Gerusalemme
12 marzo 2003
Sono
passati sei mesi da quando ho terminato il ministero attivo come
Arcivescovo e in molti mi domandano, anche solo implicitamente, le
ragioni del silenzio "sabbatico" tenuto in questo
periodo, invitandomi a romperlo in qualche occasione particolare.
Vorrei
anzitutto precisare che non si tratta di un silenzio che si
potrebbe un po' definire come "dispettoso" (cioè di chi
si tira fuori dai problemi con senso di superiorità o di
sufficienza), né del silenzio detto "ossequioso",
quello cioè di chi ha paura di disturbare autorità politiche o
ecclesiastiche: si tratta di un silenzio che vorrei definire
"rispettoso", che tiene conto cioè della mia nuova
situazione di vita, del mio abitare in parte a Roma e in parte a
Gerusalemme e degli equilibri delicati che tutto ciò comporta. Ma
vorrei definirlo al meglio un silenzio "sabbatico",
ricordando quelle parole che noi sacerdoti anziani citiamo ancora
della Bibbia latina "sabbato quidem siluerunt secundum
mandatum" (Lc 23, 56) dove la Bibbia della C.E.I. traduce
"il giorno di sabato osservarono il riposo, secondo il
comandamento", che è poi quel medesimo antico
comandamento che impone, per la sanità stessa dell'uomo e in
ordine al servizio dell'Altissimo, l'alternarsi di lavoro e di
riposo, e quindi anche di parola e di pause di silenzio.
Ma
vi sono pure occasioni e situazioni che invitano a fare eccezione
a questa regola, per ragioni gravi. E
terribilmente grave è certamente la situazione delle attuali
minacce alla pace e delle violazioni della pace,
messe in questi giorni ancora più in rilievo da
grandi
e corali desideri di pace.
Ci
si deve certamente rallegrare di questa grande, spontanea,
diffusa, praticamente unanime volontà
di pace. Vi è in essa un riflesso del desiderio di quella
pace che è dono di Dio, della pace offerta a Betlemme agli uomini
che Dio ama. Questa volontà e questa ansia di pace, che
totalmente condividiamo, ci spingono però a ricordare tre cose.
La
prima è che la
pace ha un costo.
Mi diceva un amico qualche tempo fa, parlando della sua esperienza
come straniero in una società travagliata da conflitti: questa
società, nelle sue espressioni migliori, vuole sinceramente la
pace, ma non sa decidersi a pagarne il prezzo. Va infatti
ricordato che persino quel
fiore raro e prezioso del Vangelo che talora viene chiamato (con
una semplificazione terminologica) "non violenza",
ha un prezzo preciso: "a chi ti vuole chiamare in
giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il
mantello" (Mt 5, 40). Ciò significa che bisogna essere
disposti a pagare un prezzo e a rinunciare anche a qualcosa a cui
si avrebbe pure diritto.
Non
basta dunque invocare la pace: bisogna essere disposti a sacrificare
anche qualcosa di proprio
per questo grande bene, e non solo a livello personale ma pure a
livello di gruppo, di popolo, di nazione.
Una
seconda cosa che menzionerei è che la
pace non è mai un edificio solido,
costruito compatto una volta per tutte, ma somiglia piuttosto ad
una tenda, ad un castello di sabbia, da custodire e da ricostruire
sempre con infinita pazienza ("settanta volte sette"
direbbe Gesù, cfr Mt 18, 22).
In
altre parole, non è sufficiente rifarsi soltanto a considerazioni
etico-politiche (chi ha ragione, chi ha torto, chi è
l'aggressore, chi è l'aggredito, l'uso della legittima difesa,
l'eventuale possibilità di una guerra giusta ecc.). Occorre avere
il coraggio di
proclamazioni profetiche,
che tengano conto della precarietà e peccaminosità della
situazione umana storica.
Infatti la prima e perenne difficoltà nella costruzione della
pace nella città degli uomini risiede in un dato antropologico
che la Bibbia ricorda fin dalle prime pagine e cioè che
"l'istinto del cuore umano è incline al male fin dalla
adolescenza" (Gen 8, 21).
Ogni
volontà costruttiva della pace si scontra con la ineludibile
aggressività umana, col desiderio insito in tanti di noi, persone
e gruppi, di possedere ciò che è dell'altro, di avere più
dell'altro, meglio dell'altro, togliendolo, se non c'è altro
mezzo, anche con la forza. Tutto ciò costituisce una dimensione
tragica dell'esistenza che non è lecito ignorare, fare come se
non esistesse. In questo senso la sola e astratta sollecitazione
di atteggiamenti belli ma carichi di utopia, senza inserirli nel
contesto reale della struttura, dei bisogni e delle miserie umane,
minaccia alla fine la causa stessa della pace. Non per niente una
delle tradizioni bibliche più antiche dice che la prima città fu
fondata da Caino, allo scopo certamente anche di contenere e
arginare quelle aggressioni scatenate che alla
fine avrebbero potuto uccidere lo stesso Caino (cfr Gen 4, 17).
Il
conflitto, l'uso della forza, la possibilità dello scatenarsi
della violenza, sono dati di cui si deve tener conto nel
programmare la vicenda umana, ciò che è compito soprattutto dei
politici.
È
perciò inevitabile, per la
pace di questo mondo, ideale sommo e sempre da perseguire con
indomito coraggio,
ritessere continuamente le fila di una concordia che non si illuda
di sradicare del tutto l'aggressività, ma che si proponga il
compito, più modesto ma insieme più realistico, di moderarla
fino al punto da preferire talora anche un compromesso, in cui
ciascuno debba concedere qualcosa a cui avrebbe teoricamente
diritto, in vista del superamento di una litigiosità violenta e
senza fine. Si tratta cioè di superare il solo punto di vista
etico-politico per accedere a quel profetico "porgi l'altra
guancia" (cfr Mt 5, 39) che non crediamo sia così utopico
come sembrerebbe a prima vista.
La
difficoltà perenne di una politica
della pace (che sarà sempre una pace fragile e minacciata)
sarà infatti proprio nella determinazione del punto di equilibrio
tra le ragioni delle parti in causa e le possibilità pratiche di
gestirle senza conflitto violento, in una sana dialettica che
conduca tutti i contendenti alla rinuncia di qualcosa di proprio
in vista della ricerca del maggior bene comune concretamente
realizzabile qui e ora.
La
terza verità da ricordare è che, per tutti i motivi detti sopra,
una pace seria e duratura, là dove persistono ragioni gravi di
conflitto, ha sempre un po' del "miracoloso",
dell'improbabile, del "dono dall'alto" ("Vi do la
mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi", Gv 14,
27) e perciò chi
crede in Dio la deve chiedere nella preghiera
con tutte le forze e
anche chi non crede la deve invocare dal fondo della propria
coscienza pronto a sacrificarsi con tutto se stesso.
Occorre
cercare la pace possibile e intercedere per essa con quella
instancabilità con cui pregava Gesù nell'orto degli Ulivi
"ripetendo le stesse parole" (Mt 26, 44), con quella
costanza, perseveranza, creatività e tenacia di cui ci dà
esempio Papa Giovanni Paolo II. Come afferma il Concilio Vaticano
II, la pace (che è molto di più che non l'assenza di guerra o la
presenza di un fragile armistizio) è il dono che va invocato e
ricercato con l'aiuto di tutti: "La pace terrena che
nasce dall'amore del prossimo, è immagine ed effetto della pace
di Cristo, che promana da Dio Padre" (Gaudium et spes, n.
77).
Di
qui si può anche intendere il senso vero e profondo del famoso e
sapiente detto biblico "opus iustitiae pax" (cfr Is 32,
7): "effetto della giustizia sarà la pace". Sì, la
pace non può che essere frutto della giustizia,
ma la pace di questo mondo non sarà soltanto il risultato di una
giustizia mondana perfetta, che non si avrebbe mai nelle attuali
aggrovigliate condizioni storiche, ma frutto di quella giustizia
che è al momento ottenibile anche a prezzo di sacrifici e rinunce
di singoli e di gruppi in vista di un bene comune più alto e
condiviso. La pace perciò alla fine è opera di una giustizia
che partecipa della giustizia divina, di una giustizia cioè che
è anche perdonante, misericordiosa, riabilitante, capace di
dimenticare i torti subiti.
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Oggi sembra così
difficile aspirare ad un mondo di Pace e di giustizia. Sembra utopia.
Come durante la guerra fredda. Ma proprio in quel
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la "Pacem
in Terris"... |
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