Scritti di Arturo Paoli

 

torna alla pagina dei Testimoni

 

In questa pagina abbiamo raccolto alcuni testi di Arturo Paoli trovati nella rete e che speriamo possano aiutare ad avvicinarsi e a conoscere meglio questo uomo coraggioso che ha scelto di vivere da povero tra gli impoveriti dell'America Latina.

Intervista ad Arturo Paoli La mia identità l'hanno formata i poveri (Ore Undici)

Intervento sul tema del Perdono (MissioniConsolata-Gennaio2000)

Intervista ad Arturo Paoli:
La globalizzazione e l'Occidente malato (http://www.societaperta.it)

"Quando finirà la cuccagna del re?" Intervista ad Arturo Paoli (www.societaperta.it)

Difendere Cristo dal cristianesimo ( www.manitese.it e intervista realizzata da www.nigrizia.it)

LA PORTA SANTA di Arturo Paoli (ww.christusrex.org)

Arturo Paoli non partecipa al Giubileo degli anziani

Ai Giovani, in occasione della Giornata della Memoria

Il Dramma dell'Opulenza (intervista di A. Bobbio) "La Porta Stretta" Omelia di Arturo Paoli

 

 

La mia identità l'hanno formata i poveri: intervista ad Arturo Paoli di Patrizia Caiffa


"Giustizia" e "amore per i poveri" sono le parole che ricorrono più frequentemente nel parlare pacato e sereno di fratel Arturo Paoli, 88 anni di vita sperimentata nella sua essenza più profonda, sublimata nella relazione con Dio e con i poveri. Lo scorso anno è stato proclamato dallo Stato d'Israele "Giusto fra le Nazioni" per il suo impegno a difesa degli ebrei durante la seconda guerra mondiale.

