Nord Uganda:

 una guerra dimenticata

   

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Per capirne di più

I ribelli del Nord scheda per capire il conflitto 

MISNA 21/11/03

Il dramma dimenticato del Nord Uganda (di P.José Carlos Rodriguez lavora per la Commissione “Giustizia e Pace” della diocesi di Gulu)

Leggi la scheda di WarNews sul conflitto in Uganda, nel Sud-Sudan e nella R.D. Congo

Guerre in Africa, giustizia e sviluppo (di p. Giulio Albanese)

Mons. Baker Ochola, vescovo anglicano di Kitgum

Storie di uomini, donne e bimbi

 

 

 

 

Prisca: Il grido del Nord Uganda nella voce di una donna Acholi

 

 

La storia di John quella di Mary 

 

 

 

 

Per capirne di più

I ribelli del Nord

scheda per capire il conflitto 

MISNA 21/11/03

La guerra in Nord Uganda è una delle più feroci tra quelle che insanguinano il continente africano. In apparenza, potrebbe trattarsi di un conflitto locale, ma la realtà va ben al di là di ogni immaginazione. I ribelli del sedicente Esercito di resistenza del signore (Lra) - gli "olum" in lingua acholi - seminano ogni giorno morte e distruzione nei distretti di Gulu, Kitgum, Pader, Lira, Apac Katakwi e Soroti. I guerriglieri, agli ordini di Joseph Kony, un pazzo visionario al soldo del governo sudanese, secondo le cronache, si spingono sempre più a sud, con l'intento dichiarato di destituire il presidente Yoweri Museveni. La storia di questo gruppo armato affonda le radici nel passato. Nel 1988, a seguito della sconfitta militare di Alice Lakwena, leader di una fazione antigovernativa denominata "Esercito dello spirito santo", sembrava che Museveni avesse ormai il controllo del Paese dopo aver espugnato nel gennaio del 1986 la capitale, Kampala, defenestrando i generali Basilio Olara Okello e Basilio Okello. Ma fu proprio in quegli anni che un presunto cugino della Lakwena, Joseph Kony, fondò un nuovo gruppo armato denominato prima "Forza mobile dello spirito santo" e successivamente "Esercito di resistenza del signore". I giovani combattenti dell'Lra lo definiscono un "santo maestro", un "profeta buono", come se la loro ragione fosse stata azzerata da chissà quale malefico artificio. E c'è addirittura chi parla di un'ipnosi collettiva operata dal padre fondatore dell'Lra, un "pazzo lucido" che vuole imporre a tutti i costi il decalogo dell'Antico Testamento al posto della costituzione attualmente in vigore in Uganda. Il suo credo è un miscuglio di credenze che legittimano il ricorso alla violenza contro chiunque intenda protestare con l'uso della ragione o del semplice buon senso. D'altro canto, risulta assai arduo comprendere la follia di donne guerrigliere come Mary e Agnes che assaltano le missioni cattoliche, picchiando a sangue la gente e sparando all'impazzata all'interno degli edifici parrocchiali, nonostante abbiano sulle spalle i loro neonati che allattano tra un combattimento e l'altro. Nato a Odek, nei pressi di Opit, nel distretto di Gulu, il capo degli "olum" aveva manifestato sin da bambino profondi segni di squilibrio. I suoi genitori lo affidarono ad uno stregone locale. Sua madre raccontò a padre Raffaele Di Bari - missionario comboniano ucciso dallo Lra il 1 ottobre del 2000 -, che il figlio era stato sottoposto ad una sorta d'esorcismo. Con il risultato, disse sempre la donna, di essere posseduto permanentemente da uno "spirito di guarigione". La verità è che, negli anni, il suo stato mentale è peggiorato notevolmente. Nel 1994, a seguito di un contatto diretto con l'esercito governativo sudanese, Kony s'impegnò a combattere contro Kampala reclutando con la violenza bambini (prevalentemente dagli 8 ai 16 anni) nei distretti "acholi" e "lango" del Nord Uganda. In cambio, le autorità sudanesi decisero di fornire armi e munizioni, oltre che concedere ai ribelli le basi operative sul proprio territorio a Jabulen (Equatoria, Sud Sudan), al 39° miglio sulla strada che collega Juba a Nimule. Per ammissione dello stesso presidente sudanese Omar Hassan el-Bashir, prima che le relazioni tra Khartum e Kampala si normalizzassero, un paio d'anni fa, l'Lra è stato appoggiato per oltre un decennio dal suo esercito, in funzione anti-ugandese. Ma testimonianze dirette, raccolte in questi mesi dalla società civile, smentiscono le affermazioni del leader sudanese. Khartum continua infatti ad appoggiare Kony, fornendo equipaggiamento militare ai ribelli e recapitandolo a Nisitu, una località a sud di Juba controllata dallo Lra. In effetti, la riconquista della cittadina sudsudanese di Torit da parte dei governativi sudanesi, avvenuta lo scorso anno, sarebbe stata possibile proprio grazie all'aiuto dell'Lra. Nel frattempo Kampala continua a essere un fedele alleato di John Garang, leader storico dello Spla (Esercito popolare di liberazione del Sudan), formazione antigovernativa sudsudanese. Alcuni osservatori ritengono che un accordo di pace tra il governo sudanese e lo Spla, in fase di definizione a Naivasha in Kenya, possa giovare anche alla causa di pacificazione nel Nord Uganda. Altresì il gruppo di Kony sembra ormai una scheggia impazzita che solo un contingente militare internazionale (una forza di "peacekeeping", sotto l'egida dell'Onu) potrebbe arrestare. Il fatto poi che l'esercito governativo non sia mai riuscito a piegare gli "olum", secondo fonti dell'opposizione ugandese, dimostra la scarsa volontà politica di Museveni di risolvere il problema. Kampala, infatti, dispone di truppe ben addestrate che hanno operato per anni in Congo. Viene il dubbio - affermano molti osservatori - che la guerra nel Nord del Paese serva a tenere a bada gli acholi, tradizionalmente ostili nei confronti del leader ugandese. In questi anni i ribelli hanno ucciso anche due missionari: padre Egidio Biscaro e padre Di Bari. Il primo cadde in un'imboscata sulla strada tra Kitgum e Pajule il 29 gennaio del '90. Padre Di Bari fu invece assassinato dieci anni dopo. Secondo fonti ben informate, il numero dei ribelli è stimato attorno alle quattromila unità, di cui il 90 per cento risulta essere stato rapito in età preadolescenziale o adolescenziale. I bambini rapiti entrano a far parte del movimento solo dopo l'unzione (in acholi "wiro ki moo") che viene somministrata sul corpo della nuova recluta secondo un rituale ideato dallo stesso Kony. Lo scopo è duplice: serve a dare l'illusione che il giovane guerrigliero sia protetto dal fuoco delle pallottole e a vincolarlo al movimento attraverso un legame ritenuto dagli stessi ribelli indissolubile. Secondo monsignor John Bapist Odama, arcivescovo di Gulu, in questi anni i ribelli hanno sequestrato "oltre 20mila bambini e ucciso almeno 100mila persone". Ma egli stesso ammette che le cifre potrebbero essere addirittura molto più elevate considerando le difficoltà oggettive nel monitorare il conflitto. È per questo che il presule invoca un intervento della comunità internazionale prima che sia troppo tardi. Un proverbio acholi dice che "un pazzo è riconoscibile non solo dalle parole, ma soprattutto dalle azioni". È il caso di Kony e dei suoi crudeli seguaci. [CO]

