Chi sei, missionario?
i giovani incontrano i missionari

cerca nel sito

torna alla pagina Sfide per Crescere

scrivi

 


Queste pagine sono il frutto di un cammino con i giovani del G.I.M. durante la Convivenza di fine anno 2006.
Partecipando al GIM incontriamo molti missionari-e;
ci chiediamo:

* cosa vuol dire essere missionari oggi?
* come rispondere con profezia e sapienza alle sfide
del mondo attuale?
* in che modo l'incontro con altri popoli cambia la vita di un missionario?

Proviamo a rispondere, condividendo...

► La vita missionaria di p. Giacomo Palagi... e le sfide che ci ha rilanciato
► Il Vangelo missionario di Lc 10, riscritto dai giovani dopo l'incontro con p. Giacomo
► L'esperienza di Claudina, profuga e rifugiata politica dal Congo in Italia
L'esperienza di p. Fidele, un comboniano africano (dal Togo) in Brasile
► Le esperienze e gli interrogativi di altri Missionari-e Comboniani in vista del World Social Forum


  Condividi la tua idea sulla missione tramite il Forum "Sulle Orme di Daniele Comboni"
 

 

Il volto imprevisto della missione

L’esperienza di padre Giacomo Palagi in Mozambico
(articolo di Simone e Luisa)

    Raccontare il proprio vissuto può essere utile per chi ascolta e ne trae spunti di riflessione, ma anche per se stessi, poiché aiuta a riconnettere un significato a ciascuna esperienza. Così padre Giacomo, esordiendo nella sua testimonianza, ci suggeriva implicitamente di rileggere la nostra storia, nel modo in cui lui stesso si accingeva a fare.

   Trent’anni passati in Mozambico non sono pochi, soprattutto se gli eventi costringono ad abbandonare ricchezze e convinzioni portate da casa, e a reinventare con la gente il significato della parola missione:
non più l’essere chiamati per fare qualcosa, ma a stare con qualcuno.

Il popolo del Mozambico diventa per Giacomo Parola incarnata a cui dare obbedienza, e per questo, nonostante le difficoltà, egli decide di mettersi in suo ascolto e condividere con esso ogni condizione.
   Giunto negli anni dell’indipendenza dal Portogallo (1975), si trova subito ostacolato, e in qualche modo tradito, dal regime marxista al governo che intende la presenza dei comboniani nel paese come il protrarsi di un colonialismo religioso e culturale.
Il servizio educativo offerto dai missionari viene, in un primo momento, ridimensionato e più tardi ostacolato in vari modi.

E’ proprio in seguito ad uno screzio tra l’istituto dove i comboniani insegnano ed il governo, culminato con un giudizio pubblico, ad imporre a Giacomo la scelta tra il salvaguardare il proprio onore e quindi dare le dimissioni, oppure accettare l’invadenza del potere e mantenere un lavoro fin troppo scomodo.
In quel mentre, nonostante la tentazione di mollare, Giacomo rinnova la sua obbedienza alla gente e resta al suo posto, vivendo un cambio di prospettiva che lo segnerà nel profondo: si lascia prendere per mano da coloro che in un primo tempo pensava di aiutare.
Uomini e donne del Mozambico si prodigano perché lui abbia una casa nel villaggio, scenda dalla collina (dove la scuola s’impone con la sua torretta in stile coloniale), e condivida in tutto e per tutto la vita del popolo. Lo aiutano a innalzare i muri dell’edificio; dividono con lui il cibo; pregano sulla stessa Parola.

Con questo stile, negli anni successivi, sorgeranno molte piccole comunità in cui i missionari, ormai spogliati di ogni privilegio, si troveranno poveri tra i poveri a condividere l’unica cosa che possiedono: il Vangelo.
Vangelo, che negli anni difficili del regime e della guerra civile, viene a dire la libertà che Dio ha in mente per l’uomo: non in previsione di un futuro lontano, ma qui ed ora. Infatti, all’interno delle capanne, insieme agli altri fratelli, ogni persona si scopre libera di essere e di raccontarsi.
Così, per Giacomo, non esiste più un “popolo evangelizzato”, ma singoli nomi e volti concreti con cui egli ha condiviso: Antonio, Ana, Domingos...

