LA CONFERENZA DI APARECIDA ALLA RICERCA DI SPIRITO

di Jon Sobrino


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La Chiesa Latinoamericana è in cammino verso la V Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano e del Caribe, fissata per i giorni tra il 13 e il 31 maggio 2007 nel Santuario di Nossa Senhora Aparecida (Brasile) sul tema "Discepoli e missionari di Gesù Cristo perché i nostri popoli in Lui abbiano la vita"; l’evento riunirà più di 300 Vescovi e invitati per la grande riflessione ecclesiale sull’America Latina.

Nel seguente articolo, tratto da Adista, il teologo Jon Sobrino percorre il cammino della Chiesa Sudamericana e traccia un percorso di riflessione in vista di questo importante evento.


Caro Ellacu,

presto si riuniranno i vescovi ad Aparecida, e Dio sa cosa avverrà. Quello che è chiaro è che oggi bisogna "rovesciare la storia", come hai detto nel tuo ultimo discorso a Barcellona dieci giorni prima della tua morte. Certamente bisogna rovesciare la storia del Continente e anche, in buona misura, la storia della Chiesa.

A Medellín c'era il dito di Dio. Ne sei stato riconoscente, facendolo fruttificare fra noi gesuiti e nella spiritualità di sant'Ignazio, nella Uca e nel Paese. La reazione non si è fatta attendere, perché un Dio degli oppressi infastidisce. Ha reagito la Casa Bianca con il Rapporto Rockefeller. E hanno reagito anche alcuni membri del Celam. Dolorosamente è iniziata una campagna contro vescovi, teologi, religiose e comunità, e non sempre con le buone.

In questo contesto, Puebla doveva porre un freno a Medellín, te ne sei reso conto subito. Hai analizzato in profondità il documento preparatorio e ne hai messo in evidenza aspetti buoni e mancanze. E certamente ti sei convinto che l'ambiguità non si sarebbe superata se non si fosse trasformata "radicalmente la sua cristologia e la sua ecclesiologia". Lo ricordo ora perché questo avvertimento continua ad essere necessario. A volte si ha l'impressione che Gesù di Nazareth sia scomparso dalla cristologia ufficiale. E che della "Chiesa dei poveri" – nulla diciamo della "chiesa popolare" – non si fa più menzione. Ma non hai rivolto solo delle critiche, perché il tuo apporto è stato un testo splendido, Il popolo crocefisso. Saggio di soteriologia storica, che, insieme alle omelie di Monsignore (Romero, ndr), ha fatto epoca: i popoli crocefissi sono la presenza di Dio e del Cristo, ed è da loro che proviene la salvezza. Sei rimasto saldo sulla linea di Medellín, arricchendola. Oggi pochi parlano così.

Puebla non è giunta a rompere con Medellín, ma il deterioramento ecclesiale si è fatto notare, e a Santo Domingo è stato inoccultabile, come ora si riconosce senza reticenze. È stato organizzato e controllato da Roma. Per quanto riguarda il testo, incredibilmente non si è data importanza ai martiri né si è mostrato riconoscimento per il grande amore che hanno diffuso, pietra angolare di ogni Chiesa cristiana, e i poveri della città di Santo Domingo sono stati nascosti da alti muri. Personalmente, la Chiesa mi dava la sensazione di camminare con il timore di perdere prestigio e con il desiderio di ottenere successi mediatici e quantitativi. E ancora oggi, malgrado le numerose celebrazioni, musiche e processioni, continuo a percepire un certo disorientamento ecclesiale, perfino tristezza.

