La
conoscenza di sé non è sufficiente, anzi può diventare un
ostacolo, un alibi, può assumere uno sviluppo per così dire
canceroso. Essa ha senso se ci apre a decisioni
significative per l'esistenza. E' dunque nel decidersi che
la persona si fa persona, che l'individuo diventa soggetto,
che il ragazzo, il giovane diventa adulto.
Vogliamo
allora indicare un sottotitolo per la nostra riflessione:
Tipologie delle decisioni significative,
patologie e rimedi
per curarle.
Sono
"significative" le decisioni che imprimono una certa
direzione alla nostra vita, che ne costruiscono la figura
giorno dopo giorno.
Un'icona biblica di decisione significativa
Ci è utile
trovare un'icona biblica capace di farei cogliere meglio la
pregnanza del sottotitolo. La Bibbia offre molti esempi di
decisioni significative. Tra i tanti, ne scelgo uno che è
tratto dal Libro degli Atti degli Apostoli, al cap. 21.
Paolo sta
salendo a Gerusalemme, dopo essere salpato da Mileto.
Terminata la navigazione approda a Tolemaide e vi si ferma
un giorno: Ripartiti, giungemmo a Cesarea; ed entrati nella
casa dell'evangelista Filippo, che era uno dei Sette
(diaconi), sostammo presso di lui. Le sue quattro figlie
nubili avevano il dono della profezia. Eravamo qui da alcuni
giorni, quando giunse dalla Giudea un profeta di nome Agabo.
Egli venne da noi e, presa la cintura di Paolo, si legò i
piedi e le mani e disse: "Questo dice lo Spirito santo:
l'uomo a cui appartiene questa cintura sarà legato così dai
Giudei a Gerusalemme e verrà quindi consegnato nelle mani
dei pagani". All'udire queste cose, noi e quelli del luogo
pregammo Paolo di non andare più a Gerusalemme. Ma Paolo
rispose: "Perché fate così, continuando a piangere e a
spezzarmi il cuore? io sono pronto non soltanto a essere
legato, ma a morire a Gerusalemme per il nome del Signore Gesù". E poiché non si lasciava persuadere, smettemmo di
insistere dicendo: "Sia fatta la volontà del Signore!" (At
21,8-14).
E' sul
tavolo una decisione: andare o meno a Gerusalemme, e i
motivi per non andare sono molti. C'è infatti una situazione
di pericolo, che l'Apostolo conosce bene e che ha già messo
a fuoco a Mileto, nel suo discorso agli anziani di Efeso:
Ho servito il Signore con tutta umiltà, tra le lacrime e le
prove che mi hanno procurato le insidie dei Giudei (At
20,9).
Paolo sa per
certo che a Gerusalemme incontrerà insidie maggiori di
quelle sperimentate, precedentemente, un po' ovunque.
D'altra parte, la sua coscienza delle difficoltà e dei
pericoli è espressa bene pure nella seconda Lettera ai Corinti: Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli
di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai
pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto,
pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli ...
(2 Cor 11,26). Egli intuisce quanto potranno fargli i suoi
connazionali e i falsi fratelli che saranno presenti, in
gran numero, a Gerusalemme. Ancor prima di giungere a
Cesarea, i discepoli di Tiro, mossi dallo Spirito, l'avevano
caldamente esortato a desistere (cf At 21,4).
Paolo ci
offre quindi uno splendido esempio di decisione
significativa che emerge da un contesto difficile ed è
addirittura contrastata da persone carismatiche (la profezia
di Agabo, i discepoli di Tiro che, "mossi dallo Spirito", lo
implorano di non partire); una decisione attraversata da
diversi segnali, di tipo spirituale, che lo fanno entrare
in un certo senso nella notte dello spirito. Una decisione
carica di conseguenze che segneranno tutta la sua vita, e
che prende con piena coscienza, sentendosi probabilmente
solo rispetto ai suoi collaboratori che non sono affatto
d'accordo.
Nella nostra
riflessione sul "conoscersi", richiamando le immagini
bibliche del nostro cammino, avevamo citato la parola
dell'apostolo Tommaso: Andiamo anche noi a morire con lui
(Gv 11,16); dopo lo stupore per la decisione presa da Gesù,
dopo aver considerato i rischi della sequela e aver lottato
contro la fatica di assumerli, i Dodici decidono di andare
dietro al Maestro.
Tutta la
Bibbia è costellata di decisioni significative, anche
vocazionali. Noi terremo presente in particolare l'icona di
Paolo, ma nella vostra meditazione personale, potrete
richiamarne alla mente molte altre.
