Quello
della riprogettazione
dell’economia è un tema che a me sta particolarmente
a cuore, perché possiamo continuare a mettere tutte le
toppe che vogliamo, però il sistema continua a
viaggiare per conto suo. È un sistema che invece di
fare 100 mila morti, magari ne fa 20 mila, ma continua
ad essere una macchina di morte, una macchina di
latrocinio. Se vogliamo risolvere i problemi e
disinnescare definitivamente queste due bombe, dobbiamo
cominciare a ragionare su come organizziamo un’altra
economia che in tutto il mondo sia organizzata per servire
la gente e non i mercanti.
Quando si pensa alla progettazione di una
nuova economia, bisogna avere le idee molto chiare su ciò che è obiettivo, su ciò che è condizione,
su ciò che è strumento.
Ed è importante capire la differenza, avere
questa chiarezza, perché
oggi il sistema nel quale viviamo, fa una confusione continua e il mercato,
che di per sé è uno strumento, ci viene proposto come
un fine in sé, è
diventato un dogma di fede, non si può prendere
decisioni che facciano a meno dell’utilizzo di questo
strumento. E quando gli strumenti si trasformano in
fini, si trasformano in idoli, in dei, e davvero
entriamo in un campo molto pericoloso che è quello
dell’idolatria, e noi siamo in un sistema idolatrico.
Ricordandovi
che quando parliamo di riprogettazione dell’economia,
voi non dovete pensare che il compito tocchi agli
economisti. Se voi avete l’idea che l’economia sia
al pari della medicina, per cui la medicina è una
scienza dove ci vogliono troppe conoscenze, poi alla
fine hai bisogno del medico perché ti curi (io ho dei
dubbi anche rispetto a questo: secondo me bisogna avere
sufficiente conoscenza per dialogare alla pari col
medico; io ti chiedo consiglio, te mi dai le
informazioni, poi decido io se mi curo o non mi curo, se
accetto di morire o se accetto di amputarmi; quindi
bisognerebbe elevare il nostro grado di conoscenza per
poter dialogare con qualsiasi professionista) ma
nell’ambito dell’economia non ci sono
professionisti, perché se si accetta l’idea che debba
esistere l’economista di professione, di fatto si
abdica alla democrazia perché tutto ciò che riguarda l’economia poi si ripercuote nella
nostra vita.
A
seconda di come è organizzata l’economia, noi avremo
o non avremo un lavoro, potremo o non ci potremo curare,
la nostra qualità di vita cambia, il nostro ambiente
cambia, per cui l’economia è l’essenza della
partecipazione, non si può assolutamente delegare
l’economia agli economisti. Se avete questa
tentazione, levatevela subito di dosso come una
grandissima tentazione di cui confessarsi (ai preti qui
presenti in sala, la prossima volta chiedete se c’è
la tentazione). Sono veramente serio, non si può
delegare a qualcun altro la riprogettazione
dell’economia.
1.
Da un punto di vista degli obiettivi, io penso che
l’obiettivo debba essere molto semplice: riuscire a
consentire a tutti, e quando dico tutti intendo dire non
soltanto chi è nato qui nella nostra parte di mondo ,
ma anche chi è nato in Malawi o in Tanzania o in tutti
quei Paesi del cosiddetto Quarto mondo,di vivere
dignitosamente. Sapendo che dobbiamo essere capaci di
adattare gli strumenti, cercando di volta in volta
quello più adatto all’obiettivo specifico che
dobbiamo realizzare, perché al di là di questo
obiettivo generale ci sono tutta una serie di sotto
obiettivi più particolari.
Intanto
però accettiamo che si deve riformulare l’obiettivo
generale dell’economia, perché se voi interrogate un
economista del sistema, se è onesto (se è disonesto vi
dirà anche lui che l’obiettivo del sistema è quello
di garantire il benessere a tutti: i fatti dimostrano il
contrario) se è onesto vi dirà che l’obiettivo del
sistema è garantire il profitto alle imprese.
Quindi
qui capovolgiamo completamente le cose: mettiamo
la gente al centro dell’attenzione e
diciamo che il tutto deve essere organizzato per servire
la gente.