La mia tesi è che, a Santo Domingo, Medellín non sia stata riconosciuta come la nostra "Assemblea di Gerusalemme". A Medellín si era deciso di indirizzarsi non ai gentili, ma ai poveri, di accompagnarli e imparare da loro. A Santo Domingo si è avuto un deficit di attenzione e cura alla causa dei poveri, anche se non sono mancate alcune parole sull'inculturazione, sinceramente gradite da indigeni ed afroamericani, come solo sanno fare i poveri, perfino quando ci ricordiamo di loro a metà e tardi. E, secondo me, la cosa più grave era la sensazione che la Chiesa non avesse nulla di importante di cui rallegrarsi. Rimaneva lontana l'esultanza di Paolo in mezzo a persecuzioni come quelle da noi subite. E poco c'era della gioia di Gesù: "Grazie, Padre, per avere rivelato queste cose ai piccoli". Non si notava molto dell'allegria delle comunità, delle loro processioni e anniversari di martiri, della solidarietà, della "tenerezza dei popoli"... E senza gioia non può prosperare una Chiesa basata su una buona notizia.

La Chiesa di Medellín si è fatta responsabilmente carico della storia. Ora la Chiesa, anche con alcune buone parole nei suoi messaggi, nel suo insieme non ci dà la sensazione di ascoltare "il sordo clamore che nasce da milioni di uomini" (oppressi, donne, indigeni, afroamericani, emigranti, giovani che non sanno cosa fare e dove andare), le note parole con le quali cominciava "La povertà nella Chiesa". Né dà la sensazione che la sua opzione fondamentale sia "staccare dalla croce i crocefissi", come dicevi tu, Ellacu.

Sembrerebbe, dunque, che abbiamo perso la rotta. E che non mettiamo mano alla nostra tradizione per recuperarla: dom Helder Camara, don Leonidas Proaño, don Sergio Méndez Arceo, simboli di una Chiesa paragonabile a quella di Las Casas e Valdivieso. E, per questo, neppure si sente molto, certo non come prima, questa citazione di Medellín: "chiedendo ai loro pastori una liberazione che non giunge loro da nessuna parte". I poveri ci chiedono oggi di liberarli? Ci facciamo carico della loro storia?

Se dilapidiamo la dignità e la gioia originate da Medellín, la marcia indietro è inevitabile, e ogni giorno che passa accumuliamo ritardo. Il compito non è facile, ma è possibile. Ad Aparecida Dio può tornare ad irrompere, come in Monsignor Romero davanti al cadavere di Rutilio. E vedo alcuni segni di speranza.

Ci sono vescovi che pensano che non si possa andare avanti con un centralismo esagerato e senza porre al centro la realtà delle nostre comunità, le loro gioie le loro tristezze. Non è evangelico, non è umano e non risolve i problemi. Bisogna cambiare e volgere lo sguardo alle comunità.

Vi sono persone che pensano e si muovono nelle correnti sotterranee della storia. Parlano del Dio che si è manifestato in Gesù e che si è sentito a casa fra gli altri uomini e le donne che lo hanno adorato e amato da prima del cristianesimo. Parlano dell'essere umano e di ciò che umanizza: onestà nei confronti della realtà, compassione senza compromessi, giustizia contro l'oppressione, comunità e collegialità invece di individui isolati, il sentimento comune della gerarchia delle verità...

Ci sono gruppi di laici, sacerdoti e religiose che vanno avanti nella speranza e nella resistenza permanente contro ogni sorta di mali. Non si sono lasciati vincere dallo scoraggiamento. Abita in loro quello che sono solito chiamare santità primordiale. Dà emozione vederli riuniti per analizzare il documento preparatorio ed avanzare proposte. La cosa più importante è che si riuniscono in comunità e che, con o senza il documento preparatorio, guardano e analizzano la realtà del popolo, delle famiglie, delle parrocchie e di loro stessi. Osservano la Chiesa per vedere come sta e come dovrebbe stare. E ce lo dicono. Sebbene nel piccolo, realizzano il tuo grande desiderio, Ellacu, che ricordiamo in questi giorni: "che il popolo salvadoregno – e tutti i poveri ed oppressi – faccia sentire la sua voce", anche nella Chiesa.

