Dalla pace della coscienza alla coscienza della pace

Convivenza GIM  di fine anno ad Azergrande

28 dicembre 2002 -1° gennaio 2003

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                    CONVIVENZA GIM DI FINE ANNO A FAENZA

Un grande segno di pace è anche l’accoglienza, e certamente si può dire che Arzergrande è un paese favoloso per questo aspetto. Con pochissimo preavviso molti abitanti della zona si sono resi disponibili ad ospitare noi giovani. Le uniche notizie che avevano avuto erano che sarebbero arrivati i ragazzi del GIM, forse senza neanche sapere cosa volesse dire. Molto piacevole è stata la sensazione di ospitalità che abbiamo avuto all’entrata in paese. Ad aspettarci c’era il gruppo giovani della parrocchia e poi, un po’ alla volta, sono arrivate quelle che sarebbero state le nostre famiglie per cinque giorni. Personalmente abbiamo sentito la famiglia molto vicina, ci sembrava quasi di essere a casa, per quei giorni è stato come avere altri tre fratelli, una seconda mamma, un secondo papà e addirittura abbiamo trovato anche un nonno e una nonna. Crediamo che non servano ulteriori descrizioni per esprimere la nostra gioia, che senz’altro è la stessa che anche gli altri gimmini hanno provato nelle loro famiglie.

 Il senso di comunità che si respirava sin dall’inizio ci ha portato a fare il nostro cammino con serenità. Le nostre giornate sono state contrassegnate dalla speciale presenza di due testimoni che ci hanno aiutato ad allontanarci dalla pace della coscienza per impegnarci di più per la vera PACE.

Mons. Bettazzi (Vescovo di Ivrea ed ex presidente di Pax Christi) ha ricordato i contenuti e il contesto storico del Concilio Vaticano II, mostrandoci i primi passi della Chiesa nell’apertura verso il mondo, segnati dall’ enciclica  Pacem in terris (1963).

Il giorno dopo don Alessandro Santoro, parroco della comunità di base di Piagge (FI), ha condiviso con noi il suo punto di vista ”sovversivo”. La Chiesa - ci ha detto- è un segno, un modo per cercare un sogno, un cammino piuttosto che un punto di arrivo. Ci ha spinti a smontare il concetto di “dentro e fuori dalla Chiesa”, da un gruppo, o da una istituzione, ci ha spinti a buttare giù le mura, rompere i confini inutili che servono solo ad escludere.

Tutti  ne siamo stati colpiti:  impressionati e chiamati in causa.

La strada, la verità che ci è stata proposta in quei giorni, non è preconfezionata, quella per cui si fanno le guerre o quella da imporre agli altri, ai diversi. La verità è il valore dell’essere umano e va cercata in tutte le persone. E lo scopo del cristiano, di chi vuole vivere il sogno di Gesù, è coltivare il seme della spiritualità e aiutare ogni uomo in questo cammino. Cosa ci importa della religiosità? Vogliamo arrivare alla FEDE, alla VITA!

 

Il 31 mattina siamo andati a due a due a portare un saluto e un augurio di PACE per le case del paese ed abbiamo ancora una volta assaporato l’accoglienza. Qualche difficoltà e qualche porta chiusa ci sono state, però proprio di fronte a queste fatiche abbiamo scoperto che ci è stato offerto un grandissimo dono e che non dobbiamo chiedere o aspettarci nulla in cambio.

Con questo spirito, al pomeriggio siamo andati a portare un po’ di allegria e di auguri in una vicina casa di riposo.     

Alla sera ci siamo raccolti nella veglia di preghiera, a cui hanno partecipato anche alcune persone del paese. “Non spegnete lo spirito, non disprezzate le profezie” (1Ts 5,19-20).

Per aiutarci a diffondere la luce, nonostante i numerosi segni negativi e di buio che ci sono nella società e nel mondo, abbiamo ricordato alcuni profeti del nostro tempo: Ezechiele Ramin, Oscar Romero, Gandhi, Primo Mazzolari, Sankara, Tonino Bello.

Abbiamo riflettuto ripensando all’anno appena trascorso, e ciascuno di noi ha individuato e condiviso un impegno per il nuovo anno.

Dopo un’esperienza così intensa, la nostra sfida sarà liberarci da schemi rigidi per cercare di essere non solo cristiani, ma postcristiani, cioè cercare di andare oltre a tutte le mura , non accettare le differenze tra gli uomini e camminare insieme.