2.
Quale condizione deve essere rispettata?
Secondo
me devono essere rispettate due condizioni di fondo:
ü
la condizione di sostenibilità,
che vuol dire:
-
organizzare la produzione in modo da non
intaccare, da non compromettere i meccanismi naturali
(noi ad esempio abbiamo organizzato una macchina
industriale così grossa che si basa sui combustibili
fossili, cioè carbone metallo e petrolio, e abbiamo
organizzato una macchina dei consumi basata su quei
combustibili così grossa, che stiamo producendo una
quantità di anidride carbonica e di altri gas,
cosiddetti gas-terra, che stanno facendo modificare il
clima. Noi non viviamo in un sistema sostenibile, perché
abbiamo già cominciato ad intaccare le capacità di
digeribilità, di tolleranza del pianeta rispetto agli
inquinanti).
-
fare in modo che la nostra organizzazione
produttiva non comprometta la possibilità per le generazioni
future di trovare un ambiente accogliente che
consenta anche a loro di poter soddisfare i loro
bisogni.
Qui
l’attenzione rimane da una parte sui grandi meccanismi
naturali, perché se noi oggi modifichiamo il clima,
facciamo sì che le calotte polari si liquefacciano, che
la pianura Padana venga allagata, ci sta che i posteri
di domani si trovano delle alluvioni che non finiscono
più, e questo non gli rende un gran servizio.
Ci
sta che l’agricoltura si scombini in una maniera
terribile, perché laddove c’erano le piogge
equatoriali non ci saranno più, invece si portano nelle
regioni temperate, come cominciavamo ad avvertire noi.
L’agricoltura risente del clima.
Ma
l’attenzione poi pensando alle generazioni future, si
concentra anche alle risorse.
Questo
sistema ha sempre puntato alla crescita dando per
scontato che le risorse fossero infinite, e
ogniqualvolta qualcuno si è alzato in piedi per dire
“ma, forse quella tal risorsa può essere un tantino
scarsina, e se continuiamo ad utilizzarla a questo ritmo
può darsi che non ne lasciamo abbastanza per chi verrà
dopo”, ha sempre dato la solita risposta: “La
tecnologia risolverà il problema”. Per cui è stato
adottato non un comportamento scientifico, ma un
comportamento religioso, tipico della fede: io non vedo,
ma nonostante non possa provarlo, faccio questo atto di
fede che la tecnologia risolverà. È veramente
incredibile che, mentre noi siamo un sistema che affonda
le sue radici nell’illuminismo, per cui ciò che non
toccavi non esisteva e non poteva essere adottato, pur
di mantenere in piedi questo sistema si fanno anche
gesti di fede, com’è quello rispetto alla tecnologia.
Per
cui tanto per fare un esempio, tutti sono d’accordo che noi siamo alla conclusione
dell’era del petrolio, e noi stiamo esaurendo una
risorsa preziosissima, e lo dico io che mi batto contro
il consumismo. Non serve il petrolio solo per andare a
fare la gita la domenica, ma anche per esempio, per
produrre energia elettrica, che ha risolto tanti
problemini. Serve anche per evitare le fatiche nei
campi. Per cui noi non possiamo sperperare in due secoli
una risorsa che la madre Terra ci ha messo a
disposizione nel giro di milioni di anni. Siamo
veramente una generazione rapinatrice, avida, che non si
preoccupa neanche dei propri figli.
ü
Il secondo concetto è quello della partecipazione.
Secondo me non si può organizzare nessun tipo di
sistema economico che prescinde da questa idea che tutti
debbano essere parte integrante del sistema e tutti
debbano avere la possibilità di prendere le decisioni
almeno rispetto alle cose più grosse che riguardano il
sistema: cosa produrre, quali materie prime utilizzare,
quanta energia utilizzare, cosa consumare, come
consumarlo, deve essere una decisione che dobbiamo
prendere tutti. Non la può prendere soltanto chi ha i
capitali in banca, e una mattina si alza e dice: sai,
voglio tentare di convincere la gente a comprare il
lecca lecca; e mi mette su l’azienda di lecca lecca,
salvo magari smantellarmela due anni dopo perché si è
accorto che non va più,oppure perché è venuto un
altro che mi ha inventato il confettino, oppure perché
decido di andarmene da un’altra parte dove costa meno.