   Bisogna rifuggire dal rischio di intendere la missione come una cosa per eroi: ognuno, nel proprio piccolo, può muoversi all’incontro con l’altro. Il punto di partenza è l’ascolto per capire ciò di cui l’altro ha bisogno, cogliere i suoi aneliti più profondi ed autentici.
   Ciò che il popolo del Mozambico chiedeva, nei ventisei lunghi anni di guerra civile, era la pace: e quindi pace doveva essere la risposta dei missionari. Una pace che veniva da Dio e su cui le comunità leggevano, discutevano, pregavano in previsione del momento in cui le armi avrebbero cessato di sparare.

Questo lavoro sotterraneo ha dato i suoi frutti alla fine della guerra, quando la gente ha cominciato a vivere una speranza che andava al di là delle fazioni politiche e delle ferite sanguinanti.
Di solito, durante i conflitti, ci si dimentica che cos’è la pace, assorbiti come si è dalle vendette; dalle rappresaglie contro gli avversari; dalla propria salvaguardia a scapito, magari, degli antichi vicini di casa. Dio invece insegna come il perdono e la riconciliazione possano riprogettare un futuro che sembra già segnato irrimediabilmente.

   Giacomo si lascia guidare dal suo popolo anche in esilio, quando la guerriglia costringe l’intero villaggio alla fuga in Malawi. Nella marcia di cinquanta chilometri che conduce al confine, qualcuno prega sui salmi a ricordare la Pasqua del popolo d’Israele; in molti sperano in una momentanea terra promessa. Nei campi profughi Giacomo rappresenta la Chiesa che, uscendo dalle mura rassicuranti delle cattedrali, si fa presente tra i problemi del mondo.
E lo stare con significa anche questo: condividere il disagio, la fame, il sentirsi in balia del caso e la paura che attanaglia lo stomaco.

   Al ritorno in Mozambico per anni la luce accesa nella casa di Giacomo è un riferimento sicuro per chi passa la notte nella foresta, cercando di sfuggire alle razzie dei guerriglieri.
Eppure anche in quella casa la paura entra, insieme agli uomini armati fino ai denti che scassinano e distruggono per un po’ di cibo e qualche medicinale. E’ la morte che si presenta, giorno e notte, agli occhi di Giacomo e che colpisce, tra i civili, anche i missionari.
Per il cristiano, tuttavia, quello della morte non può essere solo un sacrificio: è anche un grande dono.
E’ il dono più grande mescolare il proprio sangue a quello di un altro popolo, in comunione totale: un atto supremo d’amore in cui la stessa castità del missionario trova un senso compiuto.
   Questo che a noi sembra assurdo, radicale, irriducibile a schemi razionali è il semplice comandamento che Gesù ci ha lasciato: di amarci gli uni gli altri come lui ci ha amati. Donando la vita, senza risparmio.

 

torna all'inizio

 


Lc 10: il Vangelo missionario, riscritto dai giovani della convivenza

Questi testi sono stati scritti in due laboratori di gruppo: abbiamo letto il Vangelo di Lc 10 e l'abbiamo confrontato con il messaggio di p. Giacomo (cf. sopra). Abbiamo quindi provato a riscrivere il Vangelo come se Gesù dovesse annunciarcelo oggi, con le sfide e la realtà del nostro tempo.

Dopo che padre Giacomo aveva raccontato della sua esperienza in Mozambico, il Signore designò altri settanta discepoli, e disse loro: “Andate a due a due, perché possiate condividere questa esperienza, e andate nei luoghi dove io stesso sto per andare, perché io sono con voi e non vi abbandono. State con chi vi vive accanto nel quotidiano, nella vostra famiglia, con i bambini e con gli amici, con gli esclusi; ma anche con i giovani, gli individualisti e con chi non conosce condivisione.”
E diceva loro: “Andate a mani vuote, siate pronti ad ascoltare e umili nel ricevere. Fermatevi con chi vi fermerà, non abbiate fretta nel percorrere il vostro cammino. Ogni contesto in cui vi troverete, vivetelo radicalmente, con la fedeltà e la pazienza di chi semina senza preoccuparsi del raccolto. Donatevi per costruire il Regno di Dio, qui e ora.”

