Per capirne di
più |
I
ribelli del Nord
scheda per capire il
conflitto
MISNA
21/11/03
La
guerra in Nord Uganda è una delle più feroci tra quelle che
insanguinano il continente africano. In apparenza, potrebbe
trattarsi di un conflitto locale, ma la realtà va ben al di là
di ogni immaginazione. I ribelli del sedicente Esercito di
resistenza del signore (Lra) - gli "olum" in
lingua acholi - seminano ogni giorno morte e distruzione nei
distretti di Gulu, Kitgum, Pader, Lira, Apac Katakwi e Soroti. I
guerriglieri, agli ordini di Joseph Kony, un pazzo visionario
al soldo del governo sudanese, secondo le cronache, si
spingono sempre più a sud, con l'intento dichiarato di
destituire il presidente Yoweri Museveni. La storia di questo
gruppo armato affonda le radici nel passato. Nel 1988, a seguito
della sconfitta militare di Alice Lakwena, leader di una fazione
antigovernativa denominata "Esercito dello spirito
santo", sembrava che Museveni avesse ormai il controllo del
Paese dopo aver espugnato nel gennaio del 1986 la capitale,
Kampala, defenestrando i generali Basilio Olara Okello e Basilio
Okello. Ma fu proprio in quegli anni che un presunto cugino della
Lakwena, Joseph Kony, fondò un nuovo gruppo armato denominato
prima "Forza mobile dello spirito santo" e
successivamente "Esercito di resistenza del signore". I
giovani combattenti dell'Lra lo definiscono un "santo
maestro", un "profeta buono", come se la loro
ragione fosse stata azzerata da chissà quale malefico artificio.
E c'è addirittura chi parla di un'ipnosi collettiva operata dal padre
fondatore dell'Lra, un "pazzo lucido" che vuole imporre
a tutti i costi il decalogo dell'Antico Testamento al posto della
costituzione attualmente in vigore in Uganda. Il suo credo è un
miscuglio di credenze che legittimano il ricorso alla violenza
contro chiunque intenda protestare con l'uso della ragione o del
semplice buon senso. D'altro canto, risulta assai arduo
comprendere la follia di donne guerrigliere come Mary e Agnes che
assaltano le missioni cattoliche, picchiando a sangue la gente e
sparando all'impazzata all'interno degli edifici parrocchiali,
nonostante abbiano sulle spalle i loro neonati che allattano tra
un combattimento e l'altro. Nato a Odek, nei pressi di Opit,
nel distretto di Gulu, il capo degli "olum" aveva
manifestato sin da bambino profondi segni di squilibrio. I suoi
genitori lo affidarono ad uno stregone locale. Sua madre raccontò
a padre Raffaele Di Bari
- missionario comboniano ucciso dallo Lra il 1 ottobre del 2000 -,
che il figlio era stato sottoposto ad una sorta d'esorcismo. Con
il risultato, disse sempre la donna, di essere posseduto
permanentemente da uno "spirito di guarigione". La verità
è che, negli anni, il suo stato mentale è peggiorato
notevolmente. Nel 1994, a seguito di un contatto diretto con
l'esercito governativo sudanese, Kony s'impegnò a combattere
contro Kampala reclutando con la violenza bambini (prevalentemente
dagli 8 ai 16 anni) nei distretti "acholi" e "lango"
del Nord Uganda. In cambio, le autorità sudanesi decisero di
fornire armi e munizioni, oltre che concedere ai ribelli le basi
operative sul proprio territorio a Jabulen (Equatoria, Sud Sudan),
al 39° miglio sulla strada che collega Juba a Nimule. Per
ammissione dello stesso presidente sudanese Omar Hassan el-Bashir,
prima che le relazioni tra Khartum e Kampala si normalizzassero,
un paio d'anni fa, l'Lra è stato appoggiato per oltre un decennio
dal suo esercito, in funzione anti-ugandese. Ma testimonianze
dirette, raccolte in questi mesi dalla società civile,
smentiscono le affermazioni del leader sudanese. Khartum continua
infatti ad appoggiare Kony, fornendo equipaggiamento militare ai
ribelli e recapitandolo a Nisitu, una località a sud di Juba
controllata dallo Lra. In effetti, la riconquista della cittadina
sudsudanese di Torit da parte dei governativi sudanesi, avvenuta
lo scorso anno, sarebbe stata possibile proprio grazie all'aiuto
dell'Lra. Nel frattempo Kampala continua a essere un fedele
alleato di John Garang, leader storico dello Spla (Esercito
popolare di liberazione del Sudan), formazione antigovernativa
sudsudanese. Alcuni osservatori ritengono che un accordo di pace
tra il governo sudanese e lo Spla, in fase di definizione a
Naivasha in Kenya, possa giovare anche alla causa di pacificazione
nel Nord Uganda. Altresì il gruppo di Kony sembra ormai una
scheggia impazzita che solo un contingente militare internazionale
(una forza di "peacekeeping", sotto l'egida dell'Onu)
potrebbe arrestare. Il fatto poi che l'esercito governativo non
sia mai riuscito a piegare gli "olum", secondo fonti
dell'opposizione ugandese, dimostra la scarsa volontà politica di
Museveni di risolvere il problema. Kampala, infatti, dispone di
truppe ben addestrate che hanno operato per anni in Congo. Viene
il dubbio - affermano molti osservatori - che la guerra nel Nord
del Paese serva a tenere a bada gli acholi, tradizionalmente
ostili nei confronti del leader ugandese. In questi anni i ribelli
hanno ucciso anche due missionari: padre Egidio Biscaro e padre Di
Bari. Il primo cadde in un'imboscata sulla strada tra Kitgum e
Pajule il 29 gennaio del '90. Padre Di Bari fu invece assassinato
dieci anni dopo. Secondo fonti ben informate, il numero dei
ribelli è stimato attorno alle quattromila unità, di cui il 90
per cento risulta essere stato rapito in età preadolescenziale o
adolescenziale. I bambini rapiti entrano a far parte del movimento
solo dopo l'unzione (in acholi "wiro ki moo") che viene
somministrata sul corpo della nuova recluta secondo un rituale
ideato dallo stesso Kony. Lo scopo è duplice: serve a dare l'illusione che il giovane guerrigliero sia protetto dal fuoco
delle pallottole e a vincolarlo al movimento attraverso un legame
ritenuto dagli stessi ribelli indissolubile. Secondo monsignor
John Bapist Odama, arcivescovo di Gulu, in questi anni i ribelli
hanno sequestrato "oltre 20mila bambini e ucciso almeno
100mila persone". Ma egli stesso ammette che le cifre
potrebbero essere addirittura molto più elevate considerando le
difficoltà oggettive nel monitorare il conflitto. È per questo
che il presule invoca un intervento della comunità internazionale
prima che sia troppo tardi. Un proverbio acholi dice che "un
pazzo è riconoscibile non solo dalle parole, ma soprattutto dalle
azioni". È il caso di Kony e dei suoi crudeli seguaci. [CO] |
Il dramma dimenticato del
Nord Uganda
La regione del
Nord Uganda conosciuta come Acholiland è oggi uno dei posti più
tristi della
terra. Sin dal 1986 soffre una guerra che ha causato circa 100.000
vittime. Circa 20.000 bambini sono stati rapiti. Le violazioni dei
diritti umani sono innumerevoli. Le infrastrutture socioeconomiche
sono state distrutte e circa 600.000 persone –la metà della
popolazione– vive in condizioni infraumane. Il fatto che questa
regione si trovi in una zona in cui non ci sono degli interessi
strategici né risorse economiche importanti, può spiegare il
basso interesse che questa tragedia ha sollevato nei fori
internazionali.
