZZANO
CANDIDATI
Ha ufficialmente preso il via oggi in Kenya la campagna elettorale
in vista delle presidenziali del prossimo 27 dicembre. Con la
presentazione delle candidature, da parte del partito di governo
Kanu (Kenyan African National Union) e della Coalizione nazionale
dell’Arcobaleno (National Rainbow coalition, Nca), la nuova
formazione che raccoglie ben 13 schieramenti
dell'opposizione, si è aperta la corsa alla più
alta carica dello Stato. I favoriti sono, Uhuru Kenyatta (figlio
del padre fondatore della patria e primo presidente Yomo Kenyatta)
per il Kanu e Mwai Kibaki (ex vicepresidente di Moi) per la Nca.
Entrambi hanno organizzato oggi due grandi ed affollate
manifestazioni che si sono svolte in diverse zone della capitale
keniana, Nairobi. Di fatto la campagna elettorale nel Paese
africano era iniziata già nelle scorse settimane, con la nascita
della grande coalizione d'opposizione, a cui hanno aderito
numerosi fuoriusciti del Kanu. Il presidente Danie arap Moi, in
carica dal 1978, non può concorrere per un ennesimo mandato ed è
stato accusato da molti suoi ex compagni di partito di aver
imposto la candidatura di Kenyatta. Una scelta che ha causato una
profondissima spaccatura interna al Kanu, dando vita ad un
cartello che, per la prima volta, potrebbe avere i numeri per
scalzare il Kanu, alla guida del Paese dal 1963, anno
dell’indipendenza.
Kenya:
"Non sparate all'arcobaleno"
di
Fabio Pipinato
09/01/2003
Dal
Kenya, Fabio Pipinato, già direttore di Unimondo, commenta le
recenti elezioni nel Paese che oggi sembra vivere un momento di
grande speranza
KENYA - Nuovo
anno, nuovo governo, nuove speranze. La campagna elettorale
iniziata un anno fa, non senza disordini, ha visto contrapposto il
“figlio di papà” Kenyatta, delfino di Moi, contro Kibaki,
politico di lunga esperienza e leader dell'opposizione. Kibaki ha
stravinto, nonostante la campagna KANU possedesse risorse
pubbliche e capacità d'acquisto voto di gran lunga superiori ai
mezzi della coalizione Arcobaleno. Il 27 dicembre alcun
osservatore ha avuto nulla da ridire: le elezioni si sono svolte
in modo ineccepibile a differenza delle trascorse edizioni del '92
o '97 ove ha regnato prima il broglio e poi la pulizia etnica.
A molti va il
merito di questa vittoria, inattesa nelle proporzioni.
Innanzitutto all'educazione civica, acerrima nemica di Moi, che
l'ha ostacolata in tutti modi. “Le organizzazioni non
governative ONG si devono occupare di tutto tranne che di politica”,
sentenziò all'inizio della campagna elettorale. S'infuriò quando
vide arrivare dalle Indie i “formatori alla nonviolenza”
perché sa benissimo che le dittature, come la sua, possono cadere
con la nonviolenza. E così, infatti, è stato. La campagna
elettorale sia iniziata con duri scontri etnici dentro le
baraccopoli di Nairobi ove hanno perso la vita decine di persone.
Ma la gente ha risposto civilmente, senza aumentare la tensione.
Gli aggressori provenivano da altrove, trasportati dalla polizia,
andata e ritorno.
Poi il merito
va alle diverse Chiese. Radicate nel territorio, come nessun'altra
Istituzione, hanno raggiunto il più sperduto pastore Samburu. Il
presente è un periodo particolarmente felice per esse in quanto
sono guidate da Pastori illuminati: ciò vale sia per la Chiesa
Cattolica che per quella Protestante. Hanno promosso, con vero
spirito ecumenico, campagne di educazione alla nonviolenza
pre-elettorale in rete con la società civile. Il Nunzio
Apostolico e il Presidente della Conferenza Episcopale hanno detto
basta ad ogni violazione dei diritti umani, ammonendo, con un
coraggio che è proprio dei Padri della nonviolenza, l'ex governo
per i scontri etnici trascorsi. Gli stessi hanno inoltre chiesto
verità per i molti martiri della giustizia tra i quali Father
Kaiser, assassinato e non suicidato come vorrebbe il rapporto
della FBI in un inciucio scandaloso con l'ex governo. Insomma,
nonostante le minacce e le ritorsioni, i Vescovi hanno indicato la
strada del voto democratico, della non corruzione e della non
violenza.