 


Dopo queste cose il Signore designò altri discepoli e li mandò uniti in fraternità come portatori di pace e giustizia nella vita di tutti i giorni ma con l’attenzione alle realtà lontane.
Egli diceva loro: “Ricordate che non è importante il dove ma il come. Non ci viene chiesto di fare più di quanto possiamo; dobbiamo trovare la capacità di saper cogliere nella ricchezza di ogni incontro.
La messe è grande ma gli operai sono pochi e male organizzati; pregate quindi il Signore della messe perché spinga degli operai nella sua messe.
Andate; ecco io vi mando a questo Sistema del Male, il quale è molto organizzato, bello ed attraente. Sappiatevi condividere senza limiti: è questa l’essenza del martirio.
Imparate a leggere le situazioni senza essere legati alle cose e ai vostri preconcetti; non portate né borsa, né sacca, né sandali, né armi.
Perseguite l’obiettivo con coerenza e senza distrazioni.
In qualunque casa entriate, dite prima: “Pace a questa casa!”
Se vi è lì un figlio di pace, la vostra pace riposerà su di lui; se no, ritornerà a voi.
Rimanete in quella stessa casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché l’operaio è degno del suo salario. Non passate di casa in casa.
In qualunque città entriate, se vi ricevono, mangiate ciò che vi sarà messo davanti, guarite e i malati che ci saranno e dite loro: “Il Regno di Dio si è avvicinato a voi”.
Se non c’è la possibilità di trasmettere il messaggio attendete come sentinelle nella notte con fiducia e pazienza rimanendo pronti ad annunciare il giorno.
Dio non ci dice di scappare: se anche in qualche luogo non vi accolgono, stateci dentro e dite: “Sappiate che il Regno di Dio si è avvicinato a voi.”

torna all'inizio

 

Incontro con Claudina, rifugiata politica dal Congo

(articolo di Elisa e Giulia)

Alla convivenza di fine anno del GIM  abbiamo conosciuto Claudina; la sua storia ci ha davvero colpito molto, quindi desideriamo farla conoscere a chi non l’ha incontrata.
Claudina nasce 32 anni fa a Bunja, città del Congo situata nella zona in cui si estraggono le maggiori quantità di oro in Africa: l’Ituri. Là si distinguono 2 etnie: gli Hema e i Lendu.
Gli Hema, la cui bellezza li fa sentire superiori e orgogliosi, sono prevalentemente pastori e proprietari terrieri; sono quindi i più ricchi e comandano sui Lendu, alcuni dei quali sono sfruttati come degli schiavi. I Lendu, quindi, non sono considerati “alla pari” e  vivono sottomessi agli Hema, nonostante siano numericamente molti di più.
C’è sempre stata tensione tra le due etnie, ma i loro rapporti si sono inaspriti tra il 2001-2002, finché  nel 2003 si è raggiunto l’apice della violenza e i Lendu, stanchi della continua oppressione, si sono organizzati ed hanno iniziato la persecuzione ed il massacro degli Hema.
Claudina, di etnia Hema, dice: “Per voi è impossibile distinguere un Hema da un Lendu, ma tra di noi sappiamo distinguerci; il nostro orgoglio è stata la causa principale che ha scatenato l’odio e il rancore tra noi”.
Ancora molto giovane Claudina si sposa con un uomo Lendu, matrimonio non facile da accettare per le persone delle loro rispettive etnie.
Dal loro amore nascono 3 bambini, che  presto rimangono orfani per la  morte del loro papà in un incidente d’auto.
Claudina si trova a portare avanti da sola la sua famiglia, lavorando come infermiera.
Alla fatica quotidiana si aggiunge la paura di essere presi dai guerriglieri che vanno “a caccia di Hema”, che uccidono anche i bimbi nati da matrimoni misti.

La sera del 5 maggio 2003, dopo una giornata di lavoro, Claudina entra in casa e viene presa dalle milizie che l’aspettavano; viene spogliata e portata in una zona fuori dalla città. Qui sono state portate altre donne, violentate e maltrattate, stipate in una capanna, consapevoli della fine che le attende.
Claudina pensa “Eccomi Signore, sono pronta”, ci dice, ma sente una voce che ripetutamente chiama il suo nome.  Questa voce è di un uomo che si ricorda di lei perché aveva curato sua moglie, e  la esorta a scappare con lui. Dopo un primo momento d’incertezza, Claudina scappa, ed arriva a casa di quest’uomo; le vengono dati dei vestiti ma non ospitalità, a causa del rischio che la coppia Lendu avrebbe corso se fosse stata scoperta a proteggere una donna Hema.
Claudina viene accompagnata fino al confine con l’Uganda, dove  si unisce agli altri rifugiati e rimane per 4 mesi nella foresta.
Un giorno viene riconosciuta da un Medico Senza Frontiere che aveva lavorato nel suo stesso ospedale; convinto a non lasciarla da sola si mobilita per farle avere tutte le carte per scappare in Italia, e la  mette in contatto coi Padri Missionari Bianchi.
Il pensiero di Claudina non era tanto rivolto a se stessa e al proprio futuro quanto ai suoi figli, di cui non aveva alcuna notizia e che, ovviamente, non voleva abbandonare.
Incoraggiata a ritenersi fortunata per essersi salvata, trova la forza di partire lo stesso, con la promessa da parte di uno dei padri di aiutarla a ritrovare i suoi bambini. Rimane per più di un anno in un centro di accoglienza a Roma, dove viene aiutata a parlare della sua storia e, in questo modo, a cercare di “voltare pagina”.
Durante questo periodo Claudina riceve le visite di un sacerdote di Verona, che spesso porta con sé Silvio, che col tempo impara in che modo stare vicino ad una donna così fragile e con un passato così doloroso.
Conoscendola, Silvio se ne innamora e le chiede di diventare la sua fidanzata e di vivere insieme a Verona, proposta che lei accetta dopo qualche momento d’incertezza iniziale.