Il dramma dimenticato del Nord Uganda

La regione del Nord Uganda conosciuta come Acholiland è oggi uno dei posti più tristi della terra. Sin dal 1986 soffre una guerra che ha causato circa 100.000 vittime. Circa 20.000 bambini sono stati rapiti. Le violazioni dei diritti umani sono innumerevoli. Le infrastrutture socioeconomiche sono state distrutte e circa 600.000 persone –la metà della popolazione– vive in condizioni infraumane. Il fatto che questa regione si trovi in una zona in cui non ci sono degli interessi strategici né risorse economiche importanti, può spiegare il basso interesse che questa tragedia ha sollevato nei fori internazionali.

  Le origini del conflitto

Quando vogliamo raccontare la storia di un conflitto la prima cosa che dobbiamo fare è accordarci sulla data dell’inizio. Poiché siamo in una nazione africana potremmo risalire fino al periodo coloniale, ma questo ci prenderebbe troppo tempo. Partendo da date più recenti, possiamo dire che la guerra nella regione Acholi è radicata nel tentativo di sviluppare un sistema di governo che integri le aspirazioni collettive di una società plurale come è la società ugandese, dove ci sono tante differenze tra le etnie del  Nord e del Sud. Diversi progetti etnici, politici e religiosi, hanno minato ogni volta il progetto di costruzione dell’Uganda come nazione. Sin dall’arrivo al potere di Idi Amin nel 1971 –e anche prima- il controllo del potere si è ottenuto e conservato attraverso l’uso della violenza, il che purtroppo non è niente strano alla politica africana.

Il conflitto in Acholiland cominciò pochi mesi dopo l’ultimo cambio di regime politico, nel 1986, quando il Movimento di Resistenza Nazionale di Yoweri Museveni, composto soprattutto da persone delle tribù del Sud della nazione, che avevano combattuto per cinque anni contro un governo dominato dalle etnie del Nord, abbatté il regime militare di Tito Okelo, un generale che proveniva dalla regione Acholi, e che aveva spodestato il presidente Milton Obote solo sei mesi prima. Molti fra i militari Acholi fuggirono verso il Sud Sudan ed altri nascosero le loro armi e restarono nelle loro case ad aspettare lo svolgimento degli avvenimenti.

Dopo sei mesi di relativa calma, alcune unità del nuovo esercito incominciarono a realizzare ogni sorta d’oltraggi contro la popolazione civile del Nord. Questo fu il detonatore che diede inizio alla ribellione contro il nuovo regime di Museveni. Gli antichi ufficiali di Okelo tornarono dal Sudan nell’Agosto del 1986. In questa maniera cominciò la guerra nel Nord Uganda, appoggiata in quel momento da una buona parte della popolazione, specialmente rurale. Come sempre accade, i gruppi umani scontenti che non hanno niente da perdere alimentano le ribellioni, pur essendo illogiche. Il primo gruppo ribelle si chiamava Esercito Popolare Democratico Ugandese (UPDA).

Alla fine del ‘86, una “maga” chiamata Alice Lakwena, che diceva di essere un medium che comunicava con diversi spiriti, prese il commando di alcune unità del UPDA e diede vita a un gruppo chiamato Movimento dello Spirito Santo. Movimento dello Spirito Santo.

Alla fine del 1987, l’esercito di Museveni soppresse l’avanzata dei ribelli di Lakwena a pochi chilometri di Jinja, la seconda città della nazione. Alice Lakwena fuggì in Quenia, dove ancora vive oggi, mentre il suo esercito si scioglieva e tornava al Nord per tentare di riorganizzarsi. Nel frattempo, accadde un fatto che contribuì all’impoverimento degli Acholi: i Karimiyong, una tribù vicina di pastori seminomadi ben fornita di fucili automatici, saccheggiarono per alcuni mesi i villaggi Acholi e uccisero molto bestiame – mucche, pecore e capri – che trovarono nel loro passaggio. Pochi dubitano che quel saccheggio che rovinò la base dell’economia rurale del popolo Acholi, fu realizzato per mandato del governo.

   Nuove complicazioni e sforzi per la pace

In quei giorni cominciò la prima negoziazione tra il governo di Museveni e l’UPDA. A giugno 1988 si arrivò a un accordo di pace per il quale gli ufficiali e le truppe dell’UPDA furono incorporati all’esercito regolare. Tuttavia la guerra non finì. Un piccolo gruppo del Movimento dello Spirito Santo rimase fuori dalle negoziazioni e decise di continuare la ribellione sotto il comando di un familiare di Alice Lakwena, Joseph Kony. La violenza nella regione Acholi continuò: la gente dovette abituarsi a vivere in questa insicurezza, alcune volte intermittente ed altre continua ed insopportabile.

Nel 1991 il Governo lanciò una durissima offensiva militare conosciuta come “Operazione Sesamo”: il governo isolò il Nord catturò molti oppositori politici del regime di Museveni. Il governo obbligò i contadini a unirsi alla caccia dei guerriglieri con qualsiasi arma potessero disporre. L’unico risultato reale di questa operazione fu infuriare ancora di più gli uomini di Kony che infierirono sugli infelici contadini, armati solo di ascia o arco e freccia, procurando loro delle terribili mutilazioni. Nell’Agosto del 1991 il governo annunciava che Kony era stato sconfitto. Molti credettero che l’incubo fosse ormai finito. Da quel momento fino alla metà del 1993 non ci furono atti di violenza e sembrava che la regione Acholi incominciasse a rialzarsi.

