La libertà nella fedeltà...

Giorgio La Pira, un politico D-ALTRI tempi!

 

di Francesco Comina

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E’ difficile raccontare Giorgio La Pira.

A quasi trent’anni dalla morte (5 novembre ’77) e a cent’anni dalla nascita (9 gennaio 1904) la singolare vicenda del “sindaco santo” di Firenze torna a noi come testimonianza vivente di una possibilità storica, reale, pragmatica di conciliazione della politica (polis) intesa nel suo significato profondo: “cura della collettività”, assunzione di responsabilità per le sorti del mondo che arriva fino alla condivisione totale con le attese della “povera gente”.

La fede è stata come l’asse di orientamento di tutta la sua esistenza. Egli era un cattolico senza incrinature nel senso tridentino del termine, fedele ai precetti e devotissimo alla Madonna, che vedeva come trasfigurata nelle terre dell’est comunista e dell’ovest capitalista. Era bigotto e progressista, libero e vincolato, laicista e integralista, curiale e rivoluzionario. Era tutto e il contrario di tutto, ma ogni volta fedele a se stesso e alla sua identità che non accettava gabbie preconfezionate. Avevano tutti ragione i suoi denigratori e per questo motivo avevano tutti torto, perché egli era inaccessibile, incatalogabile, inafferrabile a qualsiasi volontà manipolatoria.

La Pira era un uomo tremendamente solo, monaco per vocazione, che aveva scelto di vivere poverissimo in una cella di pochi metri quadrati nel convento dei Domenicani. “Uomo di dialogo – ha scritto padre Ernesto Balducci – La Pira ha vissuto un colossale monologo in cui si aveva accesso non per mediazione di concetti, ma per nativa capacità di consonanza, senza la quale era fatale restarne esclusi se non proprio irritati” (v. Testimonianze, aprile-luglio 1978)

Eppure il suo silenzio ha chiamato il mondo. Firenze è diventata la città sul monte, come Gerusalemme, la capitale della pace universale, il luogo da cui partire per annunciare la lieta novella ai popoli della terra, ossia che sarebbe nata finalmente una civiltà in cui si sarebbe espunta la legge della forza come monopolio del diritto, la logica della violenza come fine nell’edificazione della società delle nazioni e in cui la rete delle città gemellate avrebbe rappresentato un baluardo alla possibilità molto concreta dell’apocalisse atomica.

La Pira è stato il profeta disarmato del Novecento, il politico più ottimista che la storia italiana abbia mai conosciuto, l’uomo più bizzarro e realista che sia mai seduto sulle poltrone del parlamento; il più vicino allo spirito di san Francesco che abbia mai avuto un ruolo pubblico nel mondo. Enzo Biagi lo descrive perfettamente in un’intervista apparsa sul “Corriere della Sera” il 19 gennaio del 1975: “Sta sempre nella piccola stanza di via Gino Caponi. Il letto è invaso dai libri. Sopra al tavolo di lavoro l’icona che gli regalò il patriarca di Mosca. E’ sorridente, sereno. Crede. “E se fosse vero?”. Disse una volta la filosofo marxista Lukacs. “Io risorgerò con il campanile di Giotto”. Lo hanno chiamato in tanti modi: “Il sindaco santo”, ma anche “il sanculotto eucaristico”, “Il bolscevico del Vangelo”. Per me è un grande saggio e un puro di cuore: “Caro amico, le rondini tanto fragili volano da un continente all’altro. Non è un prodigio?”. Guarda il cielo ma cammina sul sentiero. Dedicò la sua tesi di laurea alla Madonna, ma a trent’anni era già professore di diritto romano all’università. Qualcuno dice: “E’ un esaltato, un visionario”. Ricevendo a Palazzo Vecchio, nel 1958, la più alta autorità di Pechino, così lo salutò: “Dica al suo Governo che la Repubblica di Firenze riconosce la Repubblica Popolare di Cina”. Risate e scandalo. Adesso Kissinger vola da Mao” (…).