Il terzo segreto di Fatima. Cosa pensare? "La Chiesa cattolica ha sempre dimostrato, nei secoli, grandissima dignità e distacco nel giudicare le rivelazioni personali. Anche nei processi dei santi non le ha disprezzate ma non le ha nemmeno prese molto in considerazione, dando quel suggello di verità e autenticità che si dà invece alle verità rivelate. Al contrario la solennità che ha circondato la promulgazione dei segreti di Fatima ha dato l'immagine di una cosa seria, come fosse la Santissima Trinità. Si è andati oltre il livello in cui sono sempre state le rivelazioni private, che erano sì rispettate ma non considerate una promulgazione di fede davanti alla gente. Questo, secondo me, ha prodotto un effetto negativo sul pubblico: c'è in giro una specie di fede molto basata sul miracolo, sulle guarigioni attribuite a Santi o a persone speciali - quando invece il Vangelo parla con sobrietà e distacco dei miracoli di Gesù, che lui produceva per manifestare la presenza del Padre - con una carica emozionale intorno alla fede cattolica che non aiuta il suo progresso né la manifestazione del vero senso della fede, ossia quello di trasformare la società umana. Mi pare invece sia rimasta molto nell'ombra una delle più importanti indicazioni del Concilio Vaticano II secondo la quale il centro della predicazione di Gesù è il regno di Dio e la preoccupazione per la giustizia, la difesa dei vinti, degli oppressi. Questa dovrebbe essere predominante. Invece tutto si riduce a qualcosa di molto simile alla superstizione. E la gente che osserva dal di fuori la fede non la vede importante per la vita, non trova in essa il senso del vivere. Eventi come la rivelazione del terzo segreto di Fatima sono colpi di scena che attraggono l'attenzione sulla Chiesa, il Pontefice, utilizzando il metodo di questa società. Come con la pubblicità si cerca di attirare l'attenzione dei prodotti, anche la Chiesa usa lo stesso metodo. E' come una specie di febbre che porta a cercare sempre qualche idea nuova per mantenere viva l'attenzione sulla Chiesa. E io credo che questo dispiaccia molto alle persone che amano la Chiesa. E quando la Chiesa istituzione non lancia ponti ma si ritira, la sola possibilità che rimane è il dissenso. Perdendo in questo modo la possibilità di una critica costruttiva, di un contributo di pensiero che potrebbe dare il mondo laico...".
E della Chiesa di oggi?
"La scelta odierna della Chiesa è dal punto di vista strettamente spiritualista e della classe borghese. La spiritualità ufficiale che viene predicata, favorita, alimentata non è né per gli intellettuali, né per il popolo. E' per la classe borghese, la classe ricca, statica, quella che non si vuol muovere, quella che in fondo sente che la Chiesa deve essere al suo servizio, che anche Dio deve essere al suo servizio. Non c'è più un messaggio serio capace di essere capito dagli intellettuali e dal popolo. L'intellettuale non aspetta una spiegazione razionale ma la visione di una fede che abbia una efficacia storica sulla trasformazione del mondo. Il popolo aspetta la giustizia, la difesa dei suoi diritti, la solidarietà. Ma non c'è né l'uno né l'altro. C'è una cosa di mezzo che soddisfa la festa, il fasto, il bisogno di colori, di immagini, di esultanze, di trionfi. Tutto a misura di una classe borghese che non assume mai la realtà, la povertà della realtà, la sfida e le sofferenze della realtà, per vivere nelle novelle della televisione...dove entra anche la preghiera, la festa religiosa, ma tutto viene appiattito".
Ma se la Chiesa è ispirata dallo Spirito Santo e il Papa è il rappresentante di Cristo in terra... perché tutto ciò?
"Nella Bibbia il popolo d'Israele è stato scelto da Dio per essere il popolo testimone, quello che presenta al mondo il Dio vero. Eppure il popolo di Dio è pieno di prevaricazioni, di abbandoni, di tradimenti, di esitazioni... Il nuovo popolo di Dio presenta le stesse esitazioni, debolezze umane, fragilità, momenti di oscurità... Perché nella Bibbia si parla sempre dell'Alleanza che si rinnova? Di un Dio che ritorna di continuo? Perché c'è sempre questo tradimento o cedimento del popolo che non è all'altezza della missione che Dio gli ha affidato. Eppure Dio continua con la sua fedeltà. Questo è il grande mistero, che poi ognuno vive nella sua vita privata, quando ci chiediamo come sia possibile che Dio continui ad amare una persona indegna come me... Quando si vive questo nella propria esperienza personale non è strano veder succedere questo a livello macroscopico".