Le origini del conflitto
Quando vogliamo raccontare la
storia di un conflitto la prima cosa che dobbiamo fare è
accordarci sulla data dell’inizio. Poiché siamo in una nazione
africana potremmo risalire fino al periodo coloniale, ma questo ci
prenderebbe troppo tempo. Partendo da date più recenti, possiamo
dire che la guerra nella regione Acholi è
radicata nel tentativo di sviluppare un sistema di governo che
integri le aspirazioni collettive di una società plurale come è la
società ugandese, dove ci sono tante differenze tra le etnie del
Nord e del Sud. Diversi progetti etnici, politici e
religiosi, hanno minato ogni volta il progetto di costruzione
dell’Uganda come nazione. Sin dall’arrivo al potere di Idi Amin
nel 1971 –e anche prima- il controllo del potere si è ottenuto e
conservato attraverso l’uso della violenza, il che purtroppo non è
niente strano alla politica africana.
Il conflitto
in Acholiland cominciò pochi mesi dopo l’ultimo cambio di regime
politico, nel 1986, quando il
Movimento di Resistenza Nazionale di
Yoweri Museveni, composto soprattutto da persone delle
tribù del Sud della nazione, che avevano combattuto per cinque
anni contro un governo dominato dalle etnie del Nord,
abbatté il regime militare di Tito Okelo,
un generale che proveniva dalla regione Acholi, e che aveva
spodestato il presidente Milton Obote solo sei mesi prima. Molti
fra i militari Acholi fuggirono verso il Sud Sudan ed altri
nascosero le loro armi e restarono nelle loro case ad aspettare lo
svolgimento degli avvenimenti.
Dopo sei mesi di relativa calma, alcune
unità del nuovo esercito incominciarono a realizzare ogni sorta
d’oltraggi contro la popolazione civile del Nord.
Questo fu il detonatore che diede inizio alla ribellione contro il
nuovo regime di Museveni. Gli antichi
ufficiali di Okelo tornarono dal Sudan nell’Agosto del
1986. In questa maniera cominciò la
guerra nel Nord Uganda, appoggiata in quel momento da una buona
parte della popolazione, specialmente rurale. Come
sempre accade, i gruppi umani scontenti che non hanno niente da
perdere alimentano le ribellioni, pur essendo illogiche.
Il primo gruppo ribelle si chiamava Esercito
Popolare Democratico Ugandese (UPDA).
Alla fine del
‘86, una “maga” chiamata Alice Lakwena,
che diceva di essere un medium che comunicava con diversi spiriti,
prese il commando di alcune unità del
UPDA e diede vita a un gruppo chiamato Movimento dello
Spirito Santo. Movimento dello
Spirito Santo.
Alla fine del
1987, l’esercito di Museveni soppresse l’avanzata dei ribelli di
Lakwena a pochi chilometri di Jinja, la seconda città della
nazione. Alice Lakwena fuggì in Quenia, dove ancora vive oggi,
mentre il suo esercito si scioglieva e tornava al Nord per tentare
di riorganizzarsi. Nel frattempo, accadde un fatto che contribuì
all’impoverimento degli Acholi: i
Karimiyong, una tribù vicina
di pastori seminomadi ben fornita di fucili automatici,
saccheggiarono per alcuni mesi i villaggi Acholi e uccisero molto
bestiame – mucche, pecore e capri – che trovarono nel
loro passaggio. Pochi dubitano che quel saccheggio che rovinò la
base dell’economia rurale del popolo Acholi, fu realizzato per
mandato del governo.
Nuove
complicazioni e sforzi per la pace
In quei giorni cominciò
la prima negoziazione tra il governo di
Museveni e l’UPDA. A giugno 1988 si arrivò a un accordo
di pace per il quale gli ufficiali e le
truppe dell’UPDA furono incorporati all’esercito regolare.
Tuttavia la guerra non finì. Un piccolo
gruppo del Movimento dello Spirito Santo rimase fuori dalle
negoziazioni e decise di continuare la ribellione sotto il comando
di un familiare di Alice Lakwena, Joseph Kony.
La violenza nella regione Acholi continuò: la gente dovette
abituarsi a vivere in questa insicurezza, alcune volte
intermittente ed altre continua ed insopportabile.
Nel 1991 il Governo lanciò una durissima
offensiva militare conosciuta come “Operazione Sesamo”:
il governo isolò il Nord catturò molti oppositori politici del
regime di Museveni. Il governo obbligò i
contadini a unirsi alla caccia dei guerriglieri con qualsiasi arma
potessero disporre. L’unico risultato reale di questa operazione
fu infuriare ancora di più gli uomini di Kony che infierirono
sugli infelici contadini, armati solo di ascia o arco e freccia,
procurando loro delle terribili mutilazioni.
Nell’Agosto del 1991 il governo annunciava
che Kony era stato sconfitto. Molti credettero che
l’incubo fosse ormai finito. Da quel
momento fino alla metà del 1993 non ci furono atti di violenza e
sembrava che la regione Acholi incominciasse a rialzarsi.
Ma, nel Nord
Uganda, la pace non durò. Durante la
seconda metà dell’anno 1993 i guerriglieri di Kony
–conosciuti da questo momento con lo strano nome di
“Esercito di Resistenza del Signore” o LRA-
incominciarono a ricevere sostegno dal
regime islamico del Sudan, con lo scopo di vendicarsi con l’Uganda
per l’appoggio prestato da Museveni a John Garang, leader dei
ribelli sudanesi dello SPLA. Tuttavia sarebbe più
giusto dire che è stato il governo degli Stati Uniti ha fornire le
armi ed ogni tipo di collaborazione allo SPLA attraverso la
mediazione del governo Ugandese: il suo più fedele alleato nel
continente africano.