Come sarà Aparecida? Solo Dio lo sa. Magari possa scatenare in persone, gruppi e vescovi dinamismi creativi, ma ora facciamo attenzione solo al testo che scriveranno i vescovi. Il documento preparatorio è scoraggiante, ma è un ottimo segnale il fatto che si stiano facendo proposte importanti per cambiarlo. Le più innovative sono quelle su Dio nelle diverse religioni, sulla Chiesa in un mondo di grandi novità, sulla donna – una volta per tutte – come persona, persona cristiana, ministro e membro della Chiesa, sulla nomina dei vescovi... Le più fondanti (incredibilmente assenti nel documento preparatorio) sono quelle su Gesù di Nazareth, sul regno di Dio che egli ha annunciato e sull'antiregno che ha combattuto, sulla Parola della Scrittura... Le più urgenti sono sulla vita, sulla giustizia e sulla verità per le maggioranze... E c'è anche uno sforzo, grande e tenero, per presentare Maria di Aparecida come simbolo insieme latinoamericano e cristiano: volto dei poveri del Continente e volto del loro Dio.

Il testo di Aparecida dovrà essere analitico, ben analizzato – e speriamo nella presenza di persone competenti in bibbia, teologia, pastorale, saperi umani che aiutino i vescovi. Questo era il procedimento di molte conferenze e di molti vescovi, e ricordiamo bene come insistevi sull'importanza di buone analisi e concetti. Ma il testo avrà anche bisogno di spirito, un altro dei tuoi lasciti. "Poveri con spirito", scrivevi, per far convergere le beatitudini di Luca, la "materialità", e quelle di Matteo, lo "spirito". E, in un altro contesto, sebbene non ti attraesse l'idea di una Uca dottrinalmente confessionale, insistevi nel fatto che fosse una Uca "con spirito". Per questo l'hai definita una università, "ragione", di ispirazione cristiana, "spirito".

Questo ci aspettiamo da Aparecida: "testi con spirito". Alcuni si chiederanno cosa voglia dire. Posso rispondere solo con due esempi. Nell'omelia del 10 giugno 1977, monsignor Romero disse lapidariamente: "La nostra Chiesa non lascerà mai solo il nostro popolo sofferente". Il popolo capì il concetto e lo spirito che lo impregnava. E per entrambi i motivi applaudì. L'altro esempio è un testo tuo. "Quello che le agenzie del turismo fanno perché il mondo si diverta dovrebbe farlo la Chiesa in direzione contraria perché i mondo si converta". Con ciò era chiaro il concetto che avevi sviluppato su quel che bisogna fare con il "popolo crocefisso". Ed era chiara l'esigenza di un fare deciso e dialettico. Il testo aveva spirito. Era evocativo e provocatorio. Ad Aparecida sono necessari testi di questo tipo, che possiedano verità con lucidità e spirito con forza. E per questo forse potranno essere d'aiuto le seguenti riflessioni:

1. Libertà contro la paura. Detto semplicemente, c'è paura nella Chiesa, Ellacu. Non è la paura del tuo tempo, paura di quelli che potevano uccidere il corpo, ma paura di quanti possono danneggiare la nostra comodità, paura di essere segnalati o censurati. Paura di perdere privilegi, status, potere sociale. L'impressione offerta da molti uomini della gerarchia e sacerdoti è che spesso siamo come paralizzati. È importante recuperare la libertà, la qual cosa, inoltre, è centrale nella fede: siamo figli, non servi. E nelle nostre mani abbiamo una Parola che, essendo di Dio, non è incatenata.

2. Umiltà, esame di coscienza. Nel testo citato di Medellín, così proseguivano i vescovi: "Giungono anche a noi le lamentele per il fatto che la gerarchia, il clero, i religiosi sono ricchi e alleati dei ricchi". Hanno sfumato le lamentele, a volte basate sulle apparenze, e hanno insistito sulla povertà delle parrocchie e delle diocesi, ma hanno concluso con una grande verità. "Nel contesto di povertà e anche di miseria in cui vive la grande maggioranza del popolo latinoamericano, noi vescovi, sacerdoti e religiosi abbiamo il necessario per vivere e una certa sicurezza, mentre i poveri mancano dell'indispensabile e si dibattono tra l'angoscia e l'incertezza". Esempio di rettitudine e di umiltà, e persino una forma di richiesta di perdono.