Parlaci della tua esperienza di fede...
"Durante l'esperienza della vita di fede ci viene tolta sempre più gradualmente la nostra iniziativa: nella relazione con Dio noi siamo totalmente passivi. Come posso io chiedere a Dio di ascoltarmi, di occuparsi di me? Non si può, Dio è sempre più in là. Però penso che Dio, vedendo la nostra debolezza, la nostra struttura umana, si lascia invocare, supplicare, accetta una relazione che è fatta più dall'uomo che da Lui. Dio accetta la rozzezza di questa relazione, prende sempre più posto dentro di te, ti fa rinunciare ai tuoi desideri personali, alle tue iniziative, ai tuoi sogni, ai tuoi progetti. E senti che tutto ciò che ti aiutava ad avere una relazione con Lui non ha più senso, perché Lui ti occupa completamente. Io ho cercato di essere sempre fedele a ciò che ci prescriveva la Chiesa nella preghiera, nella meditazione mattutina, ecc. Ora non potrei più perché dedico molto più tempo di quello che dedicavo nel passato a Dio. Ma è più ascolto che Parola. L'ascolto è nel deserto, non si ha più bisogno di ricorrere a santi, letture, parole o a un libro o alla spiritualità. L'ascolto ti blocca lì dove sei e ascolti senza sapere veramente cosa. Ma senti che ascolti. Ti apri. Se dovessi dire quali sono le parole della mia preghiera sarebbero: 'vieni' ed 'eccomi'".
Come fare per arrivare ad un ascolto così vero?
"Non saprei dirtelo. Forse Dio ha cercato di vedere nel mondo chi è il più bisognoso, come succede nelle famiglie dove si corre verso il figlio più debole. Forse Dio si è diretto verso di me per questo. Ho cercato di essere vero, di essere sincero. Siccome Lui abita tra i poveri - e di questo non ho alcun dubbio - forse mi ha visto aggirare tra i poveri e si è chiesto 'Chi è questo qui che visita le famiglie, che abbraccia il lebbroso? Facciamogli fare una particina nel mondo...' Mi ha scoperto tra i poveri perché lì sono andato con amore umano. I poveri ti provocano amore. Tutto quello che ho e che sono lo devo a loro, altrimenti sarei stato uno speculatore, uno di quei freddi teorici... Ma vista dalla parte dei poveri la Chiesa a volte fa soffrire molto. E' vero che il Papa ha mangiato con i barboni - e io sono sicuro che il Papa personalmente ama i poveri - però tutte le decisioni, tutte le scelte, sono contro i poveri, non tengono assolutamente conto delle loro esigenze, dei loro diritti. Nelle encicliche e nei discorsi sì, ma nelle decisioni pratiche, nell'esercizio della Chiesa, i poveri non hanno voce, non contano nulla. E dove non entra il povero Dio non entra. Possono dire quel che vogliono, possono fare statue d'oro, ma Dio non entra mai dalla porta dove non entra il povero".
Ma prima o poi si realizzerà una Chiesa dei poveri?
"Forse si realizzerà quando subentrerà una grande crisi, una débâcle come l'invasione dell'islam o qualcosa del genere. Questo perché gli eccessi di trionfalismo provocano sempre, quasi come un fenomeno storico, delle reazioni di rivolta".