Durante gli ultimi mesi dell’anno ‘93,
dopo una fallita iniziativa di pace guidata da un ministro del
governo, Betty Bigombe, i guerriglieri
ripresero gli attacchi nella regione Acholi, quasi sempre contro
la popolazione civile, incominciò così il periodo più
crudele della guerra. il periodo più
crudele della guerra.
La popolazione
civile – soprattutto le donne ed i
bambini– ha smesso ormai di
essere la vittima accidentale uccisa nel campo di battaglia, ma è
diventata parte di una strategia diabolica dove l’unico intento è
controllare, umiliare e distruggere la popolazione Acholi.
Quattro
aspetti potrebbero definire questa violenza senza limiti:
1) Il
rapimento di bambini per obbligarli combattere
Il
LRA da sempre fece uso del rapimento di civili per rinforzare le
sue truppe, specialmente in momenti di debolezza
numerica, ma a partire dall’anno 1994 il
sequestro soprattutto di bambini e bambine ha acquisito
proporzioni inaudite. Si calcola che siano 20.000 i
minori che hanno vissuto quest’esperienza indescrivibile.
Per molti anni si è ripetuta la stessa
storia: il LRA entra nel Nord Uganda, dalle sue basi oltre il
confine in Sud Sudan, rimane lì alcuni mesi con continue azioni di
rapimento di bambini, e li conduce legati in fila con corde verso
i campi di addestramento in territorio sudanese.
Lì sono addestrati nell’uso delle armi. Le
ragazze, oltre a dover combattere, vengono abusate sessualmente
dai comandanti. Per il Governo Sudanese è stato molto
proficuo potere avere una riserva inesauribile di bambini soldato
del LRA che hanno combattuto in prima linea contro lo SPLA.
Questi stessi bambini, ormai diventati
soldati, di ritorno in Uganda sono costretti a realizzare le
peggiori atrocità proprio contro i loro familiari in modo che non
tentino più la fuga non avendo più una famiglia pronta a
riaccoglierli.
Oltre 10.000
bambini sono riusciti a fuggire. Arrivano psicologicamente
distrutti, traumatizzati, spesso con malattie inguaribili.
Migliaia di genitori nel Nord Uganda –alcuni dei quali hanno perso
tutti i loro figli in una sola notte – vivono nella più assoluta
disperazione. È possibile che la cifra di coloro che sono morti
oltrepassi i 7.000. Il LRA è oggi un
gruppo di ribelli formato da più dei tre quarti da bambini rapiti,
che si comportano in una maniera estremamente crudele, più che
qualsiasi altro adulto. La loro riabilitazione è tutt’altro che
facile.
Altri bambini sono stati reclutati
dall’esercito governativo Ugandese e sono stati mandati a
combattere nella guerra del Congo. Il nostro ufficio di
Giustizia e Pace ha denunciato in diverse occasioni il caso di
bambini fuggiti dalla guerriglia e reclutati dall’esercito
Ugandese.
2)
Gli attacchi contro bersagli civili
Viaggiare
per le strade del Nord Uganda è andare con l’anima in bilico,
sempre con il rischio di venire uccisi in un agguato.
Ormai sono comuni tragedie del tipo: i
ribelli bloccano e sparano contro la vettura e i viaggiatori,
saccheggiano di tutto ciò che può servire loro e poi
bruciano la macchina o l’autobus, spesso con i feriti ancora
dentro. Così è stato ucciso il missionario comboniano
Raffaele Di
Bari il primo Ottobre 2002 quando andava a celebrare la messa alla
cappella di Pajule. Neppure i veicoli che
portano gli aiuti umanitari dell’ONU o delle ONG sono salvi da
questi attacchi mortiferi.
Il LRA attacca
i villaggi e le periferie delle principali città (Gulu e Kitgum),
specialmente di notte, bruciando centinaia di case. È diventato
abituale dormire fra la sterpaglia, anche sotto la pioggia, o
sotto l’atrio dei negozi nel centro delle città o nelle stanze
delle missioni. I bambini ed i giovani che hanno la fortuna di
studiare in un collegio tremano quando arrivano le vacanze e
devono tornare a casa.
Il LRA in ogni
razzia uccidono centinaia di persone con il solo intento di
propagare il terrore.
3) L’uso delle mine
Dal
1994 il Governo del Sudan ha fornito il LRA di mine anticarro e di
mine antiuomo. Come conseguenza di questo nuovo
ingrediente delle guerra sporca, le
persone mutilate sono
diventate un elemento tragico in più di questa sofferenza senza
fine. Nel 1999 anche l’esercito Ugandese ha minato vaste zone
della regioni Acholi vicine alla frontiere col Sudan.
Ciò ha reso impossibile il ritorno a casa degli abitanti di queste
regioni rapiti e portati in Sudan.
4)
Il raggruppamento forzato della popolazione in campi di sfollati
Nella
regione Acholi ci sono 1.200.000 abitanti. La metà di essi abita
in campi di sfollati conosciuti ufficialmente come “villaggi
protetti”. Vivono in condizione
infraumane per l’affollamento, la malnutrizione e la
mancanza di protezione (spesso il distaccamento militare si trova
al centro del campo: in pratica è la popolazione che protegge
l’esercito). A partire dal 1996 l’esercito Ugandese
obbligò le popolazioni di tante zone rurali a raggrupparsi in
questi centri utilizzando dei mezzi discutibili: bombardamenti
intimidatori.
L’ultimo caso è accaduto nel
Settembre 2002: i capi militari hanno annunciato attraverso la
radio che davano una scadenza di 48 ore perché la gente
abbandonasse al più presto le proprie abitazioni nelle zone rurali
per evitare di trovarsi al centro di combattimenti. Dall’altra
parte, la guerriglia minacciava la popolazione perché non
abbandonasse i villaggi.
La tensione alla quale la gente
si trova sottomessa è insopportabile.
L’ultima fase ed i nuovi tentativi di pace
Nel
1999 c’è stato un periodo di
undici mesi di calma in cui la guerriglia del LRA non usciva dai
loro campi militari del Sud Sudan. Simultaneamente
il Centro “Carter” realizzò un intenso
lavoro diplomatico di mediazione fra i governi di Sudan ed Uganda.
Si firmò un accordo fra le due nazioni nei primi giorni di
dicembre di quell’anno. Un giorno dopo il parlamento Ugandese
promulgava la legge di amnistia per ogni guerrigliero che
lasciasse le armi. Tuttavia, i capi del
LRA –che non avevano partecipato alle negoziazioni di pace
promosse dal centro “Carter”–
accolsero l’accordo di pace fra le due nazioni come una minaccia
per la loro sopravvivenza. Perciò,
due giorni prima del Natale del 1999, il LRA
invase nuovamente la regione Acioli. La consueta
spirale di violenza è ricominciata: agguati, assassinii , attacchi
notturni, rapimenti di bambini. Se questo
non bastasse anche un’epidemia di
Ebola
si è
scatenata a Gulu nell’ottobre 2002: è durata
quattro mesi ed ha ulteriormente isolato questa regione.
