Le dieci caratteristiche della 

personalità nonviolenta

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1. Ripudio della violenza

“Quando capiremo i morti, finirà l’odio”

(Don Primo Mazzolari)

 Una persona nonviolenta è una persona la quale ha profondamente interiorizzato una norma morale che proibisce il ricorso alla violenza. Una persona non violenta rifiuta quella nozione per cui la violenza viene identificata con la violenza fisica, l’inflizione intenzionale di sofferenza psicologica e la violenza passiva.

 

                                                                                            (LEGGI: Lc 6,27-35; Gv 15,18-27)

 

2. La capacità di identificare la violenza

 

E’ proprio della personalità nonviolenta avere la capacità di individuare la violenza a tutti i livelli, da quello personale a quello istituzionale, da quello individuale a quello strutturale, da quello internazionale a quello intergenerazionale. Vi è la violenza che commettiamo contro noi stessi, la violenza nelle famiglie, nella scuola, sulle strade, sui posti di lavoro; violenza connessa con strutture e pratiche sociali, violenza verbale, televisiva, nelle carceri, contro gli immigrati… violenza nei rapporti Nord/Sud a livello globale, la violenza della povertà e miseria su milioni e milioni di uomini e donne.

La capacità di individuare queste e altre forme di violenza è essenziale perché senza di essa il ripudio della violenza non ha materiale su cui esercitarsi pienamente. Non soltanto denunciare queste violenze, ma anche favorire attivamente quelle riforme sociali, economiche e politiche ritenute necessarie a diminuire il più possibile tutte queste violenze nel mondo.

 

                                                                 (LEGGI: Mt 18, 23-34; Lc 13, 31-33; Lc 16, 19-31)

 

3. L’empatia

 

Una qualità essenziale della personalità nonviolenta è una sviluppata capacità di identificazione con gli altri, e in primo luogo con i più deboli, gli indifesi, quelli che soffrono di più, le vittime dei soprusi, delle ingiustizie, delle strutture inique. Non soltanto sapere che soffrono. Si può infatti sapere che uno può soffrire senza per questo identificarsi con la sua sofferenza. Sapere che uno soffre comporta immaginare di essere se stesso nella situazione di quella persona, con le preferenze di quella persona. E’ necessario mettersi dal loro punto di vista ed avere un desiderio non soltanto di non trovarsi al loro posto soffrendo come loro, bensì avere un desiderio che la sofferenza di chi soffre cessi il più presto possibile. L’empatia è dunque conoscenza più identificazione.

 

                                                                        (LEGGI: Mt 14, 13-21; Mc 1, 40-45; Mt 8, 1-4)

 

4. Il rifiuto dell’autorità

 

Non accettare una morale formalistica ed in particolar modo di non riconoscere alcuna altra autorità come autorità legittima de jure. Ne segue che per la personalità nonviolenta non vi è qualcosa come uno speciale obbligo morale di obbedienza allo stato, alla legge vigente per il semplice fatto che si tratta di legge in vigore, e più in generale ai comandi di qualsiasi autorità per il semplice fatto che si tratta di una autorità e senza prendere in considerazione il contenuto di questi ordini. La persona non violenta fa dunque propria la massima di Don Milani: l’obbedienza non è più una virtù. Certamente un individuo fornito di personalità nonviolenta obbedirà, di regola alla legge, almeno laddove la legge è il risultato di un processo democratico ed egli la consideri giusta; e potrà anche in via più generale ritenere che la legge vigente deve, di regola, essere rispettata, per ragioni aventi a che fare con il benessere generale nella società. Ma, appunto, in base alle stesse ragioni potrà anche giustificare, in determinate condizioni, atti di disobbedienza o di insubordinazione civile e nonviolenta.

 

       (LEGGI: Lc 14, 1-6; Mt 6, 24; Lc 20, 20-26; Mc 2,23-28)

 

5. La fiducia negli altri

 

E’ importante che la personalità nonviolenta abbia la capacità di individuare obiettivi che le parti convolte in un conflitto sono interessate a realizzare e la cui realizzazione richiede forme di comunicazione e collaborazione tra di esse. L’individuo rifiuta il concetto stesso di nemico e lo sostituisce con quello di oppositore per cui il gruppo con cui si è in conflitto è visto come composto di individui capaci di ascoltare con ragione e di reagire in modo umano ove siano messi sistematicamente di fronte a comportamenti genuinamente nonviolenti da parte di gruppi o di persone che abbiamo le qualità proprie della personalità nonviolenta.