 

                                                                                                                        Anna e Sara 

 

DISCORSO DI MONS. BETTAZZI AD ARZERGRANDE IN OCCASIONE DELLA CONVIVENZA DEL GIM.

 

Mi scuserete se parto dall’enciclica di papa Giovanni XXIII Pacem in Terris.

Quest’anno Papa Giovanni Paolo II ha annunciato che il tema della giornata mondiale della pace saranno i quarant’anni della Pacem in Terris.

Perché fu così importante questa enciclica?

11 aprile 1963. Fu importante perché per la prima volta un papa non faceva un enciclica solo un tema religioso ma su un tema umano, la pace. Segna un crinale nella storia della Chiesa.

La pace, era la pace dell’impero della Chiesa. Costantino disse che la religione Cristiana è la religione dell’impero. La pace è la pace dell’impero, e la chiesa appoggia la pace dell’impero. Chi va contro la Chiesa va contro la Chiesa. Adesso i musulmani dicono “Tu non sei musulmano ed io ti faccio fuori”. Tu non sei cristiano, ed io ti faccio una guerra Santa.

Perfino all’interno della Chiesa se uno era eretico lo bruciavamo, così impara.

Nelle valli di Lanzo (sopra Torino) in due secoli Chiesa. E allora guardate tutti i concordati che si facevano, servivano solo a garantire la Chiesa.

Papa Giovanni XXIII dice la Pace, non la pace cristiana, la pace per tutti.

Le encicliche dei papi sono rivolte ai cristiani, cardinali, vescovi, preti, suore, e lui aggiunge agli uomini di buona volontà. Queste cose le dico per la mia fede, ma le dico in modo, che anche chi non è cristiano le possa capire con la ragione.

C’era stata la crisi di Cuba dove Fidel Castro era riuscito a mandar via il dittatore Batista, che era andato con tutti i suoi in Florida (infatti sono ancora lì tutti gli esuli di Cuba) i quali nel 1962 avevano tentato uno sbarco con l’aiuto dell’America. Fidel Castro riuscì a buttarli mare

La Russia con un certo Kurniskov aiutò Cuba mettendo dei missili contro l’America e Kennedy disse: o fermi i missili o bombardo Cuba. Lui non poteva fermare i missili altrimenti faceva vedere che aveva paura dell’America. E l’America avrebbe bombardato altrimenti faceva vedere che aveva paura. Ormai non potevano più tirarsi indietro. Nell’ autunno del 1962 il papa fece un appello dicendo che la gente non vuole la guerra ma vuole la pace. Allora fu facile per Kennedy perché disse per la Russia no, ma per il papa mi fermo e lo stesso valse per la Russia. Fu così colpito papa Giovanni di essere stato uno strumento di pace che pensò a questa enciclica.

Il concilio fu aperto l’11 ottobre del ’62. io sono arrivato al concilio nell’autunno del 1963.

Fu importante per la Chiesa la Pacem in Terris e fu importante anche per il mondo perché allora essere pacifisti significava essere di sinistra, ancora adesso un po’.

La Russi aveva perso trenta milioni di uomini in guerra e aveva una paura matta che l’Occidente continuasse e allora sbandierava le colombe della pace: premio Lenin della Pace…

Siamo in democrazia e con la democrazia vogliamo ottenere quello che vogliamo. Vogliamo fare la guerra, proviamo con la democrazia.

Ricordo Regan che era repubblicano appoggiato dalle grandi industrie, e le industrie ci guadagno un sacco di soldi anche perché le armi devi consumarle e devi provarne sempre di nuove, più avanzate.

Adesso vanno a vedere se la Corea e Saddam hanno le armi di distruzione di massa. Le prime le abbiamo provate noi: Hiroshima Nagasaki 200.000 mila morti.

Appena appena uno appoggiava la pace veniva definito comunista, appoggia la Russia.

Dopo che il papa fece una enciclica sulla pace si potè parlare di pace più tranquillamente.

Anche perché papa Giovanni disse: guardate che la pace poggia su quattro grandi pilastri: amore verità giustizia e la libertà. Li disse in modo che anche chi non ha la fede cristiana, con la ragione fosse d’accordo lo stesso.

Diceva Papa Giovanni, “andate e mangiate quello che vi mettono davanti cioè siate amici, e poi  quando siete diventate amici curate gli ammalati.

Come Gesù che dopo trent’anni che aveva fatto il falegname va predicare il vangelo per tre anni.