Malgrado tutto ciò, sembra che,
dalla fine del 2000, il Sudan abbia smesso di fornire armamenti e
appoggio logistico al LRA. Il LRA ha spostato le proprie basi più
a Sud, vicine al confine e, in pratica, in terra di nessuno. Nel
2001 i leader religiosi sono riusciti a radunarsi con i comandanti
del LRA nella foresta per tentare di convincerli ad accettare
l’amnistia. Purtroppo i risultati sono stati scarsi.
Dopo
l’11 settembre 2001, nel
contesto della nuova cornice internazionale di lotta contro il
terrorismo, sono accaduti due fatti che hanno avuto una
speciale importanza nello svolgimento degli avvenimenti:
il dipartimento di Stato ha dichiarato il
LRA come movimento terrorista, ed il Sudan – sempre
sotto osservazione degli Stati Uniti come nazione protettrice del
terrorismo internazionale – ha deciso di
dare un passo per dimostrare che era disposta non soltanto a
smettere di appoggiare il LRA ma a collaborare per la sua
distruzione. Nel marzo 2002 il Sudan ha firmato un
protocollo in cui ha autorizzato l’esercito dell’Uganda ad entrare
nel suo territorio per distruggere il LRA. E’ cominciata così
l’operazione “Pugno di Ferro”, alla quale i diversi gruppi della
società civile del Nord Uganda si sono opposti fin dall’inizio. La
propaganda del Governo dell’Uganda ha ripetuto con insistenza che
il LRA era eliminato quasi completamente. Tuttavia
a giugno del 2002 migliaia di
guerriglieri infuriati hanno invaso nuovamente il Nord Uganda. Ora
il terrore si è scatenato come mai prima, e la morte sia a causa
della violenza o la fame si accanisce sulla popolazione.
P. José
Carlos Rodriguez Soto
P.José Carlos Rodriguez
lavora per la Commissione “Giustizia e Pace” della diocesi di Gulu
ed appartiene all’associazione “Iniziativa Acioli per la Pace”.
Essa è un gruppo composto dai leader religiosi delle differenti
religioni presenti sul territorio (cattolici, anglicani e
musulmani): insieme tentano di educare e di rispondere alla
violenza con la non-violenza. Mediano pure fra i guerriglieri ed
il Governo per aprire una via alla pace. Questo articolo è la
traduzione di una sua conferenza tenuta a Madrid in dicembre del
2002.
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MONS.
BAKER OCHOLA: una candela nel buio
Vescovo
anglicano di Kitgum, che sa resistere alla tentazione di
presentarsi come il salvatore del suo popolo
In quest’occasione
vorrei parlare di una persona notevole. Ogni giorno sentiamo
parlare di gente considerata importante, ma spesso incrociamo
persone realmente grandi senza rendercene conto. La persona in
questione chiama Baker Ochola ed è vescovo anglicano di Kitgum,
nel nord d’Uganda. Parla lentamente, con convinzione, di solito
ornando il suo discorso con delle frasi bibliche e proverbi
africani e sollevando la voce solo per difendere i deboli.
L’ultima volta
l’ho trovato a casa sua. Alcuni giorni prima un gruppo di
guerriglieri gli aveva buttato per terra la porta, rubato le poche
cose che avevano trovato e sottoposto a sequestro cinque dei suoi
cugini. Mi raccontò serenamente che
essendo quello un luogo dove la gente povera soffre da quindici
anni per gli assalti violenti, sia nei suoi viaggi, sia nella
coltivazione dei campi o mentre riposano di notte, gli uomini di
chiesa non devono mostrare paura né stupore quando arriva il
momento di condividere la stessa sofferenza. Si
rallegrava giacché i bambini erano fuggiti il giorno prima
trovandosi adesso sani e salvi. Mi sono meravigliato sempre poiché
quando egli parla di Chiesa si riferisce ai cristiani di qualsiasi
denominazione.
Abbiamo
parlato sotto un albero - praticamente il suo ufficio - dove di
solito accoglie tutte le persone che vengono a trovarlo ogni
giorno e dove egli ascolta per molte ore, le loro storie
d’angustia e disperazione. A pochi metri
c’è il resto di quella che è stata la macchina della sua diocesi,
distrutta quattro anni fa a causa di una mina, in quell’occasione
è morta sua moglie. Ogni volta che contemplo quei rottami immagino
che sia una gran croce, il ricordo di una passione che non finisce
in molte parti della terra. Di certo ha delle ragioni
per le quali non li ha spostati fino ad oggi.
Baker Ochola
sa ascoltare, nel mondo non ci sono molte persone che sappiano
farlo. Prega, legge la Bibbia, predica con forza e quando lo fa
perfino i suoi nemici lo ascoltano con rispetto. La tradizione
anglicana, centrata nel servizio della parola di Dio ha dato
all’Africa predicatori che hanno fatto successo come Desmond Tutu
che hanno saputo trasmettere il messaggio evangelico distillando
speranza alle folle scoraggiate.
Il nostro
gruppo che lavora per la pace ha fatto dei raduni con la finalità
di rimettere d'accordo due comunità rurali vicine colpite per gli
incidenti violenti che hanno lasciato in pochi mesi, decine di
morti e feriti. Il raduno di febbraio dell’anno scorso lo ha
presieduto lui, e la sua presenza è stata d’aiuto per pacificare
l’ambiente, e fare che le parti in confronto parlassero a faccia a
faccia per la prima volta. Un raduno che cerca di risolvere i
conflitti comincia e finisce sempre con una preghiera, per
ricordarci da dove viene la pace veritiera, e se un capo religioso
fa il mediatore può ispirare un affidamento che spesso manca ai
politici.
Non tutti sono
contenti dell’intervento della Chiesa nei temi spinosi. Ho sentito
dire più di una religiosa, di quelle che lavorano con noi, che
alle sue superiore non piacciono “che le sue suore si mettano
in
temi politici”, e quando si vuole dialogare con i dirigenti del
governo non manca mai chi esprime la sua disapprovazione per il
fatto che i capi religiosi si occupino di quei problemi…che loro
stessi non sono stati capaci di risolvere. Una particolarità, che
mi fa sorridere, dei gruppi cristiani che lavorano per la pace è
che se il dialogo ha esito altri si prendono il merito e se
fallisce i colpevoli sono quelli che hanno cercato di fare
qualcosa.
Uno dei meriti
del vescovo Ochola è che sa resistere alla tentazione di
presentarsi come un salvatore. È normale nelle società che
soffrono un’oppressione intollerabile la speranza di un messia
capace di risolvere tutto per loro fulmineamente. È più difficile
convincere gli oppressi che la soluzione dei problemi complicati
di solito impiega molto tempo e che per affrontarli c’è bisogno di
uno spirito di sacrificio, lavoro in gruppo, e soprattutto fede,
giacché può arrivare lo scoraggiamento e
la domanda se veramente esista una soluzione. “Sì, esiste -afferma Ochola -;
senza perdono non c’è futuro”.