Quindi
dobbiamo essere noi che prendiamo tutti insieme le
decisioni.
3.
Veniamo quindi nell’ambito degli strumenti, e qui il
discorso si fa un po’ più complicato perché i grandi
strumenti che noi conosciamo sono due:
-
il mercato
-
la solidarietà collettiva.
La
cosa buffa è che benché si tratti in definitiva
soltanto di strumenti, in realtà rispecchiano una
diversa concezione filosofica per cui alla fine hanno
assunto addirittura la connotazione di bandiera
ideologica.
ü
Chi difende il mercato,
in definitiva ha una visione individualista della
vita, concepisce le persone come persone sole, in corsa
contro tutti per tentare di arricchirsi, ma sono soli
anche di fronte al loro bisogno. Per cui questo sistema
dice: il bisogno si soddisfa solo nell’ambito del
mercato, il quale garantisce tutto, non ci sono
problemi, ma solo a chi ha soldi.
Bisogna
avere le idee molto chiare per quanto riguarda il
mercato.
Chi
sono i perdenti nella concezione del mercato: molto
semplice, i deboli, tutti quelli che
non riescono a stare in corsa, e i poveri, tutti
quelli che per una ragione qualsiasi sono stati buttati
fuori. Gli uni perdono nell’ambito della produzione,
gli altri perdono nell’ambito del consumo.
ü
Chi invece propende per l’idea della solidarietà
collettiva, ha una visione altruista
della vita, cioè concepisce gli essere umani come
membri di un unico tessuto sociale che si tengano per
mano per ricostruire una ricchezza che deve essere usata
per soddisfare i bisogni di tutti.
Qualcuno
questa la chiama concezione collettivista, qualcuno la
chiama più semplicemente concezione cristiana. Io
chiedo, rispetto a questa concezione, perché il
cristianesimo non la potrebbe sottoscrivere. Penso
che non si dovrebbe esitare. E invece quante le
resistenze che si fa rispetto a questa concezione,
semplicemente perché il primo che l’ha inventata era
Marx, che ha avuto la malaugurata idea di inserire
questa concezione sociale in un contesto filosofico che
si è inimicato la Chiesa (materialismo, concezione
della vita). Questa è una colpa grave di Marx, però è
ora che la Chiesa si scrolli di dosso questi steccati di
carattere ideologico, cominci a rendersi conto che
l’unico sistema che oggi abbiamo davanti è un sistema
capitalista, che funziona su dei principi che secondo me
sono principi anticristiani.
Bisogna
avere il coraggio di fare una proposta nuova, che sappia
finalmente, fuori dagli ideologismi, dare delle risposte
alla gente.
In
definitiva mi sembra che la solidarietà collettiva sia
l’unica difesa che noi possiamo mettere in piedi nei
confronti dei poveri.
Dobbiamo
fare un grande sforzo per tentare di dare cittadinanza a
questo genere di impostazione economica, e per tentare
di far sì che diventi il pensiero dominante. Oggi il
pensiero dominante è il mercato, si sta imponendo a
tutti i livelli, perché questa idea di essere soli e di
essere tutti in competizione, fa sì che tutta la società
in tutti i suoi ambiti si modelli secondo questa logica.
Non
è soltanto una concezione economica, diventa
inevitabilmente una concezione sociale. Oltre ad
avere tutti i danni che ha, perché il governo si
struttura in un una certa maniera, ci si disfa di una
serie di servizi pubblici.
Oggi
siamo in questa ottica, la parola d’ordine è
privatizzare, la parola d’ordine è privare il
pubblico delle sue funzioni classiche, far sì che la
gente sia veramente sola davanti ai suoi problemi. Il
massimo che si può fare è un pochina di carità. Però
non si mette in discussione come si fa la ricchezza, e
se la ricchezza è fatta in una maniera tale da
sfruttare la gente e da ridurla in povertà, questo non
si mette in discussione.