Quali consigli dare ad un "cristiano qualunque" che voglia assumere pienamente la causa dei poveri?
"I poveri sono dovunque. Gesù ha detto 'i poveri li avrete sempre con voi'. Purtroppo la storia è sempre una relazione tra vinti e vincitori, tra schiavo e padrone. Bisogna mettersi dalla parte dello schiavo e dell'oppresso, anche politicamente. Un parroco deve guardare alla sua chiesa non dalla parte delle pie signore che lo circondano ma dalla parte dei poveri". 
Eppure spesso ci si occupa dei deboli sono per fare bella figura, per assistenzialismo...
"Certo, e lì è il punto dolente. Non bisogna fare elemosina ai poveri ma fare in modo che formino la nostra identità. Loro me l'hanno formata. Io non vivo come loro, vivo umilmente ma mangio due volte al giorno, mi vesto, viaggio, ma la mia identità è in mano loro. Per descrivere questo Lévinas usa l'idea dell'ostaggio. Sembra un'idea astratta eppure è una realtà. I poveri danno tanto amore, fiducia, speranza, gioia, che non si trova negli altri ambienti. Lì ho trovato veramente Dio".

Si realizzerà un giorno un mondo in cui non ci saranno più poveri?
"Forse non ci saranno più miserabili economicamente, ma gli oppressi ci saranno sempre. La donna sarà sempre oppressa. Nella relazione uomo-donna la donna sarà sempre in una situazione di svantaggio per la sua stessa natura, l'essere legata così fortemente alla natura, che è la sua grandezza e la sua limitazione. L'uomo ha sempre l'impressione, anche fisicamente, di essere quello che guarda la natura dal di fuori, con la grande tentazione di usarla, di dominarla.

E la donna, anche se non lo vuole, è sempre legata alla natura. Non dovrebbe esserlo ma è dalla parte dell'oppresso perché l'uomo vede sempre la natura come qualcosa che l'attrae e che lui deve dominare. La relazione è invece lasciarsi attrarre non per dominare ma per mettersi in una posizione di umiltà, di gratitudine, dicendo all'altro 'tu mi dai la vita' non solo fisica ma anche spirituale..."
Perché la Chiesa è tanto impacciata sui temi che riguardano la morale sessuale?
"La Chiesa ha paura perché ha l'idolo del celibato, e non si preoccupa di come i preti vivono la sessualità. Ora un po' meno con le scienze attuali, ma prima la sessualità non esisteva e la repressione si manifestava con odio verso la donna. Fortunatamente la mia vita è stata un po' speciale. Io ho vissuto da laico fino a 25 anni, sempre in scuole miste, avevo numerose amicizie tra le ragazze. Queste esperienze sono state molto utili perché rompono quel mistero che si crea intorno alla figura femminile. Io ho sempre cercato l'amicizia con la donna, che per me è necessaria. E' diverso un amico uomo da un'amica donna, ti dà quello che l'altro non ti può dare".