La Pira aveva fama di santità e stregoneria. Alcuni episodi curiosi sono stati raccontati da Balducci, suo consigliere e collaboratore per molti anni: “Un giorno – racconta Balducci – l’assessore alle finanze minacciò le dimissioni perché contrario alla politica del sindaco rivolta così prepotentemente ai poveri. La Pira lo guardò fisso negli occhi e gli disse: “Guarda che se tu ti dimetti, muori”. Nella notte all’assessore venne una febbre altissima. Si attaccò al telefono e disse: “Non mi dimetto, resto!”. E anni prima, quando la politica vaticana di Pio XII infastidiva uomini come Balducci, Turoldo, Mazzolari… ci fu un momento in cui Balducci andò da La Pira a rivelare questo fastidio e La Pira rispose: “Ma Balducci c’è anche la morte” e infatti dopo poco dopo il Papa morì.

La Pira aveva anche il dono dell’umorismo, una facoltà che gli consentiva di vivere in piena  libertà e letizia dentro il mondo severo e poco avvezzo al riso delle istituzioni.

 

 

Tre sono le fasi storiche che possono sintetizzare la vita intensa di Giorgio La Pira:

 

-la fase teorica, che si chiude nel 1948

 

-la fase pratica che abbraccia gli anni in cui La Pira è stato sindaco di Firenze (1951-1964)

 

-la fase planetaria, in cui La Pira svolge un ruolo di primo piano come ambasciatore di pace fra le nazioni

 

 

 

 

LA FASE TEORICA

 

E’ lo stesso La Pira, in uno scritto del ’51 a raccontare il processo umano che lo condusse dalla fase teorica a quella pratica: “Una volta, quando ero più giovane magari facevo delle preghiere più lunghe e più belle, più affettuose al Signore; ed anche un esame di coscienza più approfondito (…). Ma se ora faccio il confronto fra quella esperienza, più limitata, e l’esperienza di dopo al ministero del Lavoro e quella successiva a sindaco di una città, vedo che quando scrivevo certi miei articoli, molto belli, ero ancora un poco ingenuo… Invece al Ministero del Lavoro fui improvvisamente messo a contatto con le correnti dei lavoratori, occupati e disoccupati. E poi il problema si è allargato. Dovetti studiare i problemi a dimensione mondiale, per rendermi conto di quello che la disoccupazione fosse”.

La Pira muove i primi passi della sua vocazione politica come membro della prima sottocommissione all’assemblea costituente, nel gruppo dei professorini (Dossetti, Lazzatti, Moro). In quell’occasione mostra la sua originalità chiedendo un riferimento esplicito alla divinità nell’incipit della carta costituzionale. Bloccato dall’assemblea si trattenne facendo un gran segno di croce.

Entra nel governo De Gasperi come sottosegretario al Lavoro con l’amico Fanfani (“il comandante”) , allora referente del dicastero.

 

 

LA FASE PRATICA

 

Ma l’anno che segna l’immissione totale di La Pira nella storia politica italiana e mondiale è il 1951. La Pira viene scelto dalla Democrazia Cristiana come candidato efficace per battere “sullo stesso terreno” il candidato del Pci Mario Fabiani. La Pira si “immola” alla causa ma ci tiene a sottolineare che lui non possiede tessere di nessun partito. Il personaggio è già una leggenda in città per la sua condivisione col mondo dei poveri. Ogni domenica anima la messa degli emarginati a San Procolo.

Il giorno del suo insediamento ufficiale a Palazzo Vecchio, La Pira esalta il suo innamoramento con Firenze, come se l'investitura fosse stata predisposta dall'alto con una cerimonia nuziale: “Mia dolce e misurata e armoniosa Firenze!”.

Ma che non fosse tanto armoniosa la condizione di Firenze, Giorgio La Pira lo apprende ben presto. Alcuni problemi strutturali lanciano i primi segnali allarmanti. La povertà incombe, i cittadini senza tetto aumentano continuamente, la disoccupazione si fa sentire fortemente e alcune grosse imprese minacciano di chiudere e di mandare sulla strada migliaia di operai. “A questo punto – scriverà Nicola Pistelli, protagonista della storia politica fiorentina di quegli anni – inizia la storia di La Pira”. Uno dei primi atti amministrativi del sindaco è la creazione di un ufficio per gli alloggi, chiamato a rispondere alle necessità dei senza casa. Poi inizia la fase di progettazione di una serie di quartieri popolari intorno alla città, mentre con un atto di imperio, che provoca furibonde polemiche, il sindaco requisisce le ville gentilizie sfitte per metterci dentro poveri senza casa. La Pira utilizza un decreto del 1865 che estendeva le competenze del sindaco fino al sequestro degli alloggi, in caso di pubblica calamità. E per la Pira la desolante realtà dei senza tetto fiorentini è un problema di pubblica calamità.