Uno dei principi fondamentali della nonviolenza è appunto quello che prescrive di impostare la conduzione di un conflitto in modo tale da fare appello ai lati migliori di coloro che ci si trova di fronte come oppositori, usando tecniche di lotta volte ad ingenerare in un numero sempre maggiore di individui che costituiscono il gruppo oppositore, una crescente fiducia nei confronti del gruppo nonviolento. Si tratta di un continuo tentativo di sostituire la spirale della sfiducia, propria della logica della violenza, con la spirale della fiducia.

 

  (LEGGI: Lc 8,40-56; Mc 7,24-30; Mt 8, 5-13)

 

6. La capacità di dialogare

 

Una ulteriore, essenziale qualità propria della personalità nonviolenta è quella di avere una capacità di e una disposizione a dialogare, disposizione a sua volta strettamente legata ad un’altra qualità della personalità nonviolenta: la pazienza.

Il principio di partenza della personalità disposta al dialogo è il fallibilismo. Questo principio ci dice che siamo tutti esseri mortali con poteri di conoscenza limitati onde nessuno può mai dirsi sicuro che quello che in un certo momento crede essere vero, in effetto sia tale. I nostri giudizi possono infatti essere distorti dai nostri piccoli interessi egoistici, o fondati su informazioni incomplete. Essere fallibilista significa essere cosciente che le “mie ragioni” non sono mai cnclusive”. Un individuo fornito di una personalità nonviolenta non esclude a priori la possibilità di aver torto e l’avversario ragione. Per questo esso rifiuta metodi di conduzione di conflitti che comportano la distruzione dell’avversario.

Il fallibilismo abbraccia anche le credenze religiose. Gandhi insegnava “ad avere per tutte le fedi religiose degli altri lo stesso rispetto che nutriamo per la nostra, riconoscendo così che anch’essa è imperfetta”. La sua costante preghiera era che il cristiano diventasse miglior cristiano, il mussulmano un miglior mussulmano, e così per ogni altra religione. Per Gandhi il credente deve imparare a capire che Dio è esperienze diverse per diverse persone. Deve soprattutto imparare a capire che ai milioni di diseredati, di disoccupati e di affamati nel mondo, “Dio può solo apparire come pane e burro”.

L’interiorizzazione del principio del fallibilismo è dunque uno dei migliori vaccini contro tutte le forme di fanatismo e costituisce un grande incentivo alla tolleranza (= prendere sul serio le credenze di coloro che la pensano diversamente da noi, sforzarsi di capire e di esaminare spassionatamente gli argomenti che possono essere addotti a loro favore. Il contrario del fallibilismo è il dogmatismo.

 

                                                                                                                    (LEGGI: Gv 4,1-42)

 

7. La mitezza

 

Una persona fornita di una personalità nonviolenta non è fuori dalla lotta politica, ma è piuttosto una persona che vi partecipa in certi modi. Non è una persona che rifugge dai conflitti, anzi, in certe occasioni ne può creare o portare in superficie di quelli che sono latenti. Non rifiuta necessariamente né il potere né la forza, perché ritiene sia perfettamente sensibile distinguere tra potere e forza violenti e potere e forza nonviolenti. Rifiuta la dicotomia vincitore e vinto, amico-nemico, e le rifiuta perché sono esse stesse produttrici di mentalità e atteggiamenti e azioni violente. Preferisce parlare di oppositori, o delle parti coinvolte nel conflitto, e mira sempre ad impostare, sin dall’inizio, i conflitti in modo tale che non siano né vinti né vincitori.

La mitezza, richiede qualità che, nella logica della nonviolenza, sono molto importanti e che sono riassumibili in una disposizione a non fare atti di un certo tipo: a non serbare rancore, a non nutrire odio, a non avere astio, a non desiderare il male dell’altro, a non essere vendicativo, a non volersi imporre sull’altro, Queste qualità sono necessarie per poter astenersi dall’uso della violenza.