Prima del Brasile dei poveri hai vissuto molto tempo nel deserto. Cosa ti ha dato questa esperienza?
"La vita contemplativa ti libera completamente dalla moralità. Non per dire 'fai quel che vuoi' ma perché ti mette in una sfera di libertà diversa. Un esempio: a 18 anni ho conosciuto Giorgio La Pira, che era veramente un mistico. Una cosa mi impressionò molto: lo andai a trovare che era ammalato e trovai seduta sul letto una ragazza che conversava con lui con tanta semplicità e purezza. Mi fece vedere ciò che io inconsapevolmente cercavo e che forse non avevo raggiunto, la relazione semplice, affettiva. E' stato un esempio migliore di quanto potevano darmi preti o altri discorsi: l'idea di una relazione trasparente. Un altro prete forse si sarebbe scandalizzato. Io capii subito il valore enorme di questa libertà. La vita contemplativa ti libera dalla moralità per metterti in una sfera diversa. La donna non è più la tentatrice, quella che devi sedurre o conquistare. E' la tua amica che quando ti apri ti dà delle ricchezze che tu non hai".
Quali sono le maggiori difficoltà nel lavorare con i poveri?
"L'impotenza assoluta e il vedere come siano sempre traditi da tutti. I poveri servono per esercitare le peggiori qualità dell'uomo: la furbizia, le dominazioni... come un sadico su un bambino. E si soffre nel vedere tutto ciò. Prima di venire in Italia sono andato a visitare dei sacerdoti dell'Idi (Istituto dermopatico dell'Immacolata) che hanno costruito un grande laboratorio di analisi in Brasile. C'era anche un medico tra di noi. Vedendo una stanza vuota chiese a cosa servisse. I religiosi dell'Idi hanno risposto che avrebbero messo lì due o tre letti per accogliere i poveri che venivano da lontano per fare le analisi. Il medico è andato su tutte le furie dicendo: 'Non sapete come sono i poveri, se vengono qui a dormire non se ne vanno più'. Allora mi chiedo: in città come le nostre, dove corruzioni e imbrogli sono all'ordine del giorno come si può negare ad un pover'uomo il diritto di stare alcuni giorni a dormire in ospedale? Questa cosa mi ferì profondamente. E' come quando i poveri ti rubano la bombola del gas e accade la fine del mondo... Anche i poveri hanno la loro dignità, noi non sappiamo cosa vuol dire passare dei mesi senza il gas, senza la possibilità di cuocere il riso. Invece i grandi furti vengono elogiati. 
In un mondo così, dove trovare la speranza?
"Eppure i poveri ce l'hanno. La depressione non esiste tra i poveri ma tra i ricchi, tra chi ha la vita assicurata. Ai ricchi non manca nulla però devono andare dallo psicanalista. I poveri avrebbero tutte le ragioni per disperarsi eppure tra loro c'è sempre la speranza, la forza della vita, l'andare avanti perché il domani sarà migliore".
Cosa diresti ad un pessimista che pensa sia inutile impegnarsi "tanto le cose non cambieranno mai"?
"Gli direi: amico mio, io non so se le cose cambieranno, confido che prima o poi cambino, quando sarà non lo so. L'importante è che io oggi mi salvi, e se sono un uomo ingiusto, se non assumo la lotta per la giustizia, non sono un uomo, mi distruggo. C'è una forma di egoismo superiore che è salvare se stessi. Salvare se stesso non a danno degli altri ma per essere salvezza anche per gli altri".
Quali sono stati finora gli effetti della globalizzazione, soprattutto nel Sud del mondo?
"La globalizzazione ha cancellato tutto con una livella. Non esiste politica, idea, ma solo l'accumulazione, il denaro. Anche il Giubileo è entrato nella legge generale. I politici non sanno più dove è la destra e la sinistra perché non esiste politica ma solo il maneggio del denaro, per vedere se la nostra moneta regge. Anche la remissione del debito estero non serve se non sappiamo chi ne approfitterà. Il denaro dovrebbe servire per le spese sociali, quei servizi a cui il popolo ha diritto e che non può pagare. Se si mandano soldi là o si condonano ne approfitteranno sempre quelli che sono ricchi, quelli che dominano".
Il capitalismo sta dando segni di cedimento?
"Il capitalismo deve finire, non c'è dubbio. Deve finire perché è contro natura. E' come se in una famiglia entrano due milioni al mese che devono servire per le spese di mantenimento, la spesa, lo studio, ecc. Se invece io riservo 300.000 lire per mangiare e il resto lo investo perché i soldi devono aumentare, fruttare, si crea una conduzione innaturale della famiglia. Lo stesso succede nella società. I soldi vengono distribuiti sempre meno e sempre più accumulati. Alla fine soffocano, necessariamente".
Il dialogo tra le religioni riuscirà a cambiare qualcosa nel mondo?
"Intanto viviamo in una società pluralista. O ci facciamo guerra oppure dobbiamo metterci d'accordo. Saranno messi in valore quegli aspetti della nostra fede che possono essere armonizzati nel dialogo. La responsabilità verso gli altri, la giustizia, questi linguaggi ci faranno sentire più affini le altre religioni. MI sentirei più vicino ad un musulmano che crede in questi valori piuttosto che ad un cattolico che vive egoisticamente e pensa alla sua fede come salvezza personale ma non è interessato agli altri. Il pluralismo non è solo accettazione dell'altro. E' messa in discussione di quegli elementi comuni nelle diverse fedi, poi ciascuno sarà ispirato da una fede o dall'altra. Quindi avranno sempre meno valore i culti in sé. Tutto questo finirà, deve finire".