R. Bultmann,
che interpreta il vangelo di Giovanni con la categoria
fondamentale della decisione esistenziale, scrive che non è
il mondo a determinare l'appartenenza di un uomo al regno
delle tenebre o a quello della luce; è la sua decisione. E
aggiunge: Il dualismo fatalistico della gnosi è diventato,
in Giovanni, dualismo di decisione e la fede non è altro
che la decisione per Dio contro il mondo, resa possibile
dal fatto che Dio incontra l'uomo rivelandosi in Gesù. Una
decisione donata da Dio: "non voi avete scelto me, ma io
voi"; tuttavia, questa scelta che Dio ha fatto di me è resa
operante nella decisione di fede del discepolo (cf R.
BULTMANN, Teologia del Nuovo Testamento, Queriniana,
Brescia 1985, 407).
Chi lo
desiderasse, potrebbe dunque contemplare il messaggio
dell'evangelista Giovanni sotto la cifra della decisione
esistenziale.
Sarebbe pure
interessante che ciascuno di noi, riflettendo sulla propria
esperienza, individuasse un'icona personale, un momento
della vita in cui ha preso una decisione significativa in
circostanze particolarmente difficili. lo ricordo molto
bene, per esempio, quando all'età di 18 anni ho fatto per
la prima volta il Mese ignaziano di Esercizi spirituali.
Arrivato alla meditazione che propone l'offerta di sé a
Cristo re e Signore (cf IGNAZIO DI LOYOLA, Esercizi
Spirituali, n. 98), mi sentii confuso perché a ogni ragione
in favore di quell'offerta di seguire Gesù nella via della
povertà e dell'umiltà evangelica, si opponeva una ragione
contraria e, più meditavo, più mi smarrivo. A un tratto,
ebbi improvvisamente l'intuizione che dovevo assolutamente
decidermi, che non potevo salvarmi se non attraverso una
decisione di cui coglievo le radici nell'amore del Signore
per me e nella sua esigenza di totalità. Ne seguì una gran
pace, anche se la decisione non era stata accompagnata dal
conforto logico e razionale che avrei desiderato, anzi
veniva controbilanciata da continue immaginazioni, fantasie
e sofismi di ogni tipo.
Aiutati
dunque dall'esempio di Paolo e di altri personaggi biblici,
passiamo a considerare alcune tipologie della decisione per
coglierne gli elementi comuni. Successivamente mi fermerò
sulla patologia delle decisioni, cioè sulle difficoltà che
si frappongono e sul modo di curarle.
Tipologie delle decisioni
Lasciando da parte il caso
dell'opzione fondamentale - quella per la fede - che è
indubbiamente il più importante, ma il più difficile da
trattare sistematicamente, vorrei indicare quattro tipi di
decisioni:
-
abituali e moderatamente
facili;
-
abituali
e che però richiedono un certo sforzo, uno slancio
maggiore;
-
decisioni che implicano un cambio di orizzonte;
-
infine,
quelle che ipotecano definitivamente il futuro.
Si tratta di
tipologie puramente descrittive, utili a stimolare la vostra
riflessione e quindi il dialogo.
-
Le
decisioni abituali e moderatamente facili ritmano
l'intera esistenza: andare a tavola quando è l'ora,
pregare nei tempi stabiliti. Qui non viene messa in
questione l'azione da compiere, perché è già parte di
una precedente scelta.
-
Le
decisioni abituali possono richiedere, per svariati
motivi, uno sforzo maggiore. Per esempio, ci vuole un
certo slancio nell'alzarsi al mattino quando si è molto
stanchi; come pure nell'andare a scuola o al lavoro
quando non se ne ha voglia o si è preoccupati per
qualche grave problema. Ed è proprio
l'azione a essere chiamata in causa, in quanto ci si chiede:
perché qui e adesso? perché non più tardi? Sono molte
le decisioni di questo tipo nella vita: siamo stanchi e
affaticati dal peso della giornata e ci troviamo di fronte
a un'ennesima richiesta; dobbiamo rispondervi, ma perché
non rimandare a un altro momento? non sarebbe meglio
addirittura rifiutarsi inventando delle scuse? Per non
rimandare o per non rifiutarci, abbiamo bisogno di compiere
uno sforzo, di avere uno slancio maggiore.