Ma, nel Nord Uganda, la pace non durò. Durante la seconda metà dell’anno 1993 i guerriglieri di Kony –conosciuti da questo momento con lo strano nome di “Esercito di Resistenza del Signore” o LRA- incominciarono a ricevere sostegno dal regime islamico del Sudan, con lo scopo di vendicarsi con l’Uganda per l’appoggio prestato da Museveni a John Garang, leader dei ribelli sudanesi dello SPLA. Tuttavia sarebbe più giusto dire che è stato il governo degli Stati Uniti ha fornire le armi ed ogni tipo di collaborazione allo SPLA attraverso la mediazione del governo Ugandese: il suo più fedele alleato nel continente africano.

Durante gli ultimi mesi dell’anno ‘93, dopo una fallita iniziativa di pace guidata da un ministro del governo, Betty Bigombe, i guerriglieri ripresero gli attacchi nella regione Acholi, quasi sempre contro la popolazione civile, incominciò così il periodo più crudele della guerra. il periodo più crudele della guerra.

La popolazione civile – soprattutto le donne ed i bambiniha smesso ormai di essere la vittima accidentale uccisa nel campo di battaglia, ma è diventata parte di una strategia diabolica dove l’unico intento è controllare, umiliare e distruggere la popolazione Acholi.

Quattro aspetti potrebbero definire questa violenza senza limiti:

1) Il rapimento di bambini per obbligarli combattere

 Il LRA da sempre fece uso del rapimento di civili per rinforzare le sue truppe, specialmente in momenti di debolezza numerica, ma a partire dall’anno 1994 il sequestro soprattutto di bambini e bambine ha acquisito proporzioni inaudite.  Si calcola che siano 20.000 i minori che hanno vissuto quest’esperienza indescrivibile. Per molti anni si è ripetuta la stessa storia: il LRA entra nel Nord Uganda, dalle sue basi oltre il confine in Sud Sudan, rimane lì alcuni mesi con continue azioni di rapimento di bambini, e li conduce legati in fila con corde verso i campi di addestramento in territorio sudanese. Lì sono addestrati nell’uso delle armi. Le ragazze, oltre a dover combattere, vengono abusate sessualmente dai comandanti. Per il Governo Sudanese è stato molto proficuo potere avere una riserva inesauribile di bambini soldato del LRA che hanno combattuto in prima linea contro lo SPLA. Questi stessi bambini, ormai diventati soldati, di ritorno in Uganda sono costretti a realizzare le peggiori atrocità proprio contro i loro familiari in modo che non tentino più la fuga non avendo più una famiglia pronta a riaccoglierli.

Oltre 10.000 bambini sono riusciti a fuggire. Arrivano psicologicamente distrutti, traumatizzati, spesso con malattie inguaribili. Migliaia di genitori nel Nord Uganda –alcuni dei quali hanno perso tutti i loro figli in una sola notte – vivono nella più assoluta disperazione. È possibile che la cifra di coloro che sono morti oltrepassi i 7.000. Il LRA è oggi un gruppo di ribelli formato da più dei tre quarti da bambini rapiti, che si comportano in una maniera estremamente crudele, più che qualsiasi altro adulto. La loro riabilitazione è tutt’altro che facile.

Altri bambini sono stati reclutati dall’esercito governativo Ugandese e sono stati mandati a combattere nella guerra del Congo. Il nostro ufficio di Giustizia e Pace ha denunciato in diverse occasioni il caso di bambini fuggiti dalla guerriglia e reclutati dall’esercito Ugandese.

 2) Gli attacchi contro bersagli civili

 Viaggiare per le strade del Nord Uganda è andare con l’anima in bilico, sempre con il rischio di venire uccisi in un agguato. Ormai sono comuni tragedie del tipo: i ribelli bloccano e sparano contro la vettura e i viaggiatori, saccheggiano di tutto ciò che può servire loro e poi bruciano la macchina o l’autobus, spesso con i feriti ancora dentro. Così è stato ucciso il missionario comboniano Raffaele Di Bari il primo Ottobre 2002 quando andava a celebrare la messa alla cappella di Pajule. Neppure i veicoli che portano gli aiuti umanitari dell’ONU o delle ONG sono salvi da questi attacchi mortiferi.

Il LRA attacca i villaggi e le periferie delle principali città (Gulu e Kitgum), specialmente di notte, bruciando centinaia di case. È diventato abituale dormire fra la sterpaglia, anche sotto la pioggia, o sotto l’atrio dei negozi nel centro delle città o nelle stanze delle missioni. I bambini ed i giovani che hanno la fortuna di studiare in un collegio tremano quando arrivano le vacanze e devono tornare a casa.

Il LRA in ogni razzia uccidono centinaia di persone con il solo intento di propagare il terrore.

 3) L’uso delle mine

 Dal 1994 il Governo del Sudan ha fornito il LRA di mine anticarro e di mine antiuomo. Come conseguenza di questo nuovo ingrediente delle guerra sporca, le persone mutilate sono diventate un elemento tragico in più di questa sofferenza senza fine. Nel 1999 anche l’esercito Ugandese ha minato vaste zone della regioni Acholi vicine alla frontiere col Sudan. Ciò ha reso impossibile il ritorno a casa degli abitanti di queste regioni rapiti e portati in Sudan.

 4) Il raggruppamento forzato della popolazione in campi di sfollati

 Nella regione Acholi ci sono 1.200.000 abitanti. La metà di essi abita in campi di sfollati conosciuti ufficialmente come “villaggi protetti”. Vivono in condizione infraumane per l’affollamento, la malnutrizione e la mancanza di protezione (spesso il distaccamento militare si trova al centro del campo: in pratica è la popolazione che protegge l’esercito). A partire dal 1996 l’esercito Ugandese obbligò le popolazioni di tante zone rurali a raggrupparsi in questi centri utilizzando dei mezzi discutibili: bombardamenti intimidatori.

L’ultimo caso è accaduto nel Settembre 2002: i capi militari hanno annunciato attraverso la radio che davano una scadenza di 48 ore perché la gente abbandonasse al più presto le proprie abitazioni nelle zone rurali per evitare di trovarsi al centro di combattimenti. Dall’altra parte, la guerriglia minacciava la popolazione perché non abbandonasse i villaggi.

La tensione alla quale la gente si trova sottomessa è insopportabile.

  L’ultima fase ed i nuovi tentativi di pace

 Nel 1999 c’è stato un periodo di undici mesi di calma in cui la guerriglia del LRA non usciva dai loro campi militari del Sud Sudan. Simultaneamente il Centro “Carter” realizzò un intenso lavoro diplomatico di mediazione fra i governi di Sudan ed Uganda. Si firmò un accordo fra le due nazioni nei primi giorni di dicembre di quell’anno. Un giorno dopo il parlamento Ugandese promulgava la legge di amnistia per ogni guerrigliero che lasciasse le armi. Tuttavia, i capi del LRA –che non avevano partecipato alle negoziazioni di pace promosse dal centro “Carter”– accolsero l’accordo di pace fra le due nazioni come una minaccia per la loro sopravvivenza. Perciò, due giorni prima del Natale del 1999, il LRA invase nuovamente la regione Acioli. La consueta spirale di violenza è ricominciata: agguati, assassinii , attacchi notturni, rapimenti di bambini. Se questo non bastasse anche un’epidemia di Ebola si è scatenata a Gulu nell’ottobre 2002: è durata quattro mesi ed ha ulteriormente isolato questa regione.