Ora Silvio e Claudina vivono insieme; insieme hanno dovuto superare pregiudizi da parte di amici, familiari e concittadini. Questo è stato possibile soprattutto perché Claudina ha dimostrato la sua volontà di impegnarsi: ha studiato e si è laureata in infermieristica, lavorando anche 14 ore al giorno per tre mesi.
È stata lei per prima a voler ricostruire la sua vita, con le sue stesse mani, con una persona al suo fianco che la ama nonostante il suo passato molto pesante.
Oggi Silvio e Claudina stanno aspettando l’arrivo in Italia di Bruno, il più piccolo dei suoi figli, l’unico di cui finora è riuscita ad avere notizie. Si tratta di un’attesa sofferta, che dura da circa un anno: il bambino è bloccato dalle burocrazie nazionali, che aggiungono queste lentezze alla sofferenza di una donna già provata da diverse violenze.
E’ stato sorprendente vedere Claudina raccontare la sua storia, così dolorosa e apparentemente insormontabile per qualsiasi essere umano, col sorriso sulle labbra.
Quando gliel’abbiamo fatto notare ci ha parlato di quanto sia importante per gli africani vivere con il “cuore leggero” e con il sorriso. Infatti ci ha detto “Malgrado tutto questo non mi sono  buttata giù, perché ho continuato a vivere”.Parlando del suo attuale rapporto con l’Africa, alla domanda “Tu ami ancora l’Africa?” ci ha risposto : “Io amo l’Africa nella sua globalità, ma non voglio più tornare in Congo.”

Il suo incontro ci ha trasmesso innanzitutto tanta forza, che ti viene data dall’incontro con persone che ti amano sinceramente e totalmente, come hanno fatto Silvio e tutte le persone che si sono prese a cuore la sua situazione.
Un’altra cosa che ci ha colpito e che emerge dalla sua storia è la “ciclicità del bene”: è stato il bene che aveva fatto in modo gratuito e disinteressato nella sua vita e attraverso il suo lavoro ad averla salvata!
Claudina ci ha anche detto: “Perdonare è la cosa più pesante che esista. Ho cercato di perdonare le persone che mi hanno fatto del male, ed è stato molto difficile. Però è questo che mi ha aiutata a superare il dolore e a continuare a vivere”. 

E’ molto difficile racchiudere in un articolo tutte le emozioni e le domande che l’incontro con Claudina e Silvio ha suscitato in noi; speriamo di essere riuscite a trasmettervi un po’ della loro gioia di vivere e dell’importanza dell’amore vero per superare le difficoltà più grandi.
Speriamo anche di avervi lasciato con qualche nuovo interrogativo e con la voglia di conoscere e di approfondire sempre gli incontri che facciamo, che possono farci rendere conto di quanto, a volte, i problemi per cui ci disperiamo sono o futili, o superabili aprendosi all’incontro con gli altri.

torna all'inizio

 

DALL’AFRICA NERA ALL’AMERICA NERA

Padre Fideli viene dall'Africa nera.
L'ha rappresentata in mezzo a noi, ascoltandoci, sedendosi in cerchio con noi di fronte alla cartina del suo continente e ad un batik rappresentante l'Africa “in piedi”, attiva e presente negli occhi della sua gente. Ma quella mattina è la prima volta che si siede in cerchio da “relatore”. E, per introdursi, canta accompagnandosi con il ritmo dello djembé:

“Sou de lá d'Africa
se eu não sou de lá
os meus pais são de lá d'Africa ...”
(sono di là dall'Africa, se non sono di là i miei genitori sono di là d'Africa...)