Mi colpisce sentire questo da un uomo che ho visto parecchie
volte, contenere le lacrime ricordando sua moglie, ammazzata per
una mina quattro anni fa.
P. José Carlos Rodriguez Soto -
Articolo pubblicato in spagnolo
in “Sin fronteras”, Settembre 2002
|
A
PROPOSITO DI ‘BABY BOOM’, GIUSTIZIA E SVILUPPO
L'Africa è al palo e rischia davvero grosso secondo uno studio
sulle proiezioni demografiche effettuato dal ’World Population
Data Sheet’, di cui ieri ha dato notizia l’Irin, agenzia
d’informazione dell’Onu. Il continente nero, tra meno di
cinquant’anni (entro il 2050), sarà popolato da oltre un
miliardo di persone. Una crescita sostanziale se si considera che
lo scorso anno gli abitanti erano circa 880 milioni. Naturalmente,
questo ‘trend’, nelle previsioni degli esperti, acuirà i già
mille problemi che affliggono Paesi già tormentati da guerre e
carestie. Al di là della solita diatriba, anticoncezionale sì,
anticoncezionale no, sarebbe opportuno capire una volta per tutte
che la questione demografica è l’effetto del sottosviluppo e
non la causa. Quando all’inizio degli anni ’60 nello Stato di
New York mancò la corrente per soli tre giorni, essendo molta
gente costretta a stare in casa, si verificò quello che i
sociologi del tempo definirono il ‘baby boom’ del secolo. I
reparti di ostetricia, nove mesi dopo il fatidico black-out,
furono invasi da un numero impressionante di mamme gravide. Cosa
dire allora di molte regioni dell’Africa, dove non manca solo la
corrente, e non solo da tre giorni? È dimostrato, infatti, che
l’innalzamento della soglia di benessere riduce il tasso di
natalità. Ecco perché è importante aiutare l’Africa. Le
emergenze, lo sappiamo, sono tante e non vanno ignorate: pena, la
bocciatura della storia. Il fenomeno migratorio, dal Sud verso il
Nord, lo si voglia o no, è la cuspide del malessere che affligge
tante periferie africane. Nel continente, dappertutto - noi della MISNA
lo scriviamo tutti i giorni - circolano moltitudini di
profughi, muoiono 2 milioni e mezzo di persone all’anno di Aids
e, nonostante tutte le parole profuse nei grandi summit
internazionali, ancora si stenta a trovare il cibo per sfamare le
popolazioni colpite dalla carestia nel Corno e nel settore
Australe. Per non parlare dei numerosi conflitti ancora in
atto: dalla Liberia al Burundi, dal Nord Uganda alle regione
congolese dell'Ituri. A ciò si aggiungono elementi più
strutturali, che vanno dalla lentezza nella cancellazione del debito
estero con i privati, che pesa come una sorta di spada di
Damocle su tante economie africane, alla persistente esiguità
dell’aiuto pubblico allo sviluppo. Nel frattempo, la riforma del
commercio mondiale, nel senso di un maggior rispetto delle regole
del libero scambio contro il protezionismo occidentale, tarda a
venire. A parte il Nepad, il Nuovo partenariato per lo
sviluppo africano, che chissà quando e come riuscirà a
canalizzare nuove risorse verso l’Africa, i flussi finanziari
destinati all’investimento produttivo sono ruscelli - in
sostanza, una questione di piccola ragioneria - contabilizzabili
in modesti milioni di euro quando, ironia della sorte, non solo i
bisogni, ma le stesse potenzialità economiche di sviluppo ne
reclamerebbero tanti, ma tanti di più. Alla luce, poi, dei nuovi
scenari della guerra contro il terrorismo, si va profilando
un’inquietante opzione militare africana. Come se il continente
non avesse sufficienti problemi per conto suo e dovesse farsi
carico di crucci altri. Ma al di là di tutto, occorre valutare
fino a che punto l'Africa sia davvero in grado di sopportare tutto
questo inammissibile fardello fatto di miserie, guerre e malattie.
Vengono alle mente le belle parole di Albert Tévoédjrè,
in un suo celebre libro uscito 25 anni fa nella sua edizione
italiana, ‘Povertà, ricchezza dei Popoli’. Nella prospettiva
di ridisegnare la politica e l’economia dell’allora Terzo
Mondo, l’intellettuale beninese apriva il quarto capitolo del
suo libro con una poesia di Salvador Diaz Miròn:
“Sappiatelo, sovrani e vassalli, eminenze e mendicanti, nessuno
avrà diritto al superfluo, finché uno solo mancherà del
necessario.” E continuava insistendo, con esempi concreti ed
ampie citazioni, sul valore della Povertà praticata da tutti,
ma soprattutto a partire dai dirigenti di un Paese che con onestà
e responsabilità scelgono di essere di esempio al proprio popolo.
È ed è questa la vera questione di fondo: l’Africa ha
davvero bisogno di leader illuminati capaci d’essere, come
scriveva lo stesso Tévoédjrè, “prima di tutto dei dirigenti
della vita sociale”, servitori della ‘res publica’ intesa
come ‘bene comune’. Per questa ragione, il futuro
dell’Africa è nelle mani della società civile,
l’unica capace di farsi davvero interprete delle più genuine
istanze di rinnovamento. “Se l’amore per il potere – si
domandava ironicamente Tévoédjrè - conduce a non dormire due
notti di seguito sotto lo stesso tetto o a tremare ogni volta che
un cane abbaia; se esercitare il potere significa distruggere gli
altri col fuoco e fare distruggere se stessi, dov’è dunque il
vantaggio di una tale impresa?”. L’interrogativo è quanto mai
attuale per molti dei capi di Stato che un paio di settimane fa
hanno partecipato al vertice dell’Unione Africana a Maputo. Non
facciamo nomi!