Malgrado tutto ciò, sembra che, dalla fine del 2000, il Sudan abbia smesso di fornire armamenti e appoggio logistico al LRA. Il LRA ha spostato le proprie basi più a Sud, vicine al confine e, in pratica, in terra di nessuno. Nel 2001 i leader religiosi sono riusciti a radunarsi con i comandanti del LRA nella foresta per tentare di convincerli ad accettare l’amnistia. Purtroppo i risultati sono stati scarsi.

Dopo l’11 settembre 2001, nel contesto della nuova cornice internazionale di lotta contro il terrorismo, sono accaduti due fatti che hanno avuto una speciale importanza nello svolgimento degli avvenimenti: il dipartimento di Stato ha dichiarato il LRA come movimento terrorista, ed il Sudan – sempre sotto osservazione degli Stati Uniti come nazione protettrice del terrorismo internazionale – ha deciso di dare un passo per dimostrare che era disposta non soltanto a smettere di appoggiare il LRA ma a collaborare per la sua distruzione. Nel marzo 2002 il Sudan ha firmato un protocollo in cui ha autorizzato l’esercito dell’Uganda ad entrare nel suo territorio per distruggere il LRA. E’ cominciata così l’operazione “Pugno di Ferro”, alla quale i diversi gruppi della società civile del Nord Uganda si sono opposti fin dall’inizio. La propaganda del Governo dell’Uganda ha ripetuto con insistenza che il LRA era eliminato quasi completamente. Tuttavia a giugno del 2002 migliaia di guerriglieri infuriati hanno invaso nuovamente il Nord Uganda. Ora il terrore si è scatenato come mai prima, e la morte sia a causa della violenza o la fame si accanisce sulla popolazione.     

 

P. José Carlos Rodriguez Soto

P.José Carlos Rodriguez lavora per la Commissione “Giustizia e Pace” della diocesi di Gulu ed appartiene all’associazione “Iniziativa Acioli per la Pace”. Essa è un gruppo composto dai leader religiosi delle differenti religioni presenti sul territorio (cattolici, anglicani e musulmani): insieme tentano di educare e di rispondere alla violenza con la non-violenza. Mediano pure fra i guerriglieri ed il Governo per aprire una via alla pace. Questo articolo è la traduzione di una sua conferenza tenuta a Madrid in dicembre del 2002.

 

MONS. BAKER OCHOLA: una candela nel buio

Vescovo anglicano di Kitgum, che sa resistere alla tentazione di presentarsi come il salvatore del suo popolo

In quest’occasione vorrei parlare di una persona notevole. Ogni giorno sentiamo parlare di gente considerata importante, ma spesso incrociamo persone realmente grandi senza rendercene conto. La persona in questione chiama Baker Ochola ed è vescovo anglicano di Kitgum, nel nord d’Uganda. Parla lentamente, con convinzione, di solito ornando il suo discorso con delle frasi bibliche e proverbi africani e sollevando la voce solo per difendere i deboli.

L’ultima volta l’ho trovato a casa sua. Alcuni giorni prima un gruppo di guerriglieri gli aveva buttato per terra la porta, rubato le poche cose che avevano trovato e sottoposto a sequestro cinque dei suoi cugini. Mi raccontò serenamente che essendo quello un luogo dove la gente povera soffre da quindici anni per gli assalti violenti, sia nei suoi viaggi, sia nella coltivazione dei campi o mentre riposano di notte, gli uomini di chiesa non devono mostrare paura né stupore quando arriva il momento di condividere la stessa sofferenza. Si rallegrava giacché i bambini erano fuggiti il giorno prima trovandosi adesso sani e salvi. Mi sono meravigliato sempre poiché quando egli parla di Chiesa si riferisce ai cristiani di qualsiasi denominazione.

Abbiamo parlato sotto un albero - praticamente il suo ufficio - dove di solito accoglie tutte le persone che vengono a trovarlo ogni giorno e dove egli ascolta per molte ore, le loro storie d’angustia e disperazione. A pochi metri c’è il resto di quella che è stata la macchina della sua diocesi, distrutta quattro anni fa a causa di una mina, in quell’occasione è morta sua moglie. Ogni volta che contemplo quei rottami immagino che sia una gran croce, il ricordo di una passione che non finisce in molte parti della terra. Di certo ha delle ragioni per le quali non li ha spostati fino ad oggi.

Baker Ochola sa ascoltare, nel mondo non ci sono molte persone che sappiano farlo. Prega, legge la Bibbia, predica con forza e quando lo fa perfino i suoi nemici lo ascoltano con rispetto. La tradizione anglicana, centrata nel servizio della parola di Dio ha dato all’Africa predicatori che hanno fatto successo come Desmond Tutu che hanno saputo trasmettere il messaggio evangelico distillando speranza alle folle scoraggiate.

Il nostro gruppo che lavora per la pace ha fatto dei raduni con la finalità di rimettere d'accordo due comunità rurali vicine colpite per gli incidenti violenti che hanno lasciato in pochi mesi, decine di morti e feriti. Il raduno di febbraio dell’anno scorso lo ha presieduto lui, e la sua presenza è stata d’aiuto per pacificare l’ambiente, e fare che le parti in confronto parlassero a faccia a faccia per la prima volta. Un raduno che cerca di risolvere i conflitti comincia e finisce sempre con una preghiera, per ricordarci da dove viene la pace veritiera, e se un capo religioso fa il mediatore può ispirare un affidamento che spesso manca ai politici.

Non tutti sono contenti dell’intervento della Chiesa nei temi spinosi. Ho sentito dire più di una religiosa, di quelle che lavorano con noi, che alle sue superiore non piacciono “che le sue suore si mettano in temi politici”, e quando si vuole dialogare con i dirigenti del governo non manca mai chi esprime la sua disapprovazione per il fatto che i capi religiosi si occupino di quei problemi…che loro stessi non sono stati capaci di risolvere.  Una particolarità, che mi fa sorridere, dei gruppi cristiani che lavorano per la pace è che se il dialogo ha esito altri si prendono il merito e se fallisce i colpevoli sono quelli che hanno cercato di fare qualcosa.