E quando la gente dice: ma come, in mondo in cui ognuno fa gli affari suoi tutto si fa per interesse e tu lo fai per disinteresse, ma come mai? Ah, ah rispose lui, questo è il regno di Dio.Io credo che la pace sia partire dalla vita della gente, vivere i loro problemi.

Questo è quello che il Signore vuole.

CI verrebbe da dire che per la verità si fanno le guerre: Tu non hai la verità ed io ti faccio fuori, la mia verità e più vera della tua.

Le discriminazioni sono all’ordine del giorno: guardate le donne che piantano per terra, perché adultere, con la testa fuori e le tirano sassi finchè non muore. E l’uomo? Ah niente lui è uomo.

Guardate i processi in America, ci sono delle regole per cui chi ha i soldi riesce a comprare il bravo avvocato per evitare così di essere condannato. In America I neri sono il 5% ma tra i condannati a morte sono il 45%.

Rendiamoci conto che in pratica noi discriminiamo le persone.

La verità io credo sia il riconoscimento del valore di ogni singolo essere umano in quanto essere umano.

 Il Signore è venuto al mondo per dirci: “Qui dobbiamo vivere da fratelli”.

La solidarietà è un atto di fede, ma è anche un atto di intelligenza. Se io faccio crescere la parte di mondo povero, allora faccio in modo che quella gente entri in rapporto con me.

Io credo che se si fosse speso un decimo di quello che si è speso per la guerra per guarire le malattie, le carestie, avremmo risolti i problemi.

Diciamo di essere paladini della libertà, ma non ci accorgiamo che lottiamo per la nostra libertà e non per la Libertà.

Ho stima dell’America perché li c’è libertà di stampa e quindi li le cose le criticano.

I miei amici di Pax Cristi in Belgio dicevano: è come mettere una libera volpe in un libero pollaio.

È difficile essere del tutto per la libertà.

Io la libertà la identifico con la non violenza.

Il perdono per me è la non violenza.

Noi paesi ricchi crediamo nella violenza perché la violenza  vince sui poveri mentre con la non violenza potrebbero venir fuori anche i paesi poveri. Mi chiedo perché dopo l’11 settembre Bush anziché coinvolgere il mondo per la pace l’abbia coinvolto per la guerra.

Gandhi con la non violenza ha ottenuto l’indipendenza dell’India.

Diceva Gandhi: non mi sono mai fatto cristiano perché ho visto quanto poco i cristiani mettano in pratica il vangelo.

La non violenza è agire in modo che anche l’altro smetta la violenza.

Dovremmo usare la nostra intelligenza perché anche gli altri smettano la violenza.

Tutte le religioni devono firmare che non si può usare la fede in Dio per usare la violenza, perché Dio ci ha dato la ragione. La violenza è degli animali. La violenza è animalesca.

Dio ci ha fatto ad immagine e somiglianza.

L’immagine e la somiglianza di Dio non è l’individuo e basta, ma è l’individuo aperto all’altro (maschio e femmina li creò).

La pace vera non è l’annullamento di tutti, ma è la convivialità delle differenze.

Neanche Dio è individualista perché è in tre persone.

Siamo in un mondo dove conosciamo tutto di tutti, ma proprio per questo motivo non riusciamo a pensare. E chi ha in mano il potere cerca di farci conoscere tutto ma non di farci pensare. Perché se pensiamo scopriamo qualcosa che non funziona.

 

 

 

 
"Don Alessandro Santoro è un prete operaio che vive da alcuni anni nella periferia di Firenze, in una zona dimenticata che la diocesi gli ha affidato. Gli abbiamo chiesto, a partire dalla sua esperienza, una riflessione sulla chiesa che conosce e sulla chiesa che sogna.
Il GIM sta coltivando un rapporto di amicizia intenso con don Alessandro e la sua comunità di base alle Piagge (Firenze); in più occasioni ci siamo incontrati e ci incontreremo, perchè la rete di comunità che dal basso cercano di vivere il Vangelo in pienezza divenga fermento di pace per il mondo e fuoco di vita per la chiesa."


Non so come sono stato presentato quindi 2 cose le voglio dire anch'io di me stesso, prima di dirvi quelle che mi passano per la testa, che vivo tutti i giorni; non mi riuscirebbe parlare delle cose che non vivo, anzi, penso che bisognerebbe smetterla di parlare delle cose che non si vivono, che rimangono soltanto sulla sfera delle intenzioni possibili.