3. Parola contro il silenzio. Noi possiamo sbagliare, ma non possiamo tacere di fronte a ciò che colpisce gravemente il mondo di oggi, quello di 2 miliardi di persone che devono vivere con due dollari al giorno. Parliamo, a ragione, dei gravi problemi della famiglia, ma non contro la guerra preventiva – la sua concezione e la sua realtà – del presidente Bush, che provoca migliaia di morti. Denunciamo alcuni peccati degli altri, ma stiamo troppo in silenzio proprio di fronte ai nostri – alcuni dei quali aberranti – a meno che non siano ormai inoccultabili. La Chiesa menziona e condanna ideologie come il nazismo e il comunismo. Ma l'ideologia del capitalismo in sé – non solo quello selvaggio – non è denunciata con forza. E nemmeno si ricorda l'ideologia della dottrina della sicurezza nazionale, che è stata causa tra di noi di decine di migliaia di morti, per mano, spesso, di battezzati.

4. Parresia contro pusillanimità. Di entusiasmo ve ne è tanto, addirittura in eccesso, in molti movimenti. Ma quello che ci interessa è l'annuncio non di un Dio qualunque bensì del Dio dei poveri e delle vittime. Proclamare la realtà di questo Dio non è una questione di mera dottrina, ma di convinzione e di parresia. E neppure lo è proclamare Gesù, quello di Nazareth, quello che è passato facendo il bene ed è morto crocifisso e si è manifestato come Figlio di Dio. C'è bisogno di audacia per proporre questo Gesù come fratello maggiore e non annacquarlo in mille forme, infantili o solenni.

5. Rispetto di ciò che si ha di proprio contro l'imposizione universale. Che esistano tensioni in una macrocomunità come la Chiesa è comprensibile, ma oggi il problema non risiede tanto in qualche torbido desiderio di indipendenza delle Chiese locali del Terzo Mondo, quelle dei poveri, degli indigeni e degli afroamericani, che configurano "la grande Chiesa dei poveri". Suole provenire, piuttosto, dal centro: sospetti, avvertimenti e condanne e pochi riconoscimenti. Lo spirito di inculturazione non si trova facilmente. E anche quando facciamo l'opzione per i poveri, al centro della Chiesa non stanno loro – e neppure nelle democrazie – ma qualcosa che assomiglia di più a ricchezza e potere.

6. Serietà contro faciloneria. Dipende dai luoghi, ma dà pena vedere in molte comunità che, quanto più light sono le cose, tanto più religiose sembrano. Si ricordi l'avvertimento di Peguy: "poiché non sono di questo mondo credono di essere del cielo". Che questo succeda tra le persone semplici è fino a un certo punto comprensibile, ma è irresponsabile appoggiare forme di religiosità magiche e melliflue che non umanizzano. Gesù ha detto "siate come bambini", ma non ha detto "siate infantili, non parlate, non domandate, non protestate". È vero che a Dio non si arriva per il cammino del razionalismo, ma è triste che si tollerino e persino si alimentino alcuni tipi di religiosità come se le persone semplici non avessero capacità di ragionare. Peggio ancora se ciò viene tollerato o alimentato perché così almeno si è sicuri che esse conserveranno la loro fede. Ai tempi tuoi, Ellacu, dicevi che la coscientizzazione è più urgente dell'alfabetizzazione. Nell'attuale congiuntura della Chiesa diremmo che la maturità nelle questioni di fede è più urgente che esprimerla religiosamente, cosa molte volte pittoresca.

7. Mistagogia e credibilità contro mera dottrina. E bisogna anche insistere nell'altra direzione. Molti vanno risvegliando la ragione, poiché la credulità non dura per sempre. Allora bisogna offrire verità, ma senza imporre una mera dottrina. Per questo è sempre più necessaria la mistagogia, che conduce al mistero di Dio. Ciò significa introdurci in un mistero che è più grande, ma che non rimpicciolisce, che è luce, ma che non acceca, che è accoglienza ma che non impone. E questo, in definitiva, è possibile comunicarlo solo se siamo credibili. Senza di essa, ascolteremo le parole della Scrittura: "a causa vostra si bestemmia il nome di Dio tra le nazioni". Con essa, "la gente renderà lode a Dio".