Uno dei meriti del vescovo Ochola è che sa resistere alla tentazione di presentarsi come un salvatore.  È normale nelle società che soffrono un’oppressione intollerabile la speranza di un messia capace di risolvere tutto per loro fulmineamente. È più difficile convincere gli oppressi che la soluzione dei problemi complicati di solito impiega molto tempo e che per affrontarli c’è bisogno di uno spirito di sacrificio, lavoro in gruppo, e soprattutto fede, giacché può arrivare lo scoraggiamento e la domanda se veramente esista una soluzione. “Sì, esiste -afferma Ochola -; senza perdono non c’è futuro”. Mi colpisce sentire questo da un uomo che ho visto parecchie volte, contenere le lacrime ricordando sua moglie, ammazzata per una mina quattro anni fa.

P. José Carlos Rodriguez Soto

Articolo pubblicato in spagnolo in “Sin fronteras”, Settembre 2002

 

A PROPOSITO DI ‘BABY BOOM’, GIUSTIZIA E SVILUPPO

  L'Africa è al palo e rischia davvero grosso secondo uno studio sulle proiezioni demografiche effettuato dal ’World Population Data Sheet’, di cui ieri ha dato notizia l’Irin, agenzia d’informazione dell’Onu. Il continente nero, tra meno di cinquant’anni (entro il 2050), sarà popolato da oltre un miliardo di persone. Una crescita sostanziale se si considera che lo scorso anno gli abitanti erano circa 880 milioni. Naturalmente, questo ‘trend’, nelle previsioni degli esperti, acuirà i già mille problemi che affliggono Paesi già tormentati da guerre e carestie. Al di là della solita diatriba, anticoncezionale sì, anticoncezionale no, sarebbe opportuno capire una volta per tutte che la questione demografica è l’effetto del sottosviluppo e non la causa. Quando all’inizio degli anni ’60 nello Stato di New York mancò la corrente per soli tre giorni, essendo molta gente costretta a stare in casa, si verificò quello che i sociologi del tempo definirono il ‘baby boom’ del secolo. I reparti di ostetricia, nove mesi dopo il fatidico black-out, furono invasi da un numero impressionante di mamme gravide. Cosa dire allora di molte regioni dell’Africa, dove non manca solo la corrente, e non solo da tre giorni? È dimostrato, infatti, che l’innalzamento della soglia di benessere riduce il tasso di natalità. Ecco perché è importante aiutare l’Africa. Le emergenze, lo sappiamo, sono tante e non vanno ignorate: pena, la bocciatura della storia. Il fenomeno migratorio, dal Sud verso il Nord, lo si voglia o no, è la cuspide del malessere che affligge tante periferie africane. Nel continente, dappertutto - noi della MISNA lo scriviamo tutti i giorni - circolano moltitudini di profughi, muoiono 2 milioni e mezzo di persone all’anno di Aids e, nonostante tutte le parole profuse nei grandi summit internazionali, ancora si stenta a trovare il cibo per sfamare le popolazioni colpite dalla carestia nel Corno e nel settore Australe. Per non parlare dei numerosi conflitti ancora in atto: dalla Liberia al Burundi, dal Nord Uganda alle regione congolese dell'Ituri. A ciò si aggiungono elementi più strutturali, che vanno dalla lentezza nella cancellazione del debito estero con i privati, che pesa come una sorta di spada di Damocle su tante economie africane, alla persistente esiguità dell’aiuto pubblico allo sviluppo. Nel frattempo, la riforma del commercio mondiale, nel senso di un maggior rispetto delle regole del libero scambio contro il protezionismo occidentale, tarda a venire. A parte il Nepad, il Nuovo partenariato per lo sviluppo africano, che chissà quando e come riuscirà a canalizzare nuove risorse verso l’Africa, i flussi finanziari destinati all’investimento produttivo sono ruscelli - in sostanza, una questione di piccola ragioneria - contabilizzabili in modesti milioni di euro quando, ironia della sorte, non solo i bisogni, ma le stesse potenzialità economiche di sviluppo ne reclamerebbero tanti, ma tanti di più. Alla luce, poi, dei nuovi scenari della guerra contro il terrorismo, si va profilando un’inquietante opzione militare africana. Come se il continente non avesse sufficienti problemi per conto suo e dovesse farsi carico di crucci altri. Ma al di là di tutto, occorre valutare fino a che punto l'Africa sia davvero in grado di sopportare tutto questo inammissibile fardello fatto di miserie, guerre e malattie. Vengono alle mente le belle parole di Albert Tévoédjrè, in un suo celebre libro uscito 25 anni fa nella sua edizione italiana, ‘Povertà, ricchezza dei Popoli’. Nella prospettiva di ridisegnare la politica e l’economia dell’allora Terzo Mondo, l’intellettuale beninese apriva il quarto capitolo del suo libro con una poesia di Salvador Diaz Miròn: “Sappiatelo, sovrani e vassalli, eminenze e mendicanti, nessuno avrà diritto al superfluo, finché uno solo mancherà del necessario.” E continuava insistendo, con esempi concreti ed ampie citazioni, sul valore della Povertà praticata da tutti, ma soprattutto a partire dai dirigenti di un Paese che con onestà e responsabilità scelgono di essere di esempio al proprio popolo. È ed è questa la vera questione di fondo: l’Africa ha davvero bisogno di leader illuminati capaci d’essere, come scriveva lo stesso Tévoédjrè, “prima di tutto dei dirigenti della vita sociale”, servitori della ‘res publica’ intesa come ‘bene comune’. Per questa ragione, il futuro dell’Africa è nelle mani della società civile, l’unica capace di farsi davvero interprete delle più genuine istanze di rinnovamento. “Se l’amore per il potere – si domandava ironicamente Tévoédjrè - conduce a non dormire due notti di seguito sotto lo stesso tetto o a tremare ogni volta che un cane abbaia; se esercitare il potere significa distruggere gli altri col fuoco e fare distruggere se stessi, dov’è dunque il vantaggio di una tale impresa?”. L’interrogativo è quanto mai attuale per molti dei capi di Stato che un paio di settimane fa hanno partecipato al vertice dell’Unione Africana a Maputo. Non facciamo nomi!