-
Ci sono poi le decisioni che implicano un cambio di
orizzonte, con conseguenze per il proprio futuro, almeno a
breve o a medio termine: scegliere il servizio civile
anziché quello militare; accettare, se si è preti, un
ministero che il Vescovo propone ma senza richiederlo
strettamente. Si tratta di decisioni che esigono, oltre lo
sforzo, una riflessione più attenta, in quanto non basta
seguire l'abitudine. Un altro esempio: un giovane incontra
un gruppo di coetanei che stanno sempre insieme, si
divertono, vanno in discoteca; inizialmente sembra non gli
chiedano nulla di male, e tuttavia capisce che, una volta
entrato nel giro, non potrà uscirne e deve dunque decidere
con un atto impegnativo, carico di conseguenze per la sua
vita.
-
Le decisioni che ipotecano il futuro in maniera
definitiva riguardano la scelta del matrimonio, della vita
consacrata, della vita sacerdotale, di un tipo di servizio
che, concretamente, porrà la persona in una situazione
nuova coinvolgendola per tempi lunghi. Oppure, si tratta, al
contrario, della decisione di divorziare, di rompere i
legami con la vita di consacrazione.
Elementi comuni alle diverse tipologie
Volendo cercare gli elementi comuni ai quattro tipi di
decisioni appena ricordati, ci accorgiamo che il primo
elemento è costituito dal fatto che esse, comprese le più
semplici, sono anzitutto atti di volontà.
Il secondo elemento è che questi atti di volontà sono
radicati nell'emotività del soggetto; coinvolgeranno per
uno o per cinque o per dieci, comunque la mozione dei
sentimenti, degli affetti, è sempre presente.
Il terzo elemento comune è lo sforzo che gli atti di volontà
comportano: da sforzo zero (quando vado a mangiare avendo
fame) a sforzo enorme. Può costarmi moltissimo decidere di
sottopormi a un intervento chirurgico su cui non concordano
nemmeno gli specialisti.
Il quarto elemento è pure interessante: in questi atti
conta prima la ragionevolezza della decisione e dopo la
difficoltà. Un'azione è migliore, è preferibile, è da
scegliere non perché più comoda e più facile (nemmeno perché
è più ardua), bensì perché è più conforme alla ragione, alla
fede, quindi è bella, utile, moralmente comandata. La
ragionevolezza, illuminata dalla fede, mi si presenta
attraverso il magma incerto del piacere/dispiacere,
dell'inclinazione/ripugnanza, dello sforzo/facilità, per
indicarmi la direzione.
Il quinto elemento comune: a misura che si passa dal primo
caso al secondo, dal secondo al terzo e dal terzo al
quarto, occorre essere pronti a combattere e a lottare per
la decisione ragionevole.
Patologie di una decisione ragionevole e illuminata
Quali sono le patologia di un decidersi autentico? Sono
molte, in verità, ma per semplicità le riduco a quattro
categorie che ritengo fondamentali.
-
L'opposizione altrui (pensiamo agli amici e ai
collaboratori di san Paolo, che insistentemente gli chiedono
di non andare a Gerusalemme). Tale opposizione può essere
reale o temuta: che cosa diranno gli altri? Solitamente, il
timore dei giudizi o di farsi dei nemici, di crearsi delle
noie, è un grosso ostacolo alla decisione.
-
Un'altra patologia si riferisce ai danni che pavento per
me, reali o immaginari: che cosa mi accadrà se scelgo un
nuovo lavoro che mi viene offerto? e che cosa succederà se
vi rinuncio?
-
Distinguo dalla precedente la patologia delle fantasie
delle opposizioni e dei danni, che possono molto oscillare
il campo decisionale muovendolo in una direzione o
nell'altra. Proprio perché in ogni decisione è posta in
gioco l'emotività, facilmente le fantasie si scatenano fino
a confonderci; è quanto è accaduto a me, durante il Mese ignaziano di Esercizi spirituali, nel momento in cui
dovevo decidermi per offrirmi di seguire Gesù in povertà e
umiltà.
-
Una patologia più sottile e più insidiosa, è quella della
paura di aver paura, cioè il timore di entrare in uno stato
conflittuale. Questa patologia impedisce a molte persone di
prendere decisioni significative perché, non volendo
turbare alcuni equilibri raggiunti, preferiscono continuare
nel loro trantran. Conosco tanti giovani, e anche tanti
adulti, che non giungono a decisioni mature per mancanza del
coraggio di esaminarle, per paura delle insorgenze negative
esterne o interne. E così, purtroppo, fanno delle scelte
riguardanti la professione, la famiglia, la vita affettiva,
sentimentale, senza avere la necessaria maturità.