A
conti fatti, se poi c’è il povero assoluto che è
nella miseria estrema, ok, bontà mia, gli farò un
pochina di carità, gli garantirò un ospedale di quarta
categoria, gli garantirò una scuola di quarta
categoria, gli garantirò un treno di terza classe,
naturalmente però chi ha soldi si arrangia con il
mercato, ed è questo che va potenziato.
Ed
è questa la logica, la logica del forte contro il
debole.
Bisogna
avere le idee chiare rispetto a questo, sapendo che pur
dovendo far trionfare la logica della solidarietà
collettiva, questo non significa che annulleremo
totalmente il mercato, ma che avremo la capacità di
conciliare il tutto con la condizione che dicevo
prima della partecipazione, e quindi sono
convinto che per molti ambiti dovremo garantire le cose
in maniera collettiva, comunitaria.
Garantire
le cose in maniera collettiva, non vuol dire ritornare
al capitalismo di stato, che è una fase che per fortuna
abbiamo superato, anche perché le radici del
capitalismo di stato, che si facevano passare per i
regimi socialisti, erano le stesse radici di tipo
produttivista, tipiche del capitalismo. Per cui abbiamo
visto quando si sono aperte le frontiere in Russia, che
hanno fatto dei disastri ambientali spaventosi: la
famosa centrale di Cernobyl che era costruita in maniera
assolutamente insicura, la Russia che puntava al pari
degli USA alla corsa agli armamenti, e c’è stata
tutta una fase, che forse voi non ricorderete perché
siete giovani,in cui era avanti rispetto agli USA nella
corsa alla conquista dello spazio (Il primo satellite
l’hanno buttato i Russi).
Per
cui quando parlo di riportare la produzione e i servizi
in mano alla comunità, immagino una situazione dove la
partecipazione, la decisione, sia portata il più vicino
possibile alla gente, per cui dobbiamo riscoprire delle
forme di organizzazione che oltre a favorire il locale, e questo è fondamentale nell’ottica della
sostenibilità, poi riesce a far sì che si abbiano
degli ambiti di decisione che favoriscano il più
possibile la partecipazione di tutti.
Quindi
immagino le piccole strutture, bisogna riuscire a
privilegiare il più possibile il livello locale, poi è
ovvio che ci saranno delle cose che andranno assunte a
livello nazionale o addirittura a livello planetario.
Ecco,
dobbiamo essere capaci di fare una scelta di campo, per
cui la partecipazione, che è fondamentale, privilegiamo
sempre la piccola dimensione, io la vedo una strada
obbligata.
Per
cui come deve essere organizzata questa società che si
pone questi obiettivi, che rispetta queste condizioni:
non lo sappiamo, e meno male non lo sappiamo. Voglio
dire: guai se avessimo la pretesa di scrivere tutti i
dettagli a tavolino. Rifaremmo di nuovo dei sistemi
dittatoriali, perché tutto ciò che si pensa, dobbiamo
avere la capacità di sperimentarlo, e avere la capacità
di dire: “questo è andato giusto, questo è andato
sbagliato”; e siccome questo è andato sbagliato lo
cambiamo”.
I
drammi sono quando io ho preso la decisione e anche
quando mi rendo conto che ho sbagliato, te la impongo lo
stesso, perché così sta scritto, perché questo fa
comodo alla mia struttura di potere, di destra o di
sinistra che sia, laica o religiosa che sia, perché
hanno fatto tutto uguale.
Invece
bisogna avere la capacità opposta, di dire: ok, confrontiamoci
con l’obiettivo, verifichiamoci cammin facendo, e
volta a volta cambiamo se le cose non sono andate
nel verso giusto.
Quindi
nessuno di noi ha in tasca la ricetta. Per cui mi fanno
ridere quando chiedono: ma voi che sistema alternativo
proponete?, e
vorrebbero che gli dicessimo in quattro e quattrotto,
ecco questo è il puzzle, di 2500 pezzi, te l’ho
raccontato.