(articolo di padre Giulio Albanese)

 

MISNA -  UGANDA  22/12/2003 2:09

NATALE NEL SUD DEL MONDO: 

NEL BUIO DI KITGUM, ASPETTANDO LA LUCE DELLA PACE

Il regalo più bello lo hanno ricevuto gli oltre 600 bambini ‘rifugiati’ nella parrocchia di Kitgum, periferia desolata nella ‘terra dei ribelli’ del nord Uganda. Potranno trascorrere il Natale nelle capanne con le proprie famiglie, approfittando dell’apparente tregua concessa dagli ‘olum’, i miliziani dell’Esercito di resistenza del signore (Lra) al soldo di Joesph Kony, che da 17 anni impediscono alla popolazione dei distretti settentrionali del Paese di vivere una vita normale. Il clima natalizio, come per il resto dell’anno, a queste latitudini poco lontane dall’Equatore ha sempre lo stesso colore: quello dell’insicurezza e della paura. “Come al solito si sente sparare di notte e l’incertezza ci accompagna ogni giorno” racconta alla MISNA il comboniano Tarcisio Pazzaglia, 67 anni, raggiunto telefonicamente nella parrocchia di Kitgum, circa 500 chilometri a nord di Kampala. “Quest’anno abbiamo una speranza in più: che la comunità internazionale si impegni maggiormente – aggiunge – anche perché le parole del sottosegretario delle Nazioni Unite hanno avuto molta eco anche qui”. All’inizio di novembre il norvegese Jan Egeland, sottosegretario generale dell’Onu per gli affari umanitari, si era recato in visita nel nord Uganda, denunciando la “scandalosa vergogna morale” di questo conflitto e delle condizioni in cui vivono centinaia di migliaia di civili, in una situazione “peggiore dell’Iraq”. “Neanche quest’anno potremo celebrare la messa di mezzanotte, sarebbe troppo rischioso per le persone che vi partecipano” continua padre Pazzaglia, missionario in Uganda da quasi quarant’anni. “Nelle ultime settimane sembra diminuito il numero di attacchi da parte dei ribelli, anche se continuano imboscate, saccheggi, furti. Gli abitanti delle zone più isolate sono tutti accampati nei cosiddetti ‘villaggi protetti’, dove l’esercito dovrebbe garantire la loro sicurezza e molta gente non potrà partecipare alla messa di Natale” aggiunge il comboniano. Eppure, fa notare padre Pazzaglia, anche qui come altrove c’è voglia di festa, di normalità. “Nonostante la miseria e la povertà, il 25 dicembre rappresenta un momento di gioia famigliare, di cose semplici che di solito mancano nelle case. Molte donne mi hanno detto che desidererebbero un vestito nuovo da regalare ai loro figli per Natale, oppure un paio di scarpe o mangiare carne per un giorno”. Approfittando dell’apparente e relativa ‘tranquillità’, padre Pazzaglia e i responsabili della parrocchia di Kitgum hanno deciso di mandare a casa i circa 600 bambini abitualmente ospitati. “Questo sarà per loro un piccolo regalo”. E la speranza del Natale, qui, porta il nome di Lacot, una ragazza rapita insieme a decine di altre ad Acholibur, nella boscaglia diradata a pochi chilometri dal Sudan. “I ribelli le hanno tagliato le dita – racconta con voce quasi commossa il missionario – e lei si è ritrovata in ospedale accanto al miliziano che gliele aveva amputate. Lo ha perdonato e gli ha detto: “So che lo hai fatto perché ti è stato ordinato. Ora però, con le tue mani dovrai compiere i gesti di buona volontà che le mie mani non possono più”. (di Emiliano Bos)

Non diteci chi muore (e perché)

GIULIETTO CHIESA

A volte succede che le coincidenze aiutino a capire, d'un tratto, cose che prima non si vedevano con chiarezza. Cose che magari già sapevi, o credevi di sapere, ma che non ti erano mai apparse così brutalmente evidenti. Stavo leggendo l'ultimo libro uscito in Italia di Noam Chomsky, «Dopo l'11 Settembre, Potere e Terrore» (Tropea Editore), e mi ero soffermato su questo passaggio: «El Salvador diventò effettivamente il principale destinatario di aiuti militari statunitensi dell'epoca (con le eccezioni di Israele e Egitto, che costituiscono una categoria a sé) e commise alcune delle atrocità più efferate. La guerra contro il terrorismo ebbe successo. Se volete sapere di che genere di successo si tratti, vi basta dare un'occhiata ai documenti prodotti dalla famigerata School of the Americas. Uno dei suoi slogan, o "argomenti di discussione" è (sto citando) che l'esercito statunitense "ha contribuito a sconfiggere la teologia della liberazione"». Molto vero. Uno degli obiettivi principali della guerra contro il terrorismo era la Chiesa cattolica, che aveva commesso il grave errore di indirizzarsi verso quella che chiamava "opzione preferenziale per i poveri e quindi meritava di essere punita". El Salvador ne è un esempio drammatico. Gli anni `80 si aprirono con l'assassinio di un arcivescovo e terminarono con l'uccisione di sei importanti intellettuali gesuiti. Così l'esercito americano sconfisse la teologia della liberazione». Avevo appena chiuso il libro che, guardando la posta elettronica, ho visto la notizia giunta da Bogotà, dalla Commissione Interecclesiale Giustizia e Pace, il 13 agosto. Diceva che, nelle città di Villavicencio e di El Castillo, erano stati assassinati Rinaldo Perdomo e Padro Torres, difensori dei diritti umani in una regione dove agisce la Forza di Spiegamento Rapido (Fudra) e il Battaglione 21, «Vargas». Sono le forze scelte colombiane, armate e addestrate dall'esercito degli Stati uniti. Chi uccide non sono loro. Non direttamente. Entrambi sono stati assassinati da persone in abiti civili, gruppi degli squadroni della morte, che agiscono impuniti. Il comunicato di Giustizia e Pace non accusava nessuno: faceva solo un elenco dei morti più recenti: Delio Vargas, Josue Goraldo, Osvaldo Gonzales, Gonzalo Zarate, Eder Castano, Pedro Malagon. E poi tanti puntini di sospensione, perché l'elenco è lungo migliaia di nomi. Di uccisi «perché, semplicemente si erano messi dalla parte della democrazia, del pane e della libertà, perché pensavano che quei diritti fossero la condizione per la pace».
E' la Chiesa cattolica laggiù, in Colombia, come a El Salvador, come altrove, che difende quei valori. Chomsky ha commesso un solo errore, nella sua tremenda e cruda analisi. Ha dato per sconfitta la «teologia della liberazione». Invece non lo è ancora. Poi, la sera, mi è giunta un'altra notizia triste, via mail naturalmente. Mi sono messo davanti al telegionale italiano (non importa quale, perché sono tutti uguali), a sentire parlare per mezz'ora di insulsaggini a proposito del caldo estivo. A lungo ho aspettato che quella notizia venisse riportata dal telegionale. Erano stati uccisi in un paese africano, Uganda, due padri comboniani. Alla fine l'hanno data, la notizia, dopo parecchia robaccia di cronaca nera e rosa, di spiagge affollate, di esodi automobilistici. Nessuna spiegazione, nessun approfondimento. Ammazzati e basta. Neanche i loro nomi hanno detto. Eppure non era difficile, volendo, procurarseli.