Mi chiamo Alessandro, ho 37 anni e sono prete dall'ottobre del '90. Ho cominciato a diventare un po' uomo quando sono entrato dentro la realtà in una maniera diversa da come di solito lo fa un prete o un religioso e ne 
sono molto contento.
Ma non voglio parlare di me stesso; voglio, attraverso l'esperienza che vivo, riuscire a farvi comprendere che cosa si può incontrare e come si può incontrare il volto dell'altro in maniera veramente significativa.
Sono prete da 12 anni e più vado avanti, meno capisco e meno capisco, più sono contento; e più entro dentro situazioni, più aumentano le domande e sento di non bastare a me stesso. Di questo sono veramente contento, anche se ne corrisponde un grande mal di fegato, quando stai dentro le situazioni in un certo modo.
Detto questo, ciò che vi dirò nasce da quello che vivo e ogni volta che parlo con qualcuno nella mia testa, nel mio capo, la mia storia è abitata da uomini, volti, persone. Quando parlo a voi di quello che sono, porto con me i volti e le storie delle persone che con me hanno fatto un pezzo di strada.

Partiamo da questo: io non possiedo la verità e nessuno, neanche la chiesa, la possiede; e se esiste una chiesa, e purtroppo esiste, che pensa di avere la verità tra le mani, da questa chiesa bisogna essere in grado di 
distaccarsi, distanziarsi e dissentire. Io ho bisogno della verità degli altri: non può esistere chiesa nè relazione se non scopro il volto dell'altro che ha una verità da portare. Quindi ciò che vi dirò non prendetelo come assoluto ma come la mia verità, intesa come ciò che uno vive e che ha cercato di coniugare nella sua gioventù. Partirò da una cosa che mi è piaciuta moltissimo,e che vi leggerò, perchè nella comunità dove vivo l'abbiamo letta per chiederci chi eravamo e verso dove stavamo andando. E' un piccolo racconto che mi serve per farvi capire cosa vi voglio dire e per provocarvi con qualche domanda successiva. 