(articolo
di padre Giulio Albanese)
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MISNA
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UGANDA 22/12/2003 2:09
NATALE
NEL SUD DEL MONDO:
NEL
BUIO DI KITGUM, ASPETTANDO LA LUCE DELLA PACE
Il
regalo più bello lo hanno ricevuto gli oltre 600 bambini
‘rifugiati’ nella parrocchia di Kitgum, periferia desolata
nella ‘terra dei ribelli’ del nord Uganda. Potranno
trascorrere il Natale nelle capanne con le proprie famiglie,
approfittando dell’apparente tregua concessa dagli ‘olum’, i
miliziani dell’Esercito di resistenza del signore (Lra) al soldo
di Joesph Kony, che da 17 anni impediscono alla popolazione dei
distretti settentrionali del Paese di vivere una vita normale. Il
clima natalizio, come per il resto dell’anno, a queste
latitudini poco lontane dall’Equatore ha sempre lo stesso
colore: quello dell’insicurezza e della paura. “Come al solito
si sente sparare di notte e l’incertezza ci accompagna ogni
giorno” racconta alla MISNA il comboniano Tarcisio Pazzaglia, 67
anni, raggiunto telefonicamente nella parrocchia di Kitgum, circa
500 chilometri a nord di Kampala. “Quest’anno abbiamo una
speranza in più: che la comunità internazionale si impegni
maggiormente – aggiunge – anche perché le parole del
sottosegretario delle Nazioni Unite hanno avuto molta eco anche
qui”. All’inizio di novembre il norvegese Jan Egeland,
sottosegretario generale dell’Onu per gli affari umanitari, si
era recato in visita nel nord Uganda, denunciando la “scandalosa
vergogna morale” di questo conflitto e delle condizioni in cui
vivono centinaia di migliaia di civili, in una situazione
“peggiore dell’Iraq”. “Neanche quest’anno potremo
celebrare la messa di mezzanotte, sarebbe troppo rischioso per le
persone che vi partecipano” continua padre Pazzaglia,
missionario in Uganda da quasi quarant’anni. “Nelle ultime
settimane sembra diminuito il numero di attacchi da parte dei
ribelli, anche se continuano imboscate, saccheggi, furti. Gli
abitanti delle zone più isolate sono tutti accampati nei
cosiddetti ‘villaggi protetti’, dove l’esercito dovrebbe
garantire la loro sicurezza e molta gente non potrà partecipare
alla messa di Natale” aggiunge il comboniano. Eppure, fa notare
padre Pazzaglia, anche qui come altrove c’è voglia di festa, di
normalità. “Nonostante la miseria e la povertà, il 25 dicembre
rappresenta un momento di gioia famigliare, di cose semplici che
di solito mancano nelle case. Molte donne mi hanno detto che
desidererebbero un vestito nuovo da regalare ai loro figli per
Natale, oppure un paio di scarpe o mangiare carne per un
giorno”. Approfittando dell’apparente e relativa ‘tranquillità’,
padre Pazzaglia e i responsabili della parrocchia di Kitgum hanno
deciso di mandare a casa i circa 600 bambini abitualmente
ospitati. “Questo sarà per loro un piccolo regalo”. E la
speranza del Natale, qui, porta il nome di Lacot, una
ragazza rapita insieme a decine di altre ad Acholibur, nella
boscaglia diradata a pochi chilometri dal Sudan. “I ribelli le
hanno tagliato le dita – racconta con voce quasi commossa il
missionario – e lei si è ritrovata in ospedale accanto al
miliziano che gliele aveva amputate. Lo ha perdonato e gli ha
detto: “So che lo hai fatto perché ti è stato ordinato. Ora
però, con le tue mani dovrai compiere i gesti di buona volontà
che le mie mani non possono più”. (di Emiliano Bos)
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Non
diteci chi muore (e perché)
GIULIETTO CHIESA
A
volte succede che le coincidenze aiutino a
capire, d'un tratto, cose che prima non si vedevano con chiarezza.
Cose che magari già sapevi, o credevi di sapere, ma che non ti
erano mai apparse così brutalmente evidenti. Stavo leggendo
l'ultimo libro uscito in Italia di Noam Chomsky, «Dopo l'11
Settembre, Potere e Terrore» (Tropea Editore), e mi ero
soffermato su questo passaggio: «El Salvador diventò
effettivamente il principale destinatario di aiuti militari
statunitensi dell'epoca (con le eccezioni di Israele e Egitto, che
costituiscono una categoria a sé) e commise alcune delle atrocità
più efferate. La guerra contro il terrorismo ebbe successo. Se
volete sapere di che genere di successo si tratti, vi basta dare
un'occhiata ai documenti prodotti dalla famigerata School of the
Americas. Uno dei suoi slogan, o "argomenti di
discussione" è (sto citando) che l'esercito statunitense
"ha contribuito a sconfiggere la teologia della
liberazione"». Molto vero. Uno degli obiettivi principali
della guerra contro il terrorismo era la Chiesa cattolica, che
aveva commesso il grave errore di indirizzarsi verso quella che
chiamava "opzione preferenziale per i poveri e quindi
meritava di essere punita". El Salvador ne è un esempio
drammatico. Gli anni `80 si aprirono con l'assassinio di un
arcivescovo e terminarono con l'uccisione di sei importanti
intellettuali gesuiti. Così l'esercito americano sconfisse la
teologia della liberazione». Avevo appena chiuso il libro che,
guardando la posta elettronica, ho visto la notizia giunta da
Bogotà, dalla Commissione Interecclesiale Giustizia e Pace, il 13
agosto. Diceva che, nelle città di Villavicencio e di El Castillo,
erano stati assassinati Rinaldo Perdomo e Padro Torres, difensori
dei diritti umani in una regione dove agisce la Forza di
Spiegamento Rapido (Fudra) e il Battaglione 21, «Vargas». Sono
le forze scelte colombiane, armate e addestrate dall'esercito
degli Stati uniti. Chi uccide non sono loro. Non direttamente.
Entrambi sono stati assassinati da persone in abiti civili, gruppi
degli squadroni della morte, che agiscono impuniti. Il comunicato
di Giustizia e Pace non accusava nessuno: faceva solo un elenco
dei morti più recenti: Delio Vargas, Josue Goraldo, Osvaldo
Gonzales, Gonzalo Zarate, Eder Castano, Pedro Malagon. E poi tanti
puntini di sospensione, perché l'elenco è lungo migliaia di
nomi. Di uccisi «perché, semplicemente si erano messi dalla
parte della democrazia, del pane e della libertà, perché
pensavano che quei diritti fossero la condizione per la pace».
E' la Chiesa cattolica laggiù, in Colombia, come a El Salvador,
come altrove, che difende quei valori. Chomsky ha commesso un solo
errore, nella sua tremenda e cruda analisi. Ha dato per sconfitta
la «teologia della liberazione». Invece non lo è ancora. Poi,
la sera, mi è giunta un'altra notizia triste, via mail
naturalmente. Mi sono messo davanti al telegionale italiano (non
importa quale, perché sono tutti uguali), a sentire parlare per
mezz'ora di insulsaggini a proposito del caldo estivo. A lungo ho
aspettato che quella notizia venisse riportata dal telegionale.
Erano stati uccisi in un paese africano, Uganda, due padri
comboniani. Alla fine l'hanno data, la notizia, dopo parecchia
robaccia di cronaca nera e rosa, di spiagge affollate, di esodi
automobilistici. Nessuna spiegazione, nessun approfondimento.