Poi iniziano le battaglie per bloccare la disoccupazione. Memorabili le vertenze sul Pignone e il Galilei. La Pira scrive, pressa il parlamento, coinvolge il Papa, condivide le occupazioni delle fabbriche da parte degli operai. Alla fine riesce ad evitare il licenziamento di 2000 operai e il rilevamento del Pignone da parte dell'Eni.

Le intenzioni del sindaco sono evidenti in una lettera alla segreteria nazionale del 1955: “Fino a quando mi lasciate a questo posto mi opporrò con energia massima a tutti i soprusi dei ricchi e dei potenti. Non lascerò indifesa la parte debole della città; chiusura di fabbriche, licenziamenti e sfratti troveranno in me una diga non facilmente abbattibile”.

Sorgono i primi problemi, la maggioranza si sfalda, La Pira è costretto alle dimissioni. Ma la Dc non può fare a meno di lui. Gli attacchi sono ferocissimi anche da parte di uomini come don Sturzo che sulle colonne del “Giornale d'Italia” lo accusa di sostenere la lotta di classe. E afferma: “Certi cattolici dovrebbero finirla con il vagheggiare una specie di marxismo spurio, buttando via come ciarpame l'insegnamento cattolico-sociale della coesistenza e cooperazione tra le classi e invocando un socialismo nel quale i cattolici perderebbero la loro personalità e la loro efficienza”.

Ma Firenze si apre, si allarga al mondo e diventa la capitale della pace. La Pira è la mente, l'anima, il cuore di questa città sul monte. Organizza i convegni per la pace e la civiltà cristiana, apre spazi di incontro con il sud del mondo attraverso i Dialoghi Mediterranei. Nel '55 si tiene a Firenze il convegno dei sindaci delle capitali di tutto il mondo. La Pira chiama e il mondo viene. Il sindaco santo mette in atto una metafisica delle città per scongiurare l'apocalisse atomica: “La minaccia della guerra atomica ha fatto scoprire il valore misterioso ed in certo modo infinito della città umana – disse al convegno dei sindaci delle capitali mondiali – Che cosa essa sia, che cosa valga e quale destino – temporale ed eterno – essa possieda è un problema che ciascuno può risolvere appena pensa alla storia della sua città. (...) Esse restano come libri vivi della storia e della civiltà umana (...) Nessuno, per nessuna ragione ha il diritto di sradicare le città della Terra, ove fioriscono: sono la casa comune che va usata e migliorata; che non va distrutta mai!”.

Il discorso di La Pira è di un realismo sconvolgente. Unendo le città si possono unire le nazioni, rafforzando i vincoli fra le capitali del mondo si può creare un baluardo concreto alla possibilità della catastrofe planetaria.

 

 

 

LA FASE PLANETARIA

 

Come sindaco di una città capitale del mondo, La Pira si assume l'onere di essere una sorta di ministro degli esteri di Firenze. Nel 1959 va in Russia a dire a Krusciov che il materialismo storico comunista deve essere ripensato a partire dalla fede profonda del popolo russo e a supplicare il Soviet supremo a chiudere la fase dell'equilibrio del terrore per aprire quello della coesistenza annunciato da Kennedy.