Il titolo è "Racconti di luna"
[legge]
Questo racconto tocca alcune cellule sensibili della nostra esistenza e interiorità, può essere interpretato in vari modi. Vorrei usare una delle frasi del testo: "quella chiesa era proprio come il professore: statica, senza sfumature, sicura di sè, fredda, grigia". La chiesa che vivo, quella a cui appartengo, è una chiesa che spesso si presenta senza sfumature, statica, grigia, senz'anima. Nei secoli scorsi, ma anche nell'ultimo, c'è sempre stata una separazione tra chiesa e mondo; poi, con il Concilio Vaticano II, nel documento "Gaudium et spes" si parla della chiesa nel mondo. Essa deve fare ciò che ha fatto Dio con l'incarnazione e ancora non ha il coraggio di farlo. Deve diventare da potente debole, da ricca povera, da piena di certezze a luogo di dubbi e domande; deve spostare il baricentro del suo pensiero: nella chiesa non si trova Dio, che sta in quel tempio sacro che è ogni essere umano. Questo deve dire la nostra chiesa con i suoi segni e simboli; invece, la nostra è una chiesa pesante, con un'identità forte, troppo forte.
Della missione si aveva un concetto e una logica detta "plantatio ecclesiae": si vive in un posto e si mette dentro ad esso una realtà svincolata dal contesto, dalla cultura, dalla storia, dai volti e si impone un messaggio; la chiesa ha una tracotante verità di cui si sente così sicura che si sente in diritto di imporla. Dobbiamo uscire da questa logica e cambiare questo meccanismo mentale che spesso avvolge anche quelli che si dicono più aperti e critici rispetto a chiesa e religioni. La chiesa dev'essere capace di vivere non separata dal mondo, ma dentro le situazioni; deve vivere portando un messaggio grandissimo, quello del Vangelo, senza la 
pretesa di portare l'altro a sè, ma nella speranza di poter diventare compagna di strada nella sua vita. Un grande filosofo, Camus, esistenzialista, dice:
"Non camminarmi davanti perchè potrei non saperti seguire; non camminarmi dietro, potrei non saperti guidare, ma camminami accanto e probabilmente diventeremo amici". La chiesa dovrebbe scoprire questa dimensione, quella della compagnia; quando si diventa prossimi alla vita dell'altro, quando si vive questa prossimità (che è profondamente reciprocità), quando si scopre l'altro come valore, al di là di tutto scatta la responsabilità. Quando inizi a indossare i panni degli altri, a entrare in una dimensione di incontro e relazione con l'altro a un certo livello, ti devi spogliare delle tue sicurezze, delle tue certezze; e questo a qualsiasi realtà istituzionale. Questo Dio si sta grattando il capo rispetto a quello che ha proposto come sogno per l'umanità.
Nella Bibbia c'è un episodio dell'Esodo; c'è una figura straordinaria, quella di Mosè, che rispolvera le sue origini e ritrova le sfumature della sua esistenza. Mosè era ebreo, cresce alla corte del faraone, sotto le ali 
della chioccia (che è la chiesa), cresce secondo certe logiche, si legge la storia degli uomini dalla parte di chi non varca mai la soglia, di chi sta dentro la reggia, dentro la fortezza, dalla parte del potere. Mosè diventa 
egiziano, ma ad un certo punto, nell'uscire fuori dalla sua fortezza, sente dentro di sè le sue origini; quando vede l'egiziano opprimere l'ebreo, reagisce e uccide l'egiziano.
E' buffo che in un contesto di pace io prenda un episodio di violenza, ma è per dire che in quella violenza ci sta l'inquietudine pura che comincia a nascere dentro a Mosè, la sete di futuro di quell'uomo. Egli scopre che c'è 
dell'altro oltre a quello che gli era stato insegnato e con cui era cresciuto. Così reagisce in quel modo; come tutti gli uomini puri, dopo avere vissuto quel gesto terribile scappa, ha paura come ognuno di noi 
quando mette un piede fuori dal suo recinto. A un certo punto, uno parte con entusiasmo, poi scappa, fugge e va a Madian, dove viene accolto; qui Mosè ridisegna la sua vita secondo lo standard, lo status quo del tempo. Diventa pastore, si sposa e organizza la sua esistenza.
In questa situazione, mentre Mosè pascola il gregge, succede qualcosa di particolare, cioè vede un roveto che brucia e non si consuma
[legge il passo biblico]
Tutte le più grandi azioni degli uomini, nella Bibbia, nascono da una domanda; Dio stesso legge la storia degli uomini attraverso due domande, due domande epocali su cui ognuno di noi dovrebbe basare la sua esistenza. Qui la domanda è:"perchè il roveto non brucia?"; è una domanda che ha il sapore 
della curiosità, non è ancora il sentimento profondo di uscire verso qualcosa. Dice la Bibbia:
"il Signore vide che s'era avvicinato per vedere e Dio lo chiamò, dal roveto, e disse:
- Mosè, Mosè-;e lui rispose:-eccomi!-;e Dio:-Non avvicinarti, togliti i sandali dai piedi, perchè il luogo sul 
quale tu stai è una terra santa-"
Io credo che l'unica chiesa possibile sia una chiesa che sappia togliersi i sandali dai piedi e che sia capace di svuotare la sua storia da tutti i pregiudizi, positivi e negativi, che può avere su se stessa e sugli altri. 
Dobbiamo considerare che la chiesa non è quello a cui vogliamo arrivare ma il cammino che stiamo facendo. "Togliti i sandali dai piedi perchè il terreno che stai calpestando è terra santa": se tieni gli occhi puntati 
verso quel roveto che brucia e non si consuma, verso la cosa somma, esaltandola come punto cui vuoi arrivare, se è l'unica cosa cui tu vuoi arrivare, allora rischierai di fare poi a botte con gli altri per raggiungerla; sarai un caterpillar ma non sarai capace di considerare lo spazio che c'è tra te e quella cosa, quel caso come concretezza di vita e come luogo già santo e sacro. Questo è il cammino alla ricerca della verità 
e per farlo bisogna togliersi i sandali dai piedi (che tradotto significa che bisogna essere capaci di spogliarsi, mettersi a nudo). Questo è quello che fa Gesù Cristo. C'è una parola greca, intraducibile:"kenosi", cioè 
abbassamento, spogliazione di Gesù Cristo, questo cedere la sua onnipotenza e mettersi in gioco fino in fondo.
La chiesa dev'essere così, dobbiamo chiederlo profondamente; non dobbiamo permettere che essa diventi il luogo dove ci si arrocca in una verità che diventa senz'anima.
Quante soglie da varcare per entrare in chiesa; quante celebrazioni senza vita... Una volta vivevo in una parrocchia, all'inizio del mio esser prete, classica, in una zona buona e bella della città (vicino alla Certosa) e in 
un'omelia, diventata poi la causa del mio spostamento nel quartiere "le Piagge", dissi:"Noi saremo veramente comunità quando riusciremo a prendere un martello tra le mani e iniziare ad abbattere le mura di questo edificio e saremo capaci di celebrare questa vita dentro la storia umana". E' una provocazione, che serve a riflettere. Non ho la pretesa di avere tra le mani la verità ma domandiamoci:"accetto io questa domanda?", "Nel momento in cui mi verranno tolte le mie sicurezze, i miei spazi, i miei luoghi deputati alla sacralità, io mi sentirò più perso o più uomo?", quando qualche prete o qualche realtà o questa parola mi metterà l'amore per il dubbio, allora 
troverò la fede.
Non so se faccio bene ad andare in chiesa, ma non è questo importante; è importante coltivare il seme della spiritualità dentro di noi; se qualcuno di voi volterà le spalle alla chiesa, non si preoccupi, ma che questo voltar 
le spalle non sia rivolto a tutto quello che è il rapporto e la relazione con l'altro e con l'altra, col profondo e col mistero di ognuno di noi; quello è il sale della terra, il lievito, la luce! Abbandonate pure la chiesa.