Ammazzati e basta. Neanche i loro nomi hanno detto. Eppure non era
difficile, volendo, procurarseli.
Sono andato su Misna e li ho
trascritti: padre Godfrey Kiryowa, 29 anni, ugandese, e padre
Mario Mantovani, 84 anni, di Orzinuovi, provincia di Brescia.
Allora mi sono ricordato che qualche giorno prima, per due giovani
sposi italiani annegati in Messico in vacanza, il telegiornale
(non importa quale) aveva addirittura fatto un servizio, con
interviste, fotografie, e molto sentimento. E, naturalmente, con
nomi e cognomi. Suprema dimostrazione dell'indecoroso livello
professionale, intellettuale e morale dei giornalisti italiani che
hanno firmato quei servizi e dei direttori che li hanno fatti
passare colpendo il pubblico con i bastoni della loro scorrettezza
deontologica.
Allora, prima di addormentarmi, sono andato a leggere il seguito
di Noam Chomsky. Ve lo ripropongo, magari sperando che lo leggano
quelli che hanno fatto quel telegiornale, e tanti altri
giornalisti, e cattolici, che erano in ferie a godersi il gran
caldo di questa estate: «Un aspetto interessante della nostra
comunità intellettuale è che nessuno ne sa niente. Se forze
appoggiate dai russi, armate dai russi, addestrate dai russi
avessero assassinato in Cecoslovacchia sei intellettuali di spicco
e un arcivescovo, lo avremmo saputo. Avremmo conosciuto i loro
nomi e letto i loro libri. Potete fare, però, un piccolo
esperimento: scoprite, tra le persone istruite che conoscete,
quanti conoscono almeno i nomi di quegli intellettuali gesuiti,
importanti intellettuali latinoamericani uccisi da forze speciali
armate e addestrate da noi, o dell'arcivescovo, o delle altre
settantamila vittime, che per la maggior parte, come al solito,
erano contadini».
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Sgozzato
come una guerra che non parla più di sè
Suor Dorina dall'Italia ripensa al padre
comboniano Luciano
Fulvi, che ha trovato sgozzato nella sua casa il 31
marzo 2004 a Gulu. Essendo medico ha potuto farne l’autopsia e
preparare la salma per la sepoltura.
Sulle circostanze della sua morte non è
stata fatta sufficiente chiarezza (perciò sarebbe necessaria
un’indagine di una procura italiana): la versione ufficiale
attribuisce l’omicidio a dei rapinatori, già arrestati, ma
alcuni pensano che la sua morte sia stata premeditata da militari
o servizi segreti, forse intenzionati a colpire un religioso
sensibile e impegnato nell’educazione dei giovani alla pace e
alla vita cristiana, in un paese in guerra da 18 anni.
Così lo descrive suor Dorina, attualmente
vicaria generale delle suore comboniane: “Era sempre
sorridente accogliente, pronto e disponibile, con una generosità
che sconcertava. Con lui si respirava un senso di libertà e
apertura di orizzonti. Uomo positivo sulle persone e le
situazioni, prete con una grande ricchezza spirituale, missionario
entusiasta della sua vocazione. A Gulu era
riuscito
a far partire molte iniziative o ad animare quelle che stentavano
a prendere il volo, come
l’associazione dei Religiosi, il gruppo di animazione
vocazionale e missionaria dell’ Arcidiocesi, la pastorale
giovanile Diocesana, il movimento degli studenti cristiani
ugandesi. Il dolore dei giovani, laici, religiosi che l’avevano
conosciuto e amato è stato inconsolabile”.
Storia di
martirio e di vita anche la sua.
Originario di Pescia in provincia di Lucca,
ha fatto 22 anni di missione in Uganda e per 25 anni è stato
formatore di seminaristi comboniani in Inghilterra. E’ morto
ammazzato a 76 anni nell’Uganda in cui aveva accettato di
tornare, nonostante una grave
operazione al cuore con 5 by-pass.
In una lettera
scritta ad un amico il 27 marzo, tre giorni prima di morire, P.
Luciano aveva scritto: “Quando lavoriamo con gli esseri umani
e con i loro problemi ci occorre pazienza, che deve essere
‘divina’ e senza limiti di tempo… Una persona trova la pace
solo in una relazione di amore personale con la persona di
Cristo”.
I superiori dei
comboniani e delle comboniane dopo la sua morte hanno denunciato“
la grave disattenzione della stampa internazionale sulle guerre
africane, invitando tutti gli operatori dell’informazione a dare
voce ai popoli sofferenti del continente. Siamo certi che il
sacrificio di padre Fulvi e di altri 14 missionari comboniani e
una comboniana, consumatisi in terra ugandese nell’arco di
questi ultimi trent’anni, rappresenti uno straordinario segno di
fratellanza universale”.
Il dono della vita di P. Fulvi dovrebbe
servire da richiamo per tutti: per i governi e le istituzioni
internazionali perchè intervengano a favorire soluzioni ai
conflitti, alla miseria, alle malattie dell’Angola e
dell’Uganda (come richiesto dai missionari e da tante
organizzazioni impegnate nella “Campagna
pace in Uganda”), per i mezzi di comunicazione perchè si
occupino maggiormente di questi paesi dimenticati, per tanta gente
dei nostri paesi del benessere, perchè seguendo l’esempio di P.
Luciano, non ci lasciamo andare in un’esistenza egoistica,
annoiata o affannata all’inseguimento di cose futili.
(a cura di Pierangelo Monti)
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Storie di uomini,
donne e bimbi |
Il grido del Nord Uganda
nella voce
di una donna Acholi
Il
nord Uganda negli ultimi mesi sta sprofondando in una enorme crisi
umanitaria. Il dramma che coinvolge il
popolo Acholi è un genocidio che ha massacrato migliaia di vite
umane, distrutto famiglie. Da metà 2002 i ribelli
dell’“Esercito di Resistenza del Signore” (LRA) sono tornati nel
nord del paese devastando le missioni. Le scorribande sanguinarie
che da anni tormentano l’area settentrionale ugandese si sono
trasformate in rapimenti “consuetudinari” a largo raggio:
centinaia di ragazzi destinati a divenire guerriglieri e centinaia
di bambine il cui destino è segnato, schiave o concubine dei
ribelli; il numero degli sfollati ha superato quota 800mila molti
dei quali corrono il rischio di malnutrizione.
L’Uganda, da più di quindici anni
è sotto posta ad una tortura ingiusta, voluta da chissà chi per i
propri interessi. In Uganda i bambini
sono rapiti (sino ad oggi circa 10.000) dal Lord’s
Resistance Army, guerriglieri provenienti dal Sud Sudan, e
costretti a combattere. Bambini
(la loro età è compresa tra i 7 e i 18 anni) che si trasformano
bruscamente in uomini senza poter più conoscere la spensieratezza,
l’allegria e la gioia del gioco; bambini che diventano carne da
macello e da alcova. I maschi sono usati come combattenti, le
femmine rappresentano dei “regali” da dare ai vari guerriglieri.