La cura delle patologia
Infine, esprimo alcuni rimedi utili a curare, a vincere gli
ostacoli che si frappongono alla decisione.
-
E' pedagogicamente fondamentale, per aiutare i ragazzi e
i giovani, promuovere il coraggio e la prontezza nelle
decisioni del secondo tipo, cioè in quelle abituali, ma che
richiedono uno sforzo maggiore. In tal modo l'individuo
matura una certa abitudine a guardare in faccia gli
ostacoli frapposti dalla fantasia o dalla paura.
-
Per prendere decisioni del terzo e del quarto tipo, è
necessario entrare nel mondo delle scelte divine mediante
l'esercizio della "lectio divina". Perché la lectio divina
mette a contatto con le grandi decisioni di Dio, le
decisioni che il Signore fa compiere al suo popolo, la
decisione di Gesù continuamente rinnovata nell'Eucaristia,
e a poco a poco esse diventano il nostro mondo.
-
Ancora per le decisioni del terzo e del quarto tipo,
bisogna imparare, con l'aiuto del direttore spiritual e, a
discernere le mozioni interiori: fantasie, paure,
immaginazioni, inclinazioni, attrazioni. Imparare a
discernerle in noi per potere, a nostra volta, essere di
aiuto ad altri.
-
Le decisioni di secondo tipo sono sempre il nostro
cavallo di battaglia e, per vincere gli ostacoli in
proposito, è bene abituarsi a vivere la comunione del
santi. Esemplifico: sapere che la comunità mi aspetta per
la celebrazione della Messa a una determinata ora, mi
sollecita a superare la pigrizia e la fatica dell'alzata
mattutina, la voglia di dormire un po' di più. Il fatto di
dover rispondere di me e di avere delle responsabilità
verso gli altri, è molto stimolante. Non a caso la vita
eremitica è estremamente difficile.
La comunione dei santi, l'esempio di persone più brave, più
fedeli, più generose di noi, la consapevolezza che altri
attendono da noi determinati servizi, ci conforta, ci
incoraggia, ci sostiene, magari anche ci premia o ci
rimprovera; tutto questo meccanismo è ricco di profonda
vitalità.
Allora le buone abitudini prese diventano importanti,
perché esprimono il nostro modo di inserirci in una
comunità.
-
Un altro rimedio, per curare le patologie è di resistere
dove la confusione vorrebbe impadronirsi di noi. Torneremo
su questo tipo di "cura", che è estremamente valido per
evitare l'inautenticità di decisioni gravi. Resistere
tenendo presente che, nel momento della confusione, non
dobbiamo per alcun motivo mutare quanto abbiamo deciso nel
momento della serenità.
-
Infine, occorre talora compiere qualche atto coraggioso
a cui ci sentiamo spinti, per cui veniamo debitamente
consigliati, ma per il quale proviamo ancora paura e
disagio. E' la cura del tuffo. Non si tratta qui di
confusione, bensì di indecisione: si sa che cosa si deve
fare, però sembra esserci un motivo per aspettare. Allora,
opportunamente consigliati, ci si butta, si salta. E' un
decidersi nel suo momento esistenziale e ha come
conseguenza uno stato di grande pace.
Domande per la riflessione personale
Per concludere, vi propongo delle semplici domande che
riprenderemo nel dialogo comunitario:
-
mi trovo spesso di fronte a decisioni del secondo tipo?
perché? forse per stanchezza fisica, nervosa, per
abbattimento? e come reagisco?
-
Ho vissuto casi di decisioni del terzo tipo? e sono
riuscito o riesco a promuovere in tali casi la
ragionevolezza della scelta superando le ombre dell'ansietà
e i blocchi delle paure?
-
Percepisco il rapporto tra lectio divina e scelte
significative? oppure lo recepisco soltanto come
un mandato dall'esterno, pur se lo rispetto? ho qualche
difficoltà a recepirlo, qualche problema al riguardo? E'
utilissimo chiarirsi a poco a poco il rapporto tra lectio
divina e decisioni significative.
-
Quale facilità o difficoltà trovo nel discernimento delle
mozioni contrarie alle scelte ragionevoli? Mozioni contrarie
sono, per esempio, la paura, l'antipatia, le ripugnanze, gli
incubi, oppure le infatuazioni, le esaltazioni, gli
entusiasmi superficiali, gli innamoramenti rapidi. Provo
facilità nel discernere le mozioni contrarie alle scelte
ragionevoli?
-
Come mi aiuta la comunione dei santi nel senso che
abbiamo espresso (la regola, l'abitudine, l'esempio degli
altri, le loro attese su di me)? mi aiuta in maniera
autentica o soltanto superficiale? ne colgo almeno il
valore?
-
Vi sono altre patologie del decidersi che vorrei fossero
discusse?
DIALOGO
Nel riflettere sui temi di cui ci stiamo occupando, mi
sembra possibile correre il rischio di parlare in termini
umani, razionali, aggiungendo poi, come giustapposto e quasi
"dovuto" il discorso teologico, il discorso su Gesù.
Come evitare tale rischio?
A mio avviso non esiste un modo di procedere obbligato. Si
può, infatti, partire da una notizia del giornale per andare
alla Bibbia e viceversa; si può partire da un'analisi
psicologica e poi cercare in quale modo essa si allarghi,
oppure dalla prospettiva di fede e vedere come si verifica
nel concreto.
Credo ci sia una sola regola a priori, per capire quale
debba essere il procedimento migliore: sforzarsi di essere
contemplativi nel nostro agire, di cogliere in ogni realtà e
in ogni avvenimento il mistero di Dio, così da parlare di
tutte le espressioni più umane e razionali della persona
leggendole in questa visuale; o di parlare del mistero di
Dio contemplandolo già inserito nella persona.
Si tratta di una sintesi che compiamo a poco a poco, e non
si può dimostrare, soltanto con un'analisi puramente
razionale, che la sintesi sia riuscita o meno. Penso, per
esempio, alla differenza che troviamo nell'enciclica papale Centesimus annus tra l'ultimo capitolo - dove è presentata
una visuale teologica - e i capitoli precedenti che
costituiscono un'analisi storica. Leggendo il documento
posso dire: i sociologi hanno collaborato alla prima parte,
offrendo delle indicazioni sulla società di mercato, e alla
fine è stata aggiunta una visione di fede profonda, che
permette di valutare gli eventi del 1989 in una certa
ottica, cogliendone il significato globale nel piano divino
di salvezza. Ma in realtà è un'attitudine di fede quella
con cui devo leggere l'enciclica, perché è certamente
quella nella quale è stata scritta e che mi aiuta a
contemplare il mistero di Dio. Se invece mi attardo a
distinguere, secondo la logica, tutti i passaggi, non
riuscirò a cogliere il carattere unitario del documento.
Al di là dunque del diverso modo espressivo, noi siamo
chiamati anzitutto a fare unità dentro di noi, per poter
dare l'interpretazione giusta e correggere le eventuali
riflessioni unilaterali. Nulla ci garantisce dallo
sbilanciarsi da una parte o dall'altra se non il ritornare
a una visuale contemplativa, che non è puramente teologica.
Confesso che, per un certo tempo, ho pensato fosse possibile
giungere a una visuale teologica così organica e così
completa da delineare e verbalizzare con assoluta chiarezza
gli elementi umanodivini. Ora però sono convinto che solo
il cuore, cioè la visuale interiore, permette di recuperare
sempre e comunque la globalità, anche quando il linguaggio
teologico, necessariamente analitico, distingue tempi,
aspetti, attenzioni. Se non vivo la dimensione
contemplativa, continuerò a trovare la giustapposizione.
Mi sembra importante tale affermazione, in quanto ci
permette di avere il retto quadro di lettura e insieme di
recuperare nella loro integrità pezzi apparentemente
distaccati dell'unico messaggio cristiano.
Ci sono, è vero, modi più o meno perfetti di arrivare a
questa sintesi. Teresa d'Avila, per esempio, ha una
capacità straordinaria di sintesi tra lo psicologico e il
soprannaturale, ma dobbiamo tener conto che i suoi scritti
sono il racconto di un'esperienza. Quando però si entra
maggiormente nell'esposizione teoretica, come fa Giovanni
della Croce, si possono distinguere i filosofumeni, i
concetti tratti dalla dottrina aristotelico-tomistica e le
esperienze propriamente mistiche.
Volendo dedicarci al lavoro della mente, dobbiamo accettare
che ci siano delle analisi con accentuazioni differenziate,
e non sempre potremo pretendere una sintesi globale, se non
l'abbiamo in noi stessi e se non la recuperiamo
continuamente. E' tuttavia molto affascinante questo tema
del rapporto tra visione globale contemplativa e singoli
aspetti dell'esperienza umana e della sua descrizione.
Potete avere qualche indicazione particolarmente
illuminante, riferendovi ai testi di Bernard Lonergan. Per
esempio, nel suo libro "Il metodo in teologia" - dove
distingue nella teologia otto specializzazioni funzionari -
cerca di cogliere il significato di un'analisi (che può
fare anche un non credente) del testo, della storia,
dell'interpretazione, di tutti gli aspetti
materiali-storici, analisi che li consideri però in unità
con l'aspetto più propriamente teologico, soprannaturale. Non è affatto facile
giungere a tale unità. Ci sono, di fatto, degli ottimi
specialisti di scienze neotestamentarie, magari non
credenti, che compiono un buonissimo lavoro settoriale, e
nient'altro; il credente, invece, pur facendo lo stesso
lavoro, lo realizza attraverso una visione unitaria di
fede.
Concludendo, vi invito a curare molto l'unità interiore
della vostra vita e della vostra azione, perché la realtà è
necessariamente analitica e frammentata. Non è importante
capire con chiarezza il collegamento tra impegni di tipo
materiale, manageriale, amministrativo e servizi di tipo
spirituale o teologico; l'importante è custodire in noi
quel "segreto interiore" che ci guiderà a far sì che le
nostre scelte - pur se sono le stesse di un non credente -
abbiano una determinata collocazione.
Mi ha colpito sentire che nella decisione conta la
ragionevolezza della decisione stessa più che le difficoltà
a essa collegate. Può approfondire questo concetto?
Con il termine ragionevolezza intendo quello che la
filosofia classica chiama il bonum, cioè lo scopo per cui
agisco. Se prendo una decisione, è sempre in vista di un
bene, un bene reale, non apparente; beni apparenti, la
ricerca dei quali può indurre a decidere, sono per esempio
le comodità, il quieto vivere per paura o pigrizia,
l'ottenere il favore degli altri.
Per la rettitudine della volontà è anzitutto necessario
collocare nel suo primato la ratio boni e allora tutte le
altre prospettive vengono considerate come ausiliarie o
addirittura contrarie o alternative.
Non è forse vero che l'educazione morale del bambino e del
fanciullo tende a fargli cogliere come esista una ragione
del bene che non è riducibile ad alcuna ragione di
vantaggio, di utilità, di successo, di piacere o di
dispiacere? Si gioca qui l'autenticità della coscienza
morale. E la conversione morale si ha quando l'uomo
comprende che ciò che conta è irriducibile alle sensazioni,
emozioni, possibilità inferiori rispetto a quell'assoluto
indiscutibile intuito che è la ragione del bene. Lo sforzo
dei genitori consiste nel far passare i figli dal desiderio
del premio, pur piccolo, o dalla paura del rimprovero alla
ragione di bene. Tale passaggio avviene tra i sette e i
quattordici anni, tuttavia comporta un cammino lungo, una
fatica che accompagna tutta l'esistenza.
Dunque, ho chiamato ragionevolezza la ragione che,
illuminata dalla fede, capisce ciò che è buono e che va
fatto per se stesso, in quanto è il riflesso del volto di
Dio nella realtà umana. Perciò san Tommaso afferma che in
ogni atto buono, l'uomo tende a Dio, lo cerca e, in qualche
modo, lo testimonia.
Può approfondire la quarta tipologia della decisione? In
particolare vorrei sapere, pensando concretamente a una
scelta vocazionale, quanto incide o dovrebbe incidere
l'atto di volontà, quindi l'autocandidatura del soggetto, e
quanto invece la chiamata del Signore, che è la componente
più trascendente della persona. Com'è possibile riconoscere
il dosaggio delle due componenti?
Di proposito ho soltanto accennato al quarto tipo di
decisione perché, a mio giudizio, si gioca nelle tipologie
precedenti. Se a un certo punto della vita si tematizza, non
è però possibile che questo avvenga attraverso uno 'sconto'
sulle prime tre tipologie. Il peso di una decisione,
infatti, non si gioca soltanto su alcuni atti specifici,
bensì su un orientamento al bene, al mistero di Dio, e su
una docilità allo Spirito che derivano dall'insieme delle
decisioni precedenti. La domanda tende tuttavia giustamente
a cogliere il problema nella sua specificità; in proposito
va tenuto presente il tema della libertà e della grazia. Il
dono della grazia crea e suscita la libertà, ed è questo il
punto di riferimento fondamentale. Parlare della grazia o
parlare della libertà è la stessa cosa, se abbiamo la
visione d'insieme. Posso insistere di più sulla decisione,
ma parlo sempre della grazia; posso parlare della grazia,
ma in quanto suscitatrice di libertà. E' quindi la
causalità fondamentale della libertà graziata o della
grazia liberante che viene messa in questione.
Una volta posto questo fondamento metafisico, la parte più o
meno appariscente degli atti viene distribuita a seconda dei
diversi soggetti e del diversi ambiti di decisione. Così,
nella decisione matrimoniale, occorrono le decisioni di due
soggetti che, in una visione di fede, si fondono in un unico
atto. E' richiesta certamente una chiamata fondamentale,
però si esprime soprattutto a livello di decisioni
esistenziali, perché non si può parlare di chiamata nello
stesso senso con cui si parla di vocazione al sacerdozio o
alla vita consacrata. E, tra l'altro, bisogna ancora
distinguere tra le ultime due chiamate; mentre in quella
alla vita di totale consacrazione è preponderante la serie
degli atti soggettivi con cui si arriva alla scelta, nella
chiamata al sacerdozio ha un ruolo molto importante, pur in
presenza degli atti soggettivi, la Chiesa locale, il
Vescovo.
Quale peso dare allora all'autocandidatura? Dipende dalla
chiamata. Concretamente la Chiesa, nel matrimonio, constata
l'autocandidatura delle due persone; nell'ordinazione
sacerdotale e, ancor più, nell'ordinazione episcopale, la
Chiesa non può limitarsi a questo.
In ogni caso è molto importante riconoscere quella sinergia
divino-umana, che ci permette di affidarci totalmente
all'azione della grazia e insieme di sentirci totalmente
responsabili dell'azione posta.
Tale dilemma, che a livello teoretico ha fatto discutere
per secoli i teologi, a livello pratico assume
accentuazioni diverse e, magari, successive. Nella mia
esperienza personale o in quella di altri, sottolineerò,
secondo l'intuizione del momento, più l'aspetto della
scelta personale, della responsabilità, del doversi
decidere, o più l'aspetto dell'affidamento, dell'abbandono,
dell'accoglienza dello Spirito santo.
Mi sembra davvero utilissima la regolai di non prendere
decisioni nel momento di desolazione, ma di fare riferimento
a quanto si è deciso in un momento di grazia, di
consolazione. Può tornare sull'argomento?
La regola è semplicissima, ma mi accorgo che, di fatto, è
spesso calpestata proprio perché la confusione mentale
impedisce, blocca, opprime, confonde, travolge. Bisogna
allora, con l'aiuto di Dio, sforzarsi di andare al di là di
sé, di compiere un atto di metalinguaggio chiedendosi: per
quale motivo sto vivendo questa esperienza? che senso ha
nella mia vita?
Con tale domanda sono già fuori, per così dire, dalla
desolazione, e comincio a intuire che quell'esperienza ha
il senso di provarmi, di purificarmi, di indicarmi che non
devo prendere nessuna decisione.
La capacità di autotrascendersi è davvero la salvezza nei
momenti confusi e difficili, ma di solito il Signore ci
permette di esercitarla pure in situazioni più semplici.
Quando, per esempio, ci irritiamo o ci logoriamo per un
problema, ci infuochiamo per una discussione, e tuttavia
riusciamo a dire a noi stessi: perché me la sto prendendo
tanto? che valore ha? magari ha valore, ma fino a un certo
punto. Allora vedo i limiti di ciò che sto vivendo.
Può chiarire il rapporto tra "lectio divina" e scelte
significative?
Prima di rispondere alla domanda, credo sia utile un breve
approfondimento sulla lectio stessa e su alcuni metodi per
esercitarla.
-
La mia preoccupazione è stata di capire in quale modo
fosse possibile mettere in pratica il capitolo VI della Dei Verbum, che chiede a tutti i cristiani di arrivare a una
conoscenza più profonda di Gesù Cristo attraverso la lettura
orante delle divine Scritture. E' un ideale pastorale
straordinario, da cui siamo ancora lontani, ma ho cercato
di dare delle regole minime semplicissime, abbastanza
ovvie, perché la gente cominciasse a compiere qualche passo
e a gustare la lectio divina. Non si gusta la Bibbia solo
sfarfalleggiando qua e là o leggendo un libro di
spiegazioni: la si gusta affrontandola coraggiosamente,
direttamente e arrivando a comprendere come in essa il
Signore mi parla e mi nutre. Allora il cammino verso la
familiarità con il mondo di Dio, avrà determinate regole,
ma sempre più libere; i metodi hanno un loro valido
significato, però non devono mai obbligare.
La spiritualità rabbinica, per esempio, sa trarre un
nutrimento formidabile dalle parole e gli esegeti, in
fondo, ricalcano un poco questa linea, cercando di spremere
il più possibile la parola. Così, il contatto con la carne
del Signore, viene mediato dalla parola, dalla ricerca dei
suoi sinonimi, dal ricorso a parole affini presenti in altre
pagine della Scrittura. Ricordo l'impressione che suscitò in
me un rabbino. Partecipavo a un seminario sui rotoli del Mar
Morto, all'Università di Munster, e leggevamo insieme, in
ebraico, la Regola della comunità; il rabbino, per ogni
parola, trovava immediatamente, a memoria, le referenze. Il
suo essere nella carne del Testo Sacro (per noi, nella
carne del Signore) era mediato da quella conoscenza
mnemonica straordinaria, per cui ogni parola acquistava
rilievo confrontandola con un'altra.
Noi ci sentiamo dispensati da un tale lavoro, perché
abbiamo le concordanze, ma la luce che ci viene dal trovare
noi il contesto in cui ricorre la parola uguale a quella
che stiamo leggendo, è preziosissima.
Altre persone, invece, usano, nell'accostamento alla
Bibbia, la fantasia, l'immaginazione (è la cosiddetta
composizione di luogo).
Per quanto riguarda la riflessione di S. Ignazio di Loyola
sulla applicazione dei sensi (cf Esercizi Spirituali nn.
121-125), ho scoperto che davvero può farci assaporare il
mistero di Dio, che possiamo essere nutriti dalla Parola
attraverso l'esperienza del respiro spirituale, del gusto
interiore di Dio.
Ma la lectio divina, dicevo sopra, è un cammino mai
compiuto, e vorrei accennare alla tappa cui si può giungere
dopo averne praticato fedelmente e per lungo tempo
l'esercizio. Il testo comincia a dire molto meno, non lo si
gusta più e si entra nell'oscurità, nell'aridità, nella
desolazione, nell'incapacità a esprimere pensieri buoni. E'
questo il momento importante del passaggio a una lectio più
approfondita, che si nutre ormai della carne di Cristo.
Giovanni della Croce e Teresa d'Avila descrivono molto tali
esperienze mediante le immagini della notte oscura del
sensi, della notte dello spirito, della sorgente che,
zampillando di notte, non può essere vista. Siamo sempre
nella strada della lectio, ma le regole sono venute meno per
dare posto al gusto misterioso, non percepito dai sensi,
di Dio.
-
Ora ci chiediamo: quale relazione esiste dunque tra la lectio divina e le decisioni?
La risposta è facile: una relazione molteplice come
molteplice è la lectio.
All'inizio è fondamentale insegnare ai principianti
l'opportunità di terminare la lettura orante di un brano
prendendo qualche deliberazione concreta. In tal modo il
principiante capisce che lo scopo di meditare sul Vangelo o
su una pagina dell'Antico Testamento è il cambiamento della
vita, il compiere gesti reali.
A mano a mano che si procede nel cammino, però, il frutto
sarà un atteggiamento evangelico che informa tutta
l'esistenza, e qui vediamo la relazione tra lectio divina e
decisioni significative. Nella misura in cui ci affezioniamo
al modo di vivere di Cristo, alla sua scelta di povertà, di
umiltà, di obbedienza, di primato del Regno, le nostre
scelte non potranno che essere consequenziali.
La scelta, quindi, non deriva tanto dalla lectio, quasi come
deduzione; dalla lectio deriva quella "sublime conoscenza di
Gesù" che è conoscenza del suo modo di essere Dio-uomo.
Perché l'Incarnazione avviene mediante modalità storiche
che vanno assimilate per conoscere davvero questo Gesù che
così ha predicato, così ha vissuto, così ha agito, così è
morto.
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Un'ultima osservazione sulla Parola di Dio in quanto dono.
Mentre all'inizio della lectio predomina l'azione propria, e
la Parola su cui mi esercito, i fatti di cui mi parla sono
il dono per me, a un dato punto del cammino percepisco che
non essi, bensì Dio stesso che mi si comunica è il vero
dono. Un dono che afferra la mia esistenza e che mi
determina sempre più come qualcosa che viene dall'alto.
Recepisco esistenzialmente che il Signore mi nutre e
sperimento ciò che il popolo ha vissuto nel momento della
distribuzione dei pani.
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Carlo Maria Martini,
testimone del nostro tempo. dopo il suo servizio
reso alla diocesi di Milano, è ora a Gerusalemme
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