 

  (LEGGI: Mt 9,10-13; Gv 13,1-20; Mc 10,41-45; Lc 17,7-10)

 

8. Il coraggio

 

Nel contesto di una personalità nonviolenta, il coraggio è da intendersi come una disposizione a prendere posizione, a star saldi su di essa; una disposizione alla fermezza, a superare o tenere sotto controllo la paura, a correre rischi e in certe situazioni significa anche rischiare la propria vita. Il coraggio è una qualità desiderabile quando accoppiato a tutte le altre nove qualità proprie della personalità nonviolenta. Gandhi disse più volte di preferire la violenza di chi coraggiosamente difende se stesso e i deboli fatti oggetto di aggressione violenta, alla passività di chi si sottomette per paura o codardia.

“Preferirei che l’India ricorresse alle armi per difendere il suo onore piuttosto che, in modo codardo, divenisse o rimanesse testimone impotente del proprio disonore”. Ma additava ai compatrioti la “nonviolenza del forte” che – diceva – “possono praticare soltanto coloro che non hanno paura né per i loro averi, né per il loro prestigio né per i loro familiari, e non temono né il governo, né le sofferenze fisiche, né la morte”. Un siffatto coraggio non è probabilmente possibile senza una certa misura di “distacco” sia nei confronti di se stesso e dei propri beni, sia nei confronti di coloro che ci sono più vicini per legami di affetto.

 

                                                                                                (LEGGI: Mt 10,26-33; Lc 9,1-6)

 

9. L’abnegazione

 

Questa qualità viene qui intesa come una disposizione a fare sacrifici, anche notevoli. Nella lotta volta a realizzare determinati obiettivi comuni viene richiesto il massimo sacrificio di sé per la causa di un tutto organico: il partito, lo stato, la nazione, la razza… Essa non sempre è una virtù: se lo sia o meno dipende dal tipo di situazione in cui si manifesta e dalle qualità con cui si accompagna. Per quanto riguarda la personalità nonviolenta, l’abnegazione si sobbarca dei sacrifici che sono necessari al fine di minimizzare le sofferenze che i conflitti e le lotte in cui ci si trova a partecipare comportano per il gruppo oppositore: “la dottrina della violenza riguarda solo l’offesa arrecata ad una persona ai danni di un’altra. Soffrire l’offesa nella propria persona, al contrario, fa parte dell’essenza della nonviolenza e costituisce l’alternativa alla violenza contro il prossimo”.

                                                                                                                             

         (LEGGI: Mc 8,34-9,1; Mt 5,23.38-42; Lc 17,3-4)

 

10. La pazienza

 

La personalità nonviolenta non fa le cose in fretta (Mit Zeit) e male o pressappoco. E’ capace di aspettare, non si lascia scoraggiare, avvilire, abbattere se non vede risultati qui, ora e subito. Sa che da determinati certi fini, soltanto certi mezzi conducono ad essi e che i fini cui tende la nonviolenza sono perseguibili con mezzi, l’impiego dei quali richiede pazienza. Avere pazienza nella conduzione di conflitti in modo nonviolento, significa avere una disposizione a non ricorrere ai metodi di lotta nonviolenta più radicali prima di aver sondato le possibilità di condurre il conflitto ad una soluzione accettabile da tutte le parti attraverso metodi di lotta meno radicali.

Significa anche essere disposti a giungere a compromessi quando si tratti di obiettivi che non sono di importanza vitale. Gandhi diceva che una delle cose che nelle sue lunghe lotte nonviolente aveva scoperto era la “bellezza del compromesso”. Ma si tratta del compromesso fondato sul fallibilismo per cui non si può mai essere certi che gli obiettivi per cui lottiamo siano “in tutto e per tutto giusti”. “Sono un uomo essenzialmente incline al compromesso perché non sono mai sicuro di essere nel vero”, diceva Gandhi.

 

  (LEGGI: Lc 6,46-49; Mt 7,1-5)