Patrizia Caiffa
Nata a Roma nel 1966, lavora come giornalista nel Servizio di Informazione Religiosa. Si occupa di attività di volontariato nazionale e internazionale.

Intervento di Arturo Paoli sul tema del Perdono

 

La domanda di perdono espressa dal Papa, nei giorni scorsi, con il bigliettino lasciato sul muro del antico tempio di Salomone, è stata valutata in vari modi. Io penso che quella richiesta, ripetuta e certamente sofferta, in quanto doveva assumere una posizione molto personale contro un'opinione diffusa, rappresenta un senso di colpa che il Pontefice sente dentro di sé. Questo è certo e, anche se non riusciamo a capirlo, di sicuro si rivelerà alle generazioni future. Penso cioè che tale richiesta di perdono, abbia un valore profetico, intendendo per profezia atti o parole contenenti un valore nascosto, molte volte non percepito dalla stessa persona che li compie, ne tanto meno dalla generazione contemporanea che assiste a tali atti. L'origine del senso di colpa espresso continuamente dal Papa, credo che debba essere ricercato dentro la nostra cosiddetta civiltà occidentale, nella nostra cultura cristiana in quanto il cristianesimo è certamente il perno culturale dell'Occidente. E' vero che viviamo in un contesto religioso pluralistico, ed è vero che altri elementi hanno contribuito alla visione del mondo prevalente in Occidente, ma non possiamo negare che il cristianesimo abbia svolto, e stia ancora svolgendo, un ruolo predominante. Quando parliamo di riconciliazione, di richiesta di perdono, per evitare di pronunciare parole che restino nell'aria, prima dobbiamo porci le seguenti domande:
A chi chiedere perdono?
Quale colpa dobbiamo farci perdonare?
Quali sono le conseguenze di tale riconciliazione (
a cui ci richiama continuamente il Concilio Vaticano II).
Stasera vorrei riflettere su una domanda in particolare: Di che cosa, noi cristiani, dobbiamo chiedere perdono? E soprattutto: a chi dobbiamo domandare perdono? E quali sono le conseguenze di questo nostro desiderio di riconciliazione?
Credo che le radici delle nostre colpe risiedano nel sistema economico dell'Occidente, la cosiddetta "globalizzazione", un progetto centralizzato e universale. Sappiamo che questo progetto economico uccide ogni giorno quarantamila persone nel mondo, sappiamo che le enormi disuguaglianze sociali prodotte sul pianeta da tale sistema sono la causa principale di tantissimi conflitti armati. In tutto ciò, come detto, la globalizzazione gioca un ruolo determinate per varie ragioni: innanzitutto perché tali guerre si fanno con il "placet" dell'Occidente cristiano, ma anche perché la globalizzazione, in quanto imposizione di un unico modello economico e culturale, sta soffocando l'attività intellettuale e politica locale, mediante l'affermazione di un'organizzazione tecnologica così vasta e precisa da non lasciare spazio alle attività culturali. Questo è un modo di corrodere e contaminare la stessa mentalità umana: la tecnologizzazione, cioè l'esigenza di studiare il potere della tecnica, limita la libertà di pensare, di riflettere e di immaginare un altro tipo di società.
Vengo da un congresso di "Mani Tese" tenutosi a Firenze al quale hanno partecipato una quindicina di economisti di fama internazionale i quali analizzavano non i successi della nostra società tecnologica e tecnocratica, ma gli effetti negativi che essa produce nel mondo. Si è discusso della vendita illegale di armi, della mortalità infantile nei paesi cosiddetti "in via di sviluppo", soprattutto del traffico di droga: al riguardo tutti gli studiosi presenti hanno dovuto ammettere che il commercio illegale di stupefacenti costituisce una risorsa di primaria importanza per il sistema economico occidentale: esso non può farne a meno.
L'esempio più drammatico e vergognoso del '900, che prova come la cultura occidentale sia fabbrica di morte per milioni di persone, è la Shoah ebraica. Anche se oggi Auschwitz è chiuso, lo sterminio in esso continua quotidianamente nel mondo in forma più subdola e la nostra cultura è il centro di questo genocidio permanente. Noi tendiamo a dimenticarlo, però tutto questo esiste. Nei paesi in via di sviluppo (Sud America, Asia, Africa) in cui si sta affermando il nostro sistema economico si vede con più facilità come dietro l'apparenza di vitalità e di esuberanza della società rappresentata dalla lite economica, ci sia in realtà la disperazione delle grandi masse che non condividono la ricchezza di pochi e soprattutto non hanno neppure la speranza di un futuro migliore. Se penso al Brasile, paese da cui arrivo, chiunque arrivi a San Paolo o a Rio de Janeiro riceve un' impressione di grande sviluppo e vitalità. Ma basta spostarci in periferia per incontrare le favelas, è sufficiente aggirarsi per le baracche per accorgersi a quale estremità di miseria arrivano queste famiglie, fino a che punto è disperata la loro condizione.