8. La Chiesa dei poveri contro una Chiesa astrattamente universale. Il sogno di Giovanni XXIII e del cardinal Lercaro, di dom Helder Camara e di mons. Romero continua ad essere la "Chiesa dei poveri" (di chi, sennò?). Questo significa che i poveri sono il principio ispiratore della Chiesa, non solo i beneficiari della sua opzione. Non negano nulla né escludono nessuno, ma sono indispensabili per configurare cristianamente tutto ciò che è cristiano: quello che possiamo sapere, quello che ci è permesso sperare, quello che dobbiamo fare e quello che ci è dato celebrare. E tutti siamo chiamati a partecipare, per quanto in modo diverso, alla "povertà reale" dei poveri e allo spirito dei "poveri in spirito".

Ellacu, termino ricordando il tuo ultimo discorso: "Solo con tutti i poveri e oppressi del mondo possiamo credere e avere la forza di tentare di rovesciare la storia". Ci stai dicendo, allora, che i poveri sono la fonte di una fede e di una forza che non ci vengono da nessun'altra parte. Come ti ho scritto lo scorso anno, "fuori dai poveri non c'è salvezza". Speriamo che Aparecida lo proclami.

E, insieme ai poveri, il meglio che abbia prodotto la nostra Chiesa e il nostro popolo: i martiri. Non vedo come sia possibile riunirci senza ricordare ed esprimere gratitudine alle migliaia di martiri (così chiamiamo coloro che hanno dato la loro vita per amore). E, dal momento che si tratta di una conferenza di vescovi, non vedo possibile non ricordare e ringraziare, con orgoglio, Enrique Angelelli, Oscar Romero, Joaquín Ramos, Juan Gerardi.

So bene che, di fronte a queste cose, il Vaticano impone pazienza, prodenza, silenzio. Ma tu non hai agito così. Tre giorni dopo il suo assassinio, tu hai detto: "con monsignor Romero, Dio è passato per El Salvador". E don Pedro Casaldáliga ha scritto "San Romero d'America". Lo stesso ha detto il card. Carlo Maria Martini, il 15 ottobre del 2005 da Gerusalemme: "Mi sembra, allora, che la sua morte sia quella di un martire della giustizia, della verità e della carità. E per quanto io sia del parere che non abbiamo bisogno di moltiplicare troppo i santi canonizzati, vedrei con favore il fatto che il suo eroismo ed esemplarità, soprattutto per i vescovi, siano riconosciuti ufficialmente dalla Chiesa".

Ellacu, magari ad Aparecida si possa riprendere il volo, senza rimproveri e con magnanimità, senza rancori e con speranza. Ma è importante riprendere la direzione e incamminarci verso una "nuova Medellín". In Aparecida dovrà esserci molto di "nuovo", ma anche molto di "Medellín". Di quello cioè che, in mezzo agli errori e alle limitazioni che abbiamo menzionato, continua ad essere presente in America Latina: religiose che difendono indigeni oppressi; laici e laiche che lavorano per i diritti umani dei poveri e con i malati di Aids; contadini che studiano la Bibbia e si addentrano nella teologia; gruppi di solidarietà con gli immigrati; processioni popolari e anniversari di martiri; innumerevoli vite nascoste da ammirare; vescovi dediti al popolo e che si mantengono "in fedeltà ribelle"… E una lunga litania di cose buone che fanno i poveri e quanti solidarizzano con loro.

E c'è la fede. Continuano a credere in un Dio che è Padre-Madre. In un Figlio che è Gesù di Nazareth, crocifisso e risorto. In uno Spirito che è signore e datore di vita e che parla per mezzo dei profeti. E che il Vangelo è come una piccola pianta che cresce nella misura in cui ce ne prendiamo cura.

Curarla con attenzione è l'eredità di Medellín. Per questo abbiamo speranza. E per questo, anno dopo anno, ricordiamo voi martiri, tutti quanti. Voi siete coloro che se ne prendono cura, i guardiani del Vangelo.

 

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