La nostra è una comunità di base, non abbiamo chiesa: celebriamo all'aperto da 8 anni e in un prefabbricato che abbiamo chiamato "Centro Sociale", che è scuola la mattina, redazione del giornale il dopocena, luogo di incontro, sede dei gruppi di lavoro che fanno giardinaggio e riciclaggio, luogo di pianti, di bestemmie, di fatica e che alla domenica diventa luogo della celebrazione. Per essere chiesa davvero, la nostra comunità deve imparare a spogliarsi della propria religiosità e cominciare a cercare la fede. 
Spogliamoci di questo apparato religioso, di un qualcosa che ci viene buttato addosso e che non ci permette di danzare la vita. Gesù Cristo ci chiede questo nel Vangelo, è il suo sogno voler comunità liberate da questa religiosità senz'anima, fittizia, senza cuore, senza vita, superba, presuntuosa e che serve soltanto a benedire la situazione esistente, lo status quo. La nostra chiesa è funzionale a questo sistema di morti. In Brasile vi sono tantissime chiesupole di tutti i tipi, foraggiate e pagate dalle grandi multinazionali e da grandi centri di potere, anche politici, spesso statunitensi, perchè sanno che una chiesa che vive imbonendo le persone, che costruisce una serie di apparati e di codici di comportamento, che diventa un'agenzia di morale più che una spinta verso la vita, la fede e la ricerca di se stessi, è una chiesa che fa comodo.
Avete visto qualche povero nelle nostre chiese, se non per chiedere l'elemosina fuori?
Avete visto davvero persone che vivono impoverite di questa storia, di questa terra, che esistono nel nord del mondo, abitare le nostre chiese?

O considerate il Vangelo uno stimolo, spinta per cercare di costruire un percorso di liberazione per se stessi e per gli altri?
Noi dobbiamo essere capaci di stare dentro le situazioni, di abbattere tutti i muri che rischiano di separarci. Cosa succede quando Gesù Cristo muore in croce? Il Vangelo usa un'espressione straordinaria: "e il velo del tempio si squarciò nel mezzo". Il velo del tempio era il luogo dove poteva entrare solo il sacerdote, lo spazio sacro per eccellenza che ricordava la sacra tenda dell'Esodo. Con la morte di Gesù il velo del tempio si squarciò nel mezzo, non c'è più niente che separi Dio dall'uomo e non possono più esistere chiese che vivono questa separazione, che fanno di quel Dio un pretesto per separarsi e per acquisire potere. Credo che un modo per vivere la chiesa potrebbe essere rileggere Lazzaro (Vangelo di Giovanni); in questo episodio bellissimo, Gesù piange e fa la "figura del coglione" perchè quando le sorelle di Lazzaro gli corrono incontro lui dice: "Lazzaro non è morto, io sono la resurrezione e la vita". Chiede: "Credi tu questo?" e subito dopo, di fronte all'amico morto, Gesù piange. Ma mi vorrei soffermare sulla parte finale, quando Gesù usa 3 espressioni che io vorrei offrirvi come 3 modi per rileggere voi stessi rispetto alla chiesa, la chiesa rispetto a se stessa e rispetto all'uomo.
[lettura del Vangelo di Giovanni 11,38-44]
Le 3 espressioni sono:
"Togliete la pietra!",
"Lazzaro vieni fuori" e
"Scioglietelo e lasciatelo andare".