Ma
neanche loro fanno così, perché si accontentano di
dire “economia di mercato”. Punto. E siccome
sappiamo bene che cos’è, risolve tutto. Noi forse
potremmo cominciare a dire: vogliamo il sistema di
solidarietà collettiva. Non lo so, potremmo cominciare
a lanciarlo come slogan. E cominceranno tutti a
chiedere: ma che è, come funziona, perché è una cosa
nuova e vorrebbero che tu gli dicessi in tre parole
tutti i dettagli. E questo naturalmente non è
possibile.
Quindi
parlando di strumenti, dico che il fatto di privilegiare
il collettivo, questo non significa che eliminiamo il
mercato; dobbiamo procedere per obiettivi.
Quindi
io sono convinto che nell’ambito dei bisogni
fondamentali dovrà essere sicuramente la dimensione
collettiva a soddisfare questa sfera, ma posso
ammettere che ci siano anche desideri, purché non mi
comprometta la sostenibilità, purché non mi arrivi a
certi stadi di sfruttamento, purché mi si rispetti una
serie di regole, posso anche accettare che ci sia il
mercato che fa funzionare le cose.
Per
cui se vogliamo dire come io immagino la società,
immagino una società plurale, dove abbiamo
contemporaneamente una presenza nel pubblico, tutti
quanti, con la partecipazione diretta della gente, io ne
sono convinto, non solo con le tasse, e che si
accontenta di ciò che riceve dal pubblico, che deve
garantire i bisogni fondamentali, che vanno dal cibo al
vestiario all’alloggio alla sanità all’istruzione
alle comunicazioni, direi almeno questi sei ambiti.
Poi,
se ci si accontenta di questo, si può passare più
tempo in giro col figliolo, con la fidanzata, o a farsi
le passeggiate o ad ascoltare il canto degli usignoli, e
chi invece vuole avere di più perché ci sono dei
desideri che non ha soddisfatto, metterà su da solo o
con altri la propria attività produttiva, la venderà,
…
Io
la immagino così, facendo una distinzione molto chiara
tra una cosa e l’altra, una
cosa che mi intacca i diritti fondamentali non posso
assolutamente metterla in mano al mercato, per il
resto nessun problema.
La
cosa non è così semplice, ma bisogna entrare
nella logica che gli strumenti vanno adattati alle
esigenze , gli strumenti sono delle chiavi: se io penso di usare la
stessa chiave per aprire tutte le serrature, è chiaro
che faccio dei danni, perché alla fine devo forzare la
serratura.
E
oggi sta succedendo veramente così, l’unica chiave è
il mercato e si forzano un sacco di serrature, ma se io
dico che a seconda della porta che devo aprire e della
serratura che c’è, uso una chiave diversa, benissimo,
studiamolo ogni volta.
Mi
avvio alla conclusione perché siete stanchi.
Vi
ho detto prima che ci sono vari livelli: locale,
nazionale, regionale,
e anche planetario.
Per
cui non immagino di lottare contro queste istituzioni
per annientarle e sostituirle con niente.
Noi
avremo comunque bisogno di relazioni internazionali. Io
penso però che anche qui bisogna iniziare a porre dei valori diversi, a dire
quali sono i nostri obiettivi che vogliamo perseguire
come umanità.
Oggi
questo sistema ci dice: l’obiettivo è espandere il
commercio, costruiamo tutto per raggiungere questa
finalità. Io dubito fortemente che questo interesse,
che sicuramente è valido per la Mc Donald’s, Philips
Morris, Nestlé, sia valido anche per me.
Anzi,
ho una serie di ragioni che mi fanno ritenere il
contrario.
Dobbiamo
cominciare a dirci quali sono gli obiettivi che vogliamo
salvaguardarci come umanità, e mi verrebbe fatto di
dire che il primo obiettivo che dobbiamo salvaguardare
come umanità è la difesa
dei beni comuni.