Sono andato su Misna e li ho trascritti: padre Godfrey Kiryowa, 29 anni, ugandese, e padre Mario Mantovani, 84 anni, di Orzinuovi, provincia di Brescia. Allora mi sono ricordato che qualche giorno prima, per due giovani sposi italiani annegati in Messico in vacanza, il telegiornale (non importa quale) aveva addirittura fatto un servizio, con interviste, fotografie, e molto sentimento. E, naturalmente, con nomi e cognomi. Suprema dimostrazione dell'indecoroso livello professionale, intellettuale e morale dei giornalisti italiani che hanno firmato quei servizi e dei direttori che li hanno fatti passare colpendo il pubblico con i bastoni della loro scorrettezza deontologica.

Allora, prima di addormentarmi, sono andato a leggere il seguito di Noam Chomsky. Ve lo ripropongo, magari sperando che lo leggano quelli che hanno fatto quel telegiornale, e tanti altri giornalisti, e cattolici, che erano in ferie a godersi il gran caldo di questa estate: «Un aspetto interessante della nostra comunità intellettuale è che nessuno ne sa niente. Se forze appoggiate dai russi, armate dai russi, addestrate dai russi avessero assassinato in Cecoslovacchia sei intellettuali di spicco e un arcivescovo, lo avremmo saputo. Avremmo conosciuto i loro nomi e letto i loro libri. Potete fare, però, un piccolo esperimento: scoprite, tra le persone istruite che conoscete, quanti conoscono almeno i nomi di quegli intellettuali gesuiti, importanti intellettuali latinoamericani uccisi da forze speciali armate e addestrate da noi, o dell'arcivescovo, o delle altre settantamila vittime, che per la maggior parte, come al solito, erano contadini».

Sgozzato come una guerra che non parla più di sè

Suor Dorina dall'Italia ripensa al padre comboniano Luciano Fulvi, che ha trovato sgozzato nella sua casa il 31 marzo 2004 a Gulu. Essendo medico ha potuto farne l’autopsia e preparare la salma per la sepoltura.

Sulle circostanze della sua morte non è stata fatta sufficiente chiarezza (perciò sarebbe necessaria un’indagine di una procura italiana): la versione ufficiale attribuisce l’omicidio a dei rapinatori, già arrestati, ma alcuni pensano che la sua morte sia stata premeditata da militari o servizi segreti, forse intenzionati a colpire un religioso sensibile e impegnato nell’educazione dei giovani alla pace e alla vita cristiana, in un paese in guerra da 18 anni.

Così lo descrive suor Dorina, attualmente vicaria generale delle suore comboniane: “Era sempre sorridente accogliente, pronto e disponibile, con una generosità che sconcertava. Con lui si respirava un senso di libertà e apertura di orizzonti. Uomo positivo sulle persone e le situazioni, prete con una grande ricchezza spirituale, missionario entusiasta della sua vocazione. A Gulu era riuscito a far partire molte iniziative o ad animare quelle che stentavano a  prendere il volo,  come l’associazione dei Religiosi, il gruppo di animazione vocazionale e missionaria dell’ Arcidiocesi, la pastorale giovanile Diocesana, il movimento degli studenti cristiani ugandesi. Il dolore dei giovani, laici, religiosi che l’avevano conosciuto e amato è stato inconsolabile”.

Storia di martirio e di vita anche la sua.

Originario di Pescia in provincia di Lucca, ha fatto 22 anni di missione in Uganda e per 25 anni è stato formatore di seminaristi comboniani in Inghilterra. E’ morto ammazzato a 76 anni nell’Uganda in cui aveva accettato di tornare, nonostante una grave operazione al cuore con 5 by-pass.

In una lettera scritta ad un amico il 27 marzo, tre giorni prima di morire, P. Luciano aveva scritto: “Quando lavoriamo con gli esseri umani e con i loro problemi ci occorre pazienza, che deve essere ‘divina’ e senza limiti di tempo… Una persona trova la pace solo in una relazione di amore personale con la persona di Cristo”.

I superiori dei comboniani e delle comboniane dopo la sua morte hanno denunciato“ la grave disattenzione della stampa internazionale sulle guerre africane, invitando tutti gli operatori dell’informazione a dare voce ai popoli sofferenti del continente. Siamo certi che il sacrificio di padre Fulvi e di altri 14 missionari comboniani e una comboniana, consumatisi in terra ugandese nell’arco di questi ultimi trent’anni, rappresenti uno straordinario segno di fratellanza universale”.

 Il dono della vita di P. Fulvi dovrebbe servire da richiamo per tutti: per i governi e le istituzioni internazionali perchè intervengano a favorire soluzioni ai conflitti, alla miseria, alle malattie dell’Angola e dell’Uganda (come richiesto dai missionari e da tante organizzazioni impegnate nella “Campagna pace in Uganda”), per i mezzi di comunicazione perchè si occupino maggiormente di questi paesi dimenticati, per tanta gente dei nostri paesi del benessere, perchè seguendo l’esempio di P. Luciano, non ci lasciamo andare in un’esistenza egoistica, annoiata o affannata all’inseguimento di cose futili.

 (a cura di Pierangelo Monti)

 

Storie di uomini, donne e bimbi

 Il grido del Nord Uganda 

nella voce di una donna Acholi

 Il nord Uganda negli ultimi mesi sta sprofondando in una enorme crisi umanitaria. Il dramma che coinvolge il popolo Acholi è un genocidio che ha massacrato migliaia di vite umane, distrutto famiglie. Da metà 2002 i ribelli dell’“Esercito di Resistenza del Signore” (LRA) sono tornati nel nord del paese devastando le missioni. Le scorribande sanguinarie che da anni tormentano l’area settentrionale ugandese si sono trasformate in rapimenti “consuetudinari” a largo raggio: centinaia di ragazzi destinati a divenire guerriglieri e centinaia di bambine il cui destino è segnato, schiave o concubine dei ribelli; il numero degli sfollati ha superato quota 800mila molti dei quali corrono il rischio di malnutrizione.