Quello che più mi impressiona è pensare come sia stato possibile che proprio dall'Europa, culla del più alto pensiero filosofico della storia dell'umanità ed origine di tutte le forme di cristianesimo (non solo della confessione cattolica), sia nato questo progetto di morte, fatale per milioni di persone. Davanti a questo dato di fatto dobbiamo fermarci un attimo a riflettere, altrimenti tutte le nostre meditazioni su perdono e riconciliazione sono inutili perché, per poterci riconciliare, bisogna avere la consapevolezza di offendere qualcuno. La nostra cultura, di origine greca, è caratterizzata da una visione idealistica, cioè dalla continua tensione a trascendere la realtà: essa ha lasciato in eredità l'abitudine a pensare in categorie universali, in forme lontane dall'esperienza vissuta quotidianamente. Per questo motivo la nostra intellettualità ha sempre elaborato progetti fuori dalla realtà e poi ha preteso di calarli nel mondo reale. Anche la Chiesa, ovviamente, è stata influenzata da questa cultura: quando qualcuno accusa il Papa di essere uno strenuo difensore del capitalismo, viene sempre sommerso da una sterminata quantità di documenti, encicliche, studi, prese di posizione da cui emerge chiaramente come il Pontefice abbia sempre condannato le degenerazioni prodotte dal capitalismo. Ma tale documentazione è sempre un prodotto che cade dal cielo dell'astrazione e mai dalla pratica. Non si tratta di una colpa della Chiesa, è la nostra cultura che è fatta così. L'uomo ha prodotto delle grandi astrazioni, ma, con il passare del tempo, tali astrazioni gli sono sfuggite di mano ed hanno cominciato a vivere in maniera autonoma.
Durante il nazismo, l'astrazione culturale era lo "Stato Etico" che aveva il diritto di sopprimere la vita dei singoli. Nel mondo contemporaneo, l'astrazione equivalente è il "Mercato". Esso, da un certo punto in poi, non si è più concretizzato nella distribuzione dei beni, ma nell'accumulo di ricchezza a favore di pochi e provocando la morte di milioni di persone. Ancora una volta l'astrazione è sfuggita di mano all'uomo. Gli economisti incontrati recentemente, mi hanno fatto notare come le borse economiche dei vari paesi possano incrementare i profitti senza che questo comporti un parallelo sviluppo della società, anzi più spesso questa si impoverisce.
Ci chiediamo: ma la nostra religiosità che c'entra con questi ragionamenti ?
Ebbene queste riflessioni toccano il cuore dell'essere cristiani. Per motivi culturali siamo portati a pensare che il credente, per essere tale, debba pregare, esercitare il culto e, magari, fare l'elemosina. In realtà in tutta la Bibbia, dall'Antico Testamento in poi, Dio ha sempre detto che del solo culto non sa che farsene, che essere cristiani vuol dire "essere assetati di giustizia". Quando Gesù cacciò i mercanti dal tempio, lo fece perché era ingiusto che loro si arricchissero in un luogo sacro lasciando che i fratelli morissero di fame. E' nella giustizia che bisogna provare il proprio amore, non nell'esasperazione del culto. L'andare a messa ogni giorno è inutile se non corrisponde al nostro stile di vita, evidenzia soltanto uno squilibrio fra la nostra religiosità formale e l'impegno per la giustizia. Quindi dobbiamo convertire la nostra religiosità dalla formalità fine a se stessa alla giustizia. Ed essere giusti vuol dire: sentirsi direttamente responsabili degli altri.
Leggo senza mai stancarmi il capitolo 4° di Luca nel quale si dice che quando Gesù ha iniziato la sua opera nel mondo, non ha aperto una scuola di catechismo o di teologia, ma è andato a portare la Parola direttamente ai poveri ed agli afflitti. Questa è etica.
Quale differenza c'è tra la morale e l'etica? La morale è una imposizione che nasce dall'interno e guida i comportamenti. L'etica è un comportamento di responsabilità e di amore verso i fratelli e la natura.