Noi
lo abbiamo sempre dimenticato, perché siamo invasi
dalla tecnologia e dal produttivismo, e pensiamo che per
vivere quello che conta sia l’automobile, il
frigorifero, la casa, i vestiti, ma la prima cosa che
serve per vivere ragazzi, è l’aria.
Noi
ci dimentichiamo sempre che se abbiamo l’aria che non
è respirabile, non c’è bene di sorta che tenga, noi
crepiamo.
Se
non abbiamo l’acqua, noi crepiamo.
Se
non abbiamo le foreste che ci consentono di produrre
l’ossigeno, noi crepiamo.
Per
cui noi dobbiamo cominciare a dire che il patto che
dobbiamo stringere come umanità, è la salvaguardia dei
beni comuni, perché cominciamo a renderci conto che
questi sono seriamente compromessi.
Si
stima che le prossime guerre si faranno per l’acqua.
Ci saranno regioni intere che non avranno acqua da poter
bere. Anche qui a noi non si sa bene che cosa succederà.
Io vivo in una zona a Lucca, dove le cartiere hanno
bisogno di una quantità di acqua infinita, pompano
acqua dal sottosuolo non so a quanti milioni di hl al
giorno. Nessuno sa i disastri che si possono creare
sotto perché si creano i vuoti. Si leva, si leva… ma
di qui a qualche tempo ci sta che a forza di levare, le
piogge non siano sufficienti per integrare le falde
acquifere. Quindi può darsi che un bel giorno troviamo
le sorgenti secche e che facciamo?
Quindi
dobbiamo cominciare a prendere questa consapevolezza,
che noi apparteniamo al regno naturale, e che se
spogliamo questo regno naturale, la nostra vita rischia
di compromettersi.
Per
cui questa è la prima consapevolezza che dobbiamo
prendere. E se c’è un trattato che a mio avviso
dobbiamo fare è quello per la salvaguardia dei beni
comuni. E se facciamo questo trattato, cominceremmo a
farne dedurre anche tutta una serie di ripercussioni in
ambito commerciale.
Per
esempio se arriviamo alla conclusione che il petrolio è
una risorsa scarsa, che dobbiamo usare con estrema
parsimonia, io sfido chiunque a capire se davvero
dobbiamo insistere sull’idea di ampliare il commercio
internazionale, perché per far viaggiare le merci, ci
vogliono le navi, ci vogliono gli aerei, ci vuole
cherosene, ci vuole nafta, ci vuole petrolio, petrolio
che si estrae dalla terra e gas che si buttano per
l’aria.
Per
cui il commercio internazionale di per sé entra in
contrasto con questa logica, e forse allora dovrò privilegiare
di più la dimensione locale. Quindi dovrò tornare
ad un nuovo localismo, dove io proteggo anche, induco la
gente a consumare locale, e quindi creo una serie di
strumenti economici per favorire questo tipo di consumo
e di produzione.
Quindi
sicuramente vanno riviste le cose a livello planetario,
con nuove norme, con nuovi trattati, trattati sui beni
comuni, sui diritti fondamentali, sulla protezione della
biodiversità, che abbiano al loro interno delle
clausole commerciali.
Oggi
si fa il contrario: si fa il trattato sul commercio con
delle clausole ambientali, o sociali. No, deve essere
rovesciata la frittata. Quella è la loro visione. La
nostra visione è un’altra.
Quindi
si deve capire che dobbiamo cambiare i trattati a
livello mondiale, e che dobbiamo fare questo sforzo di
immaginazione di come dobbiamo riorganizzare la società
a livello nazionale, sapendo che noi abbiamo un problema
in più, ve lo lancio là come messaggio e poi mi fermo,
abbiamo accumulato troppo, abbiamo accumulato una
quantità di ricchezze che le nazioni povere non si
possono permettere e quindi dobbiamo cominciare ad
entrare nell’ordine delle idee della sazietà.
Noi dobbiamo cominciare ad accontentarci di quanto abbiamo accumulato,
dobbiamo cominciare a pensare di disfarci di qualche
cosa, dobbiamo cominciare a costruire una società che
non sia più la società della crescita, ma la società
del limite, la società della sobrietà.
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