L’Uganda, da più di quindici anni è sotto posta ad una tortura ingiusta, voluta da chissà chi per i propri interessi. In Uganda i bambini sono rapiti (sino ad oggi circa 10.000) dal Lord’s Resistance Army, guerriglieri provenienti dal Sud Sudan, e costretti a combattere. Bambini (la loro età è compresa tra i 7 e i 18 anni) che si trasformano bruscamente in uomini senza poter più conoscere la spensieratezza, l’allegria e la gioia del gioco; bambini che diventano carne da macello e da alcova. I maschi sono usati come combattenti, le femmine rappresentano dei “regali” da dare ai vari guerriglieri. Bambini strappati dalle loro case, dalle scuole, dai loro genitori sia di notte sia di giorno. Chi tenta di fuggire e viene ripreso è ucciso a bastonato da altri bambini-soldato costretti, se vogliono sopravvivere, ad ammazzarlo; questo trattamento è riservato anche alla famiglia del fuggitivo. Dobbiamo aiutare e salvare chi è ancora vivo e tenuto prigioniero dai guerriglieri, senza però scordare che una volta liberati si ritrovano in un mondo che non è più il loro, traumatizzati da esperienze che non potranno mai scordare. Chi ha la fortuna di essere liberato si trova catapultato in un altro inferno. Molto spesso questi bambini non hanno più una famiglia, o i parenti non possono permettersi di accudirli, la riabilitazione è di circa 2 o 3 mesi, insufficienti per aiutarli seriamente ad affrontare una nuova vita e così si trasformano in ragazzi di strada costretti a rubare per sopravvivere.

I militari governativi non fanno nulla per migliorare la situazione e difendere il popolo dagli abusi commessi dai ribelli, anzi sempre più spesso loro stessi commettono crimini contro la popolazione, ammazzando o derubando le persone ai posti di blocchi (come è avvenuto a Kitgum, Pader, Ngora) o saccheggiando le capanne. Il più delle volte questi fatti vengono taciuti dalla stampa di Kampala, anzi le gesta dei soldati vengono esaltate e ritenute più che efficaci e di successo per combattere i ribelli.

La terra del Nord Uganda non conosce tregua al dolore, la vita è solo un lungo calvario. Il mio popolo vive un’emergenza che si è trasformata in un vero e proprio massacro di vite umane, paura e incertezza sono diventati una costante nella vita della mia gente.

L’indifferenza alla morte del mio popolo delle autorità internazionali è un’ulteriore ferita che affonda la poca speranza della mia gente in disperazione. Non abbiamo più neppure la forza di piangere, non c’è fine a questo dramma.

Nei mesi scorsi a Gulu si sono riuniti i leader religiosi del Nord Uganda (Acholi religious leaders peace iniziative), a fine dell’assemblea hanno stilato un documento di denuncia della tragica situazione in cui vivono, un messaggio di dolore e sofferenza rivolto all’intero mondo. Nel documento i religiosi “parlano” direttamente ai ribelli e alle autorità di Kampala chiedendo disperatamente una soluzione pacifica, richiamando anche l’intera comunità internazionale “…

Non guardate alla nostra tragedia da lontano e non ritardate l’invio di aiuti umanitari. Non mettete una cortina di silenzio ai mass media internazionali sui nostri gravi problemi”.

E’ ora di uscire da questo torpore di indifferenza e denunciare ad alta voce gli abusi che il popolo ugandese sta subendo.

Ora basta! Non si può vivere tranquillamente consapevoli di ciò che accade nel cuore dell’Africa. Come possiamo definirci essere umani, con una coscienza di vita se accettiamo impunemente tutto ciò?

Non ho più parole per esprimere il mio dolore e la mia delusione nei confronti di chi sapeva da tempo, poteva intervenire e non ha fatto nulla. Nord Uganda e Sud Sudan sono, forse, argomenti poco interessanti per l’attenzione internazionali? Il rapimento dei bambini e il loro sfruttamento avviene ininterrottamente da 15 anni. Della tribù degli Acholi nessuno ne para e la morte continua ad imperversare tra il mio popolo quotidianamente. Migliaia di vite umane sono spezzate e ogni giorno che passa lasciamo che tutto avvenga nella più completa indifferenza.

Aiutiamo il popolo Acholi e chi lo sostiene, perché ogni morte è una sconfitta per l’umanità!

E’ importante ascoltare con attenzione l’urlo di aiuto che grida il mio popolo. Non lasciate gridare queste voci inutilmente! L’unità del cuore è ciò di cui abbiamo bisogno tutti indistintamente e solo con questa potremo vivere la rinascita di noi stessi e sostenere la vita.

Prisca Ojok Auma

 Prisca è una donna Acholi emigrata in Italia: lei e la sua famiglia ha sofferto le conseguenze del conflitto. Per questo motivo è molto impegnata a favore del proprio popolo mediante la collaborazione con molte organizzazioni che mirano alla promozione di progetti di riabilitazione dei bambini-soldato. L’articolo è la testimonianza condivisa nell’incontro Il grido del Nord Uganda(2002)

... e nella voce di due bambini

 

La storia di John

“Sono vissuto per quasi tre anni con Kony- racconta John, un giovane alto di 17 anni. I soldati sono venuti di notte al mio paese e hanno distrutto tutte le case. Sono stato catturato insieme con altri dieci bambini. Siamo stati costretti a camminare notte e giorno durante un mese.  Ci hanno addottrinato, dovevamo dimenticare nostri affetti e rinascere nella comunità degli eletti. La disciplina era molto dura e l’addestramento principale era quello di correre durante parecchie ore con un sacco di pietre sulle spalle.

Sapevamo che il comando era una parola: uccidere. Assassinare la nostra gente”. Un giorno John decise fuggire e cosi arrivò all’ospedale di Gulu.

La storia di Mary

“Sono stata catturata come John, ma non allo stesso tempo. Colui che mi tormentava aveva il soprannome di Palaro, un capo dei ribelli. Ma è costretta a diventare la sua terza moglie. Dovevo portare tutti giorni l’acqua affinché lui si lavasse, dargli da mangiare inginocchiata e dormire con lui quando cosi desiderava”. Un dramma indescrivibile vissuto per tre anni e mezzo. “Una notte decido di fuggire insieme con altre tre bambine della mia età. Abbiamo camminato giorno e notte. Le gambe erano stanche però solo ci fermavamo per mangiare, giacche la paura di essere catturate nuovamente era terribile: era meglio morire. Finalmente, dopo una settimana ci siamo sentite libere”, Mary raggiunge l’obiettivo, ritornare al suo villaggio, ma la sofferenza di Mary non è finita perché è stata contagiata dall’AIDS.

“La violenza a cui sono stata sottomessa non voglio ricordarla mai più, soltanto mi chiedo: come mai nessuno si preoccupa dei bambini e bambine sequestrati dalla guerriglia? La sofferenza non è solo per quello che ci hanno tolto, ma  anche perciò che ci è rimasto”.