Qualche
funzionario onesto. Come coloro che hanno compilato il rapporto
Akiwumi per le stragi compiute dal '91 al '98, tutte targate
politicamente. Anche a loro va il merito della vittoria. Sono
mosche bianche in mezzo al sudiciume di una mala - amministrazione
corrotta ed inefficiente fino all'osso. Questi pochi hanno reso
pubblici nomi eccellenti, tra i quali Ministri, come mandanti
delle diverse pulizie etniche e lo hanno fatto a metà campagna
elettorale in modo da condannare il vecchio e prevenire nuovo
disordine. Ciò ha sfiduciato in pieno, prima dalla gente e poi
dal parlamento, il governo di Moi.
I media. Un
disegno di legge, contro il quale è insorta la Comunità
Internazionale, li voleva spazzar via tutti, tranne i media di
Stato, naturalmente, fedeli al regime. Ma così non è stato.
Buone radio e giornali indipendenti hanno fatto il loro dovere,
fino in fondo, raccontando semplicemente la verità come vuole il
giornalismo di matrice inglese.
La gente
tutta. Arcistufa di un sistema che opprime, che taglieggia, ha
affrontato con la fantasia il potere. Alla vigilia di Natale, per
esempio, in moltissimi hanno celebrato ammazzando un galletto,
simbolo del KANU. Ed è stato lì, impiccato all'albero fuori
della capanna, fino al giorno dopo sfidando la polizia ad asserire
che fosse un'offesa al governo in carica. A Natale non si può
mangiare un galletto?
Mentre nelle
strade padroneggiava, come nelle tipiche campagne occidentali, il
faccione del candidato Hururu con cartelloni enormi che
ricoprivano il paese e che facevano ricordare a noi italiani altre
campagne, il tam tam africano del passaparola, del volantino
presente in tutti i chioschi tra cipolle ed arance, della
fotocopia appiccicata sugli alberi da un lato ed il volere dei
vecchi che si stendeva fino alle chiacchiere di mercato dall'altro
non lasciava dubbi: stavolta si cambia.
Ora il Paese
esulta: sta per iniziare una nuova era. Ciò che è incredibile è
che sembra si stia facendo sul serio. Un esempio: Kibaki ha
promesso scuola gratuita a tutti e ciò sta accadendo ridando
speranza a milioni di ragazzi fuoriusciti dalle classi perché i
genitori non sono stati in grado di pagare la retta. E lo fa
nonostante le casse dello Stato siano state letteralmente svuotate
dal suo precedente in un arricchimento così cospicuo che ha
precedenti solo con Mobutu.
Tolleranza
zero per la corruzione: il Presidente sembra determinato su questo
e la gente è con lui e s'arrabbia di fronte alla polizia che
continua con arresti arbitrari ed a chiedere il pizzo ad ogni
autista di mezzo privato o pubblico. In molti tribunali, ove la
giustizia è letteralmente in vendita al miglior offerente come
all'asta, s'alza la voce della protesta degli oppressi nonostante
la tortura diffusamente praticata e la violazione dei diritti
fondamentali. Dalle piazze s'alza il grido Rainbow – Rainbow.
Ma la
piramide della corruzione, dalla quale si nutre dal poliziotto
fino al Direttore ministeriale, rimane intatta; non ancora
scalfita dal volere popolare. E non basterà un solo anno per
buttar giù un tale colosso e nemmeno il lustro che presiederà
Kibaki. Purtroppo. Servirà almeno una generazione, che è pari al
periodo con cui il vizio si è alimentato, per ridurre
semplicemente il danno. Ma il vizio, e la tentazione sottostante,
rimarranno e non sarà facile per il nuovo governo rinunciare a
questo introito, nonostante i proclami. Ne sappiamo qualcosa noi
del Bel Paese ove la corruzione e la concussione hanno afflitto la
nostra democrazia e che, nonostante Tangentopoli, ha dato carta
bianca come Primo Cittadino un pluri-condannato e confinato i
giudici di Mani Pulite. Il nostro Paese è costretto a “convivere”,
come ha affermato recentemente un Ministro della Repubblica
Italiana, anziché tentar di sradicare la mafia. Non potrebbe
essere altrimenti visto che l'attuale maggioranza è tale grazie
ai voti siciliani.