Se la chiesa è il sogno di Dio per la storia umana e se noi pensiamo a quel sogno di Dio che ognuno ha dentro di sè e a quel sogno umano che ha dentro di sè, queste sono 3 indicazioni fortissime, necessarie.
La prima è "Togliete la pietra!": i nostri, spesso, sono sogni sommersi, schiacciati, umiliati, incrostati, chiusi, affiorano ogni tanto con quella legge della compensazione (l'ultimo dell'anno, lo sballo) quasi come se 
ognuno di noi avesse bisogno di vivere in maniera irreale, illusoria quel sogno che rimane soffocato. Lì c'è una pietra pesante, dove bisogna chiedere a noi stessi e alle nostre chiese, alle nostre comunità di togliere la pietra. A volte la pietra la mettiamo noi, a volte la mette chi gestisce la nostra vita sopra ai nostri sogni. Bisogna togliere la pietra dei falsi moralismi, dei moralismi pesanti, dei sensi di colpa: cose che ci impediscono di leggere quel sogno e di svelare l'uomo inedito che c'è dentro ognuno di noi, l'uomo "absconditus", nascosto.
Ma togliere la pietra non basta, perchè uno potrebbe dire di aver tolto la pietra però poi se la vive da solo, nella sua comunità e fa il suo cenacolino. Tante parrocchie sono molto vive, molto belle, ma rimangono 
dentro se stesse e se fanno qualcosa lo fanno per gli altri, ed è troppo poco. Infatti, "per gli altri" è sempre una visione molto "maestrocentrica" della vita; non devo fare qualcosa per gli altri, ma "con gli altri". Non 
basta essere per i poveri; quante parole si sprecano per i poveri. Quante belle azioni ci fanno bene, solo a noi stessi!

 Non prendete ciò che dico come verità assoluta ma come sassolini che a cerchi concentrici cercano di 
smuovere un po' il mare dei vostri pensieri. Togliere la pietra ma poi c'è questo rischio di dire che ci consideriamo persone aperte, libere e ci crogioliamo in queste cose, ci mettiamo insieme e rischiamo di costruire dei cenacoli e di accontentarci di stare bene. Pensiamo così di aver raggiunto la verità, così può esserlo il GIM, la mia comunità e allora ecco l'invito a Lazzaro. Nel Vangelo, le persone che non hanno la capacità di dare delle risposte che abbiano un senso non hanno nome proprio. Qui invece Gesù chiama "Lazzaro!" e chiama ognuno di noi a una responsabilità che è soggettiva, cioè di ogni persona. E Gesù dice "Vieni fuori"; è ora che le nostre chiese tolgano la pietra, e possono togliere la pietra per venire fuori, per uscire allo scoperto, per mettersi in gioco. Soltanto così si potrà essere segno di contraddizione, pietre di scandalo, solo così si potrà incontrare l'altro e svelare la nostra verità. Se dovete fare delle cose, non fatele in parrocchia, in comunità, fatele fuori con chi magari non crede neanche all'acqua calda, mescolatevi; questo è il segreto più grande dell'esistenza.
Che cosa si parla a fare l'arcobaleno addosso e le bandiere della pace; i colori dell'arcobaleno sono la prima alleanza tra Dio e l'uomo, questo arco ripropone alleanze, la relazione tra Dio e l'uomo. L'arcobaleno è fatto di 
colori diversi, in questa mescolanza nella convivialità e rispetto delle differenze che dobbiamo regalare all'umanità. Che nessuno di voi abbia un senso d'identità e di appartenenza forte, se questo vuol dire impedire agli altri di entrare nella vostra storia o di contaminarsi con la vita o la storia degli altri.

 Uscire fuori vuol dire uscire fuori non a fare le crociate, non a indurre l'altro a fare qualcosa, ma entrare dentro la storia umana, a fare compagnia all'essre umano e imparare da questa storia.
Quindi c'è la terza espressione, che è "Scioglietelo e lasciatelo andare"S. Agostino ha detto "Ama e fa ciò che vuoi" oppure nell'annunciazione S. Gabriele disse "Nulla è impossibile a Dio "; la grandezza di Dio non sta nel 
fatto che nel momento in cui tu vieni fuori Lui ti trattiene, ma ti lascia andare. Lasciarci andare a quel senso di tenerezza, di libertà profonda, di considerazione dell'altro, di speranza; sciogliersi e lasciarsi andare. 