Bambini strappati dalle loro case, dalle scuole, dai loro genitori
sia di notte sia di giorno. Chi tenta di fuggire e viene ripreso è
ucciso a bastonato da altri bambini-soldato costretti, se vogliono
sopravvivere, ad ammazzarlo; questo trattamento è riservato anche
alla famiglia del fuggitivo. Dobbiamo
aiutare e salvare chi è ancora vivo e tenuto prigioniero dai
guerriglieri, senza però scordare che una volta liberati si
ritrovano in un mondo che non è più il loro, traumatizzati da
esperienze che non potranno mai scordare. Chi ha la
fortuna di essere liberato si trova catapultato in un altro
inferno. Molto spesso questi bambini non hanno più una famiglia, o
i parenti non possono permettersi di accudirli, la riabilitazione
è di circa 2 o 3 mesi, insufficienti per aiutarli seriamente ad
affrontare una nuova vita e così si trasformano in ragazzi di
strada costretti a rubare per sopravvivere.
I militari governativi non fanno
nulla per migliorare la situazione e difendere il popolo dagli
abusi commessi dai ribelli, anzi sempre più spesso loro stessi
commettono crimini contro la popolazione, ammazzando o derubando
le persone ai posti di blocchi (come è avvenuto a
Kitgum, Pader, Ngora) o saccheggiando le
capanne. Il più delle volte questi fatti vengono
taciuti dalla stampa di Kampala, anzi le gesta dei soldati vengono
esaltate e ritenute più che efficaci e di successo per combattere
i ribelli.
La terra del Nord Uganda non conosce tregua
al dolore,
la vita è solo un lungo calvario. Il mio
popolo vive un’emergenza che si è trasformata in un vero e proprio
massacro di vite umane, paura e incertezza sono diventati una
costante nella vita della mia gente.
L’indifferenza alla morte del mio popolo delle autorità
internazionali è un’ulteriore ferita che affonda la poca speranza
della mia gente in disperazione.
Non abbiamo più neppure la forza di piangere, non c’è fine a
questo dramma.
Nei mesi
scorsi a Gulu si sono riuniti i leader religiosi del Nord Uganda (Acholi
religious leaders peace iniziative), a fine dell’assemblea hanno
stilato un documento di denuncia della tragica situazione in cui
vivono, un messaggio di dolore e sofferenza rivolto all’intero
mondo. Nel documento i religiosi “parlano” direttamente ai ribelli
e alle autorità di Kampala chiedendo disperatamente una soluzione
pacifica, richiamando anche l’intera comunità internazionale “…
Non guardate alla nostra tragedia da lontano
e non ritardate l’invio di aiuti umanitari.
Non mettete una cortina di
silenzio ai mass media internazionali sui nostri gravi problemi”.
E’ ora di
uscire da questo torpore di indifferenza e denunciare ad alta voce
gli abusi che il popolo ugandese sta subendo.
Ora basta!
Non si può vivere tranquillamente consapevoli di ciò che accade
nel cuore dell’Africa. Come possiamo definirci essere umani, con
una coscienza di vita se accettiamo impunemente tutto ciò?
Non ho più
parole per esprimere il mio dolore e la mia delusione nei
confronti di chi sapeva da tempo, poteva intervenire e non ha
fatto nulla. Nord Uganda e Sud Sudan sono, forse, argomenti poco
interessanti per l’attenzione internazionali? Il rapimento dei
bambini e il loro sfruttamento avviene ininterrottamente da 15
anni. Della tribù degli Acholi nessuno ne para e la morte continua
ad imperversare tra il mio popolo quotidianamente.
Migliaia di vite umane sono spezzate e ogni
giorno che passa lasciamo che tutto avvenga nella più completa
indifferenza.
Aiutiamo il popolo Acholi e chi lo sostiene, perché
ogni morte è una sconfitta per l’umanità!
E’ importante ascoltare con attenzione
l’urlo di aiuto che grida il mio popolo.
Non lasciate gridare
queste voci inutilmente! L’unità del cuore è ciò di cui
abbiamo bisogno tutti indistintamente e solo con questa potremo
vivere la rinascita di noi stessi e sostenere la vita.
Prisca Ojok Auma
Prisca
è una donna Acholi emigrata in Italia: lei e la sua famiglia ha
sofferto le conseguenze del conflitto. Per questo motivo è molto
impegnata a favore del proprio popolo mediante la collaborazione
con molte organizzazioni che mirano alla promozione di progetti di
riabilitazione dei bambini-soldato. L’articolo è la testimonianza
condivisa nell’incontro Il grido del Nord Uganda(2002)
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La storia
di John
“Sono vissuto
per quasi tre anni con Kony- racconta John, un giovane alto di 17
anni. I soldati sono venuti di notte al mio paese e hanno
distrutto tutte le case. Sono stato catturato insieme con altri
dieci bambini. Siamo stati costretti a camminare notte e giorno
durante un mese. Ci hanno addottrinato, dovevamo dimenticare
nostri affetti e rinascere nella comunità degli eletti. La
disciplina era molto dura e l’addestramento principale era quello
di correre durante parecchie ore con un sacco di pietre sulle
spalle.
Sapevamo che il comando era una parola: uccidere.
Assassinare la
nostra gente”. Un giorno John decise fuggire e cosi arrivò
all’ospedale di Gulu.
La
storia di Mary
“Sono stata
catturata come John, ma non allo stesso tempo. Colui che mi
tormentava aveva il soprannome di Palaro, un capo dei ribelli.
Ma è costretta a diventare
la sua terza moglie. Dovevo portare tutti giorni l’acqua affinché
lui si lavasse, dargli da mangiare inginocchiata e dormire con lui
quando cosi desiderava”. Un dramma indescrivibile vissuto per tre
anni e mezzo. “Una notte decido di fuggire insieme con altre tre
bambine della mia età. Abbiamo camminato giorno e notte. Le gambe
erano stanche però solo ci fermavamo per mangiare, giacche la
paura di essere catturate nuovamente era terribile: era meglio
morire. Finalmente, dopo una settimana ci siamo sentite libere”,
Mary raggiunge l’obiettivo, ritornare al suo villaggio, ma la
sofferenza di Mary non è finita perché è stata contagiata
dall’AIDS.
“La violenza a
cui sono stata sottomessa non voglio ricordarla mai più,
soltanto mi chiedo:
come mai nessuno si preoccupa dei bambini e bambine sequestrati
dalla guerriglia?
La sofferenza non è solo per quello che ci hanno tolto, ma anche perciò che ci è rimasto”.
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