Quella mattina Padre Fideli ci porta però in un altro luogo, al di là dell'oceano. Un luogo che può essere definito “un pezzo d'Africa in America”, dove su una popolazione di 186 milioni circa di persone, 85 milioni sono di neri. Si tratta dello stato di Bahia, in Brasile, e, in particolare, della sua capitale, Salvador. Padre Fideli ci ha passato 10 anni, e ne parla con la luce negli occhi.
Parla con semplicità della sua conversione da ragazzo quindicenne del Togo e di come aveva capito di voler seguire Comboni e “ricambiare” la sua passione per l'Africa, dedicandosi alla missione in America Latina.
A 28 anni comincia così la sua avventura missionaria a Salvador, dove si dedica alla “Pastorale Afro”.
La “questione africana” a Salvador ha una storia ben nota, lunga e poco felice. Dal 1540 circa al 1888 (anno dell'abolizione della schiavitù), migliaia di imbarcazioni hanno trasportato non meno di un milione (ma alcuni studiosi sostengono che siano stati molti di più) di schiavi neri verso il Nuovo Mondo e solo dal 1995 è stato possibile denunciare ufficialmente episodi di razzismo . Attualmente, poi, sono previste le cosiddette “quote nere”, ovvero una “discriminazione in positivo” per cui alcuni posti, negli ambiti, per esempio, dell'università e della politica, devono essere riservati alla popolazione nera. L'integrazione tra la popolazione nera, india, bianca e meticcia, non è comunque semplice: qui si aprirebbe un lungo discorso, che riguarda l’instabile equilibrio su cui poggia la società brasiliana. Poveri poveri e ricchi ricchi convivono a pochi metri di distanza, sono magari dirimpettai, ma appartengono a due mondi diversi e, nella quasi totalità, i “bianchi” sono anche “i ricchi”. Il grattacielo sorge davanti la favela. Il club di tennis del ricco è racchiuso da recinti e guardie armate tutt’intorno. La scuola pubblica esiste, ma alla fine delle elementari è già tanto se i bambini sanno leggere, mentre la scuola privata è quella di qualità. Ed ecco che l’esclusione e la divisione sociale continuano…
Una storia difficile, quindi, quella dei neri in Brasile, ma che ha dato luce ad una popolazione di origine africana che si è costruita nel tempo un’identità propria basata sulle culture di provenienza rivisitate nel Nuovo Mondo, come la religione del “candomblé”, dove compaiono divinità derivanti da diverse aree dell'Africa.

Quale allora il senso di una “Pastorale Afro”? Padre Fideli ce la spiega delineando i tre principali obiettivi. Primo: valorizzare la “negritudine” ed incoraggiare l’autostima negli afro-brasiliani, questo vuol dire aiutarli ad accettare le proprie origini africane, e quindi anche il colore della propria pelle, e a comprendere la propria diversità come dono di Dio. Molti di loro, come ci è stato spiegato, ripudiano il “nero” per emulare il “bianco” e la mentalità che questo veicola. In Brasile chi è nero viene stigmatizzato perché esteticamente “brutto” (capelli crespi e duri, labbra troppo carnose, etc.) ed inferiore, laddove il “bianco” rappresenta, invece, il modello di bellezza ideale. Per secondo l’inculturazione, cioè rileggere il Vangelo alla luce di una cultura altra rispetto a quella occidentale-dominante. La Pastorale Afro, in questo senso, cerca di assumere la visione del mondo della cultura africana e su questa base tenta di riplasmare la religione cattolica, affinché sia più vicina e quindi più condivisibile dai locali. Infine il dialogo con le religioni afro presenti in Brasile, che vengono giudicate “diaboliche” dalle altre realtà ecclesiali (come i pentecostali), ma nelle quali è possibile trovare valori e tratti comuni con il cattolicesimo.
Ancora una volta, attraverso la testimonianza di Padre Fideli, abbiamo incontrato la realtà di persone socialmente emarginate e politicamente ignorate, ma anche la speranza di chi insieme ad esse lotta per la loro integrazione nella società brasiliana. Una sfida, quella dell’integrazione tra persone dalla diversa colorazione della cute, che ci richiama e ci riporta al “nostro beato” Occidente, dove la questione dell’immigrazione e dell’incontro con l’altro culturalmente distante rappresentano duri nodi politici e sociali da sciogliere. È con la speranza trasmessaci da Padre Fideli che ci ripromettiamo di aprire gli occhi per guardare con più attenzione dentro a quel caleidoscopio di umanità che è il Creato in tutte le sue sfumature!

... riprende lo djembé e cominciamo a cantare
Deus è mais
Deus nos dê saude e força
legria e muita paiz...


torna all'inizio