Succederà mai che nelle nostre liturgie ci lasceranno andare alla danza, alla tenerezza, alla vita? C'è un'espressione che Alex Zanotelli usa sempre; lui dice "c'è una cosa straordinaria dell'uomo africano che mi colpisce: la sua "vitalogia", cioè logos della vita, il verbo della vita, questa capacità di essere vivo fino in fondo, sciolto, libero". Dio propone un legame tra sè e l'umanità, e questo crea comunque dei problemi, ma questo non vuol dire che non vi possa essere libertà: la libertà di sentirsi sciolti, liberi. Pensate alle nostre chiese, se una lei dà la mano a un lui cosa si potrà pensare?
Noi siamo dei frustrati; già da appena si nasce vi è una libertà vincolata da certe norme morali, moralismi che ci impediscono di essere quello che siamo. In Italia 12 milioni di persone fanno uso di psicofarmaci e questo è 
un segnale; vuol dire che c'è una debolezza e una frustrazione che abita in ognuno di noi, che ci impedisce di scioglierci e di lasciarci andare.                                                                                                                         E questo spesso lo fanno la chiesa, i genitori, il mondo del lavoro, la famiglia, i legami che creiamo. Dio si gratta la testa di fronte a questo e le comunità dovrebbero essere il sapore più grande di questa capacità di 
togliere la pietra, andare fuori, perdersi, mettersi in gioco e sciogliersi, lasciarsi andare. Tutto questo diventa quindi capacità di amare, di creder oltre ciò che si può credere e di stare dalla parte di chi questa 
possibilità non ce l'ha.
Concludo con uno scritto di Martino Morganti, francescano morto due anni fa, sospeso "a divinis". Questo è un testo affrontato anche alle Piagge, e poi in 6 mesi di "scrittura collettiva" una comunità di perdenti, ma non perduti ha scritto una lettera, che è il racconto di quello che siamo come comunità. 
Abbiamo usato alcuni testi ed è stato molto difficile. Nella mia comunità 1 ragazzo su 10 finisce le superiori, 2 ragazzi su 10 non arrivano alla terza media, 10 ragazzi su 10 fanno uso di sostanze stupefacenti, 1 donna su 2 beve, ma in queste persone (tanto "negative") c'è il volto dell'altro che permette di riconoscermi e iniziare a capire chi sono. Vi voglio quindi leggere questo racconto, che è come una domanda che lui in silenzio si fa e che vi vorrei regalare. Lui, uomo che non viveva più in parrocchia, non faceva più la messa, ma un momento particolare di comunione; viene invitato in Puglia da una parrocchia a fare triduo pasquale, così si ritrova immerso di nuovo in una situazione parrocchiale e si meraviglia del fatto che questa parrocchia era bella e lui ci si trovava bene. Per questo si chiede se stesse cambiando lui, essendo diventato un prete o se stesse cambiando qualcosa all'interno della chiesa " in questa parrocchia ho vissuto prevalentemente momenti liturgici, quindi di parrocchia; eppure mi è sembrata prevalere la bellezza in parrocchia, su quella di parrocchia. Anche negli stessi riti di preghiera e docili a continuare a incrementare la tessitura di rapporti, relazione, incontro". Credo allunghi la fila dei preti che si collocano più sul versante della costruzione e ricostruzione della vita, che su quello della salvezza delle anime. Anche lui, o prima di tutto lui, più "in" che "di" parrocchia. Ma se è bellezza più "in" che "di" parrocchia, come si colloca rispetto alle altre parrocchie, e in definitiva nel contesto diocesano ed ecclesiale? Ho il sospetto che questa parrocchia non ecceda in allineamento e che dal centro si misuri la sua distanza e difformità dal modello voluto. E' troppo sensibile al locale e alle variabili umane per essere disponibile a pianificazioni esterne e predefinite; sarei tentato di dire che la sua obbedienza alla base attenua la sua obbedienza ai vertici! La bellezza in parrocchia arriva così a relativizzare il dentro e il fuori, non ovviamente il consulto dentro e fuori la chiesa, teologicamente improponibile, come è teologicamente improponibile qualcuno che abbia l'autorità di stabilire dove la chiesa finisca e dove inizi la non-chiesa ma semplicemente lo stare o non delle attuali strutture ecclesiastiche.