Se accade
ciò nei Paesi a democrazia matura, figuriamoci nelle democrazie
in transizione come la Nigeria o il Kenya, per non parlare di
coloro che da quarant'anni non vedono il seggio elettorale come la
Repubblica Democratica del Congo. C'è un gap colossale tra le due
democrazie. Durante tangentopoli si scoprirono buchi del 5% sui
lavori pubblici che andavano ad alimentare le casse di partito o
dei singoli burocrati; quaggiù si stanno scoprendo voragini
dell'80% su tutti i lavori pubblici.
Sarà quindi
difficile demolire questo arricchimento facile anche perché c'è
chi vive e si alimenta quotidianamente solo di esso come i sicari,
per esempio, che gestiscono il fiorente traffico dei matatu. Dopo
le elezioni hanno sgozzato, a Nakuru, trenta cittadini rei di aver
votato per la speranza e di essersi opposti al sistema delle
tangenti.
Non resta che
continuare, anziché cessare come è ormai stile delle ONG che
sopravvivono più di fondi che di idee, la campagna che ha portato
alla vittoria di fine anno rafforzando il network sovradescritto,
unico modo per esistere e resistere.
La notte tra
il 26 ed il 27 dicembre ha piovuto ed il mattino seguente, in
cielo, era visibile l'arcobaleno. "Anche Dio vota con
noi" dicevano in molti. Non si può sparare all'arcobaleno e
non si può comprarlo. E' come la speranza e la voglia di lottare
per un mondo nuovo.
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www.nigrizia.it:
la rivista dell'Africa dei missionari comboniani.
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www.kenyanews.com:
il
sito kenyano sui diritti umani, politica e media
dell’Africa
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Ecco
una bibliografia che può rendere la molteplicità di immagini e di
aspetti caratteristici del Kenya.
Ngugi
wa Thiong’o, Spostare
il centro del mondo, Meltemi,
Roma 2000
Saggistica:
L’Occidente si considera il centro del mondo; controlla il
potere culturale, così come controlla quello politico ed
economico. Spostare quel centro è indispensabile per liberare le
culture del mondo dai recinti del nazionalismo, della classe, del
sesso, della razza.
Margaret
A. Ogola, Il
fiume e la sorgente,
San Paolo, Milano 1997
Romanzo:
narrazione dell’avvincente sgranarsi di quattro generazioni di
donne appartenenti a una stessa famiglia keniana. Margaret
riepiloga il cammino di civiltà che il Kenya ha percorso
nell’arco di un secolo, dai tempi della vita tribale sugli
altipiani e della colonizzazione britannica fino
all’indipendenza nazionale e al radicamento nella nuova realtà
della metropoli moderna.
Achille
Da Ros, Noi,
i Turkana,
EMI, Bologna 1995
Missione/Saggio:
Contributo etnologico di un missionario che da anni svolge il suo
lavoro nel Kenya settentrionale fra la popolazione nomade turkana.
Giovanni
Mastrangelo, African
Soap,
Marsilio, Venezia 2001
Romanzo:
Storia di un africano bianco, che da artista vive le
contraddizioni di una città come Nairobi. E’ un romanzo che da
spazio alle tante voci dell’Africa che si sta trasformando, e
mette in risalto problemi sociali e politici di tale vastità da
apparire ormai irrisolvibili. Una visione del Kenya fuori dagli
schemi.
Corinne
Hofmann, La
masai bianca.
Storia vera di una passione africana,
BUR, Milano 2001
Romanzo: Storia d’amore
e incontro tra due culture che è difficile immaginare più
diverse, tra due modi lontani di vedere il mondo, la vita
quotidiana, il rapporto tra uomo e donna.
Giuseppe
Maggioni, Starò
sempre con voi. Tra i Tharaka del Kenya,
EMI, Bologna 2000
Missione: Memorie di una gioiosa e
fedele testimonianza di impegno e fervore missionario. Quando
l’amore e la volontà di dedicarsi agli altri sono più forti
delle difficoltà incontrate nel dar vita alla nuova missione.
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