Nel 1961 scoppia a Firenze il “caso” dell'obiezione di coscienza. La Pira viene denunciato per apologia di reato. Il suo crimine è di aver proiettato il film del regista francese Autant Lara su cui il ministro alla cultura francese, André Malraux aveva posto il veto. Il film “Tu ne tueras pas” che racconta la storia di due personaggi: un obiettore di coscienza che rifiuta la divisa perché cattolico e un sacerdote che uccide un prigioniero nei campi nazisti recitando il Padre Nostro. La Pira decide di proiettare il film in una sala privata invitando alcune personalità e i giornalisti  perché si apra un dibattito. Scoppia, invece, una polemica nazionale e La Pira viene prima condannato e poi prosciolto. Ma il “caso” La Pira apre violentemente il dibattito e qualche tempo dopo si tiene il processo all'obiettore cattolico Giuseppe Gozzini, che finisce con la condanna a Gozzini e a padre Balducci (1964) per la difesa dell'obiezione di coscienza fatta dal sacerdote e pubblicata da una rivista di sinistra. E di lì a poco segue il processo a don Lorenzo Milani che aveva risposto ad una lettera dei cappellani militari della Regione Toscana che definivano gli obiettori dei “vigliacchi”. “La lettera ai giudici” viene scritta da don Milani poco prima di morire e costituisce uno degli scritti più alti della letteratura civile del nostro Paese. Noto e quanto mai attuale è il passo “L’obbiezione non è più una virtù ma la più subdola delle tentazioni”.

Il processo a don Lorenzo Milani fa parlare molto di sé e proprio in quegli anni Nicola Pistelli, deputato della sinistra democristiana fiorentina, mette a punto una disegno di legge sull'obiezione di coscienza che poi diventa legge nel 1972, poco dopo la morte improvvisa di Pistelli.

Le polemiche intorno all'obiezione di coscienza contribuiscono ad indebolire la posizione del sindaco dentro la Dc, che nel 1965 gli da il ben servito imponendogli una candidatura bloccata sui soli voti dei partiti del centrosinistra senza apporto di voti comunisti. La Pira prende carte e penna e risponde così: “Dato il carattere umoristico dell'accordo raggiunto dalle segreterie nazionali dei partii del centro sinistra, accordo da me appreso dai giornali, lascio ad altri più disinteressati la carica di sindaco”.

La Pira chiude la sua fase amministrativa e apre quella di ambasciatore di pace nel mondo. E proprio nel 1965 avviene un fatto memorabile. La Pira, che da tempo muoveva tutto il suo estro comunicativo e politico per cercare di evitare la guerra in Vietnam, viene invitato da Ho Chi Minh ad Hanoi. E lui ci va, in visita privata, accompagnato da Mario Primicerio (futuro sindaco di Firenze). Ad Hanoi viene invitato ad una riunione di governo con la presenza di Ho Chi Minh. Dopo due ore di colloqui gli esponenti vietnamiti congedano La Pira con la disponibilità dello stesso Ho Chi Minh di aprire una trattativa di pace anche con la presenza dell'esercito americano sul territorio (contro quanto dicevano allora gli Stati Uniti). Finito il colloquio La Pira chiede umilmente a Ho Chi Minh di trovargli i soldi per tornare a casa. Il primo ministro vietnamita fa una colletta e gli regala trecento dollari per “togliere l'ingombro”. In Italia La Pira comunica subito a Fanfani l'esito dell'incontro con Ho Chi Minh e la disponibilità pace. Scoppia un altro terremoto. Gli Usa infangano La Pira e lo accusano di falsità. In Italia viene fortemente criticato e passa giorni di grande emarginazione.

Ma il suo ottimismo non gli impedisce di continuare  a lavorare per la pace, anche in virtù della carica che nel 1967 gli viene conferita come presidente delle città gemellate. La Pira continua i suoi viaggi in tutto il mondo fino ad un progressivo allontanamento dall'attività politica durante gli anni '70. Viene rieletto deputato nel '76 solo perché la Dc gli implora di candidarsi. Ma l'anno successivo muore. La donna che lo segue negli ultimi istanti di vita rivela che il suo ottimismo si era come trasformato in pessimismo. “Vedo tutto nero davanti a me, sempre più nero” avrebbe detto prima di spirare.

E vedeva bene. Gli anni di piombo, la contrapposizione fra i blocchi erano ancora ombre di violenza che emergevano dalla storia, ma già di prefigurava lo scenario che stiamo vivendo oggi, con una guerra infinita e permanente ad accompagnare la storia dei popoli e delle nazioni del mondo. Per uno che prefigurava una civiltà dai mille anni di pace era come vedere l'orizzonte naufragare nel mare.

 

(di Francesco Comina)

 

 

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