Oggi, noi viviamo in un mondo senza etica, infatti nessuno va a protestare con un industriale che rovina il mondo con le sue fabbriche ed attenta così alla vita dei suoi fratelli. Questo succede perché l'unico valore riconosciuto è la capacità di produrre ricchezza, il resto è ininfluente. Siamo perciò arrivanti al punto che l'Occidente "cristia-nissimo" ha dato al mondo i Santi ma poi lo ha lasciato in mano al diavolo.
Per questo motivo se noi non cominciamo ad assumerci le nostre responsabilità, il mondo (inteso come gli altri e come natura) non ha assolutamente futuro. Per poterci  convertire dobbiamo essere consapevoli che il mondo non è nostro e non è stato creato per noi. Il vero cristiano deve obbedire a Dio obbedendo al suo volere che si manifesta nel mondo, altrimenti io posso cantare mille "Alleluia" e dire "Dio ti voglio bene", ma se tradisco il Suo progetto, la mia preghiera è una bestemmia. Il caos che c'è sulla terra lo abbiamo creato noi, non Dio: sono gli esseri umani che non hanno seguito il Suo progetto.
Quando penso alla protervia delle persone che pensano di poter fare quello che vogliono della natura e della terra, mi viene sempre in mente un signore che, in Brasile, è proprietario é proprietario di un appezzamento grande quanto il Belgio e l'Olanda messi insieme: egli ne può fare ciò che vuole perché quel terreno è legalmente suo. Questo è stato possibile perché viviamo in un mondo nel quale la fame e le altre necessità concrete dell'uomo non hanno valore. Contano solo i grandi progetti: è così anche per il Giubileo. Quando si parla di riconciliazione si omette sempre di affermare che, per riconciliarsi concretamente, occorre ripartire dalla responsabilità: io sono responsabile degli altri (degli immigrati che passano da Pisa, dei barboni che dormono alla stazione, etc.) perché la mia forma di vivere, la libertà di scegliere ciò che voglio al supermercato può anche provocare la sofferenza, e addirittura la morte, di altri esseri umani. Tutto questo non è un'appendice della nostra fede, ma ne rappresenta la sostanza.
Penso che in futuro, la possibilità di riconciliarci con le altri religioni non sia tanto nel trovare identità di dottrina e di concezioni che sono profondamente diversi, ma nel rispetto di valori universali su cui tutti dobbiamo convergere: la responsabilità verso gli altri, la fraternità e la giustizia. Bisogna incontrarci nella responsabilità verso il mondo che, poi, non è altro che obbedienza a Dio, al suo progetto, al suo sogno. In questo senso la Bibbia è di una chiarezza assoluta: dalla prima all'ultima pagina non fa altro che dirci che noi siamo ospiti, non siamo i padroni del pianeta. Poi la Bibbia e il Vangelo sono state involte in catechismo di settecento pagine, con tutte le conseguenze che ne derivano: elucubrazioni teologiche, dogmi, regole, ragionamenti. Ma per dire "ama Dio e ama il tuo prossimo sinceramente e lealmente ci vogliono settecento pagine? Per salvare il mondo e l'umanità, e per essere autenticamente cristiani, è necessario ritrovare la semplicità del Vangelo.
Chiudo con un aneddoto. Un rabbino chiese al profeta Elia: "Quand'è che verrà il Messia?". Ed egli rispose: "Perché non lo chiedi direttamente a Lui ?". Certo - replicò il rabbino -, se solo sapessi dove posso trovarlo e da che cosa lo riconoscerò". Allora Elia disse: "Lo puoi incontrare alle porte di Roma e lo riconoscerai perché sarà in mezzo ai poveri, fra le persone che si lamentano per le loro piaghe". Il rabbino si recò a Roma e, trovato il Messia, gli chiese: "Quando verrai a salvarci?". Ed Egli rispose: "Oggi...". Il rabbino se ne andò infuriato senza attendere che il Messia avesse completato il discorso. Tornato da Elia, gli disse: "Anche lui mi ha mentito, ha detto che sarebbe venuto oggi, ma io non vedo i segni della sua presenza". Allora Elia spiegò: "Hai avuto troppa fretta e non hai atteso la fine del suo discorso. Lui voleva dirti: Oggi, se voi ascoltate la mia voce".
Questo racconto è significativo per due ragioni: perché è vero che il Messia sta lì, in periferia, alle porte di Roma e perché è vero che lo si incontra solo in mezzo ai poveri. Oggi possiamo illuminare la Sua presenza se cominciamo a vivere realmente con responsabilità.

Arturo Paoli

 

La globalizzazione e l'occidente malato

Intervista ad Arturo Paoli

di Michele Marziani (www.volontarimini.it)

A coloro che coltivano lo sdegno come coltivano l'amore" Sembra di sentirle sospese nell'aria queste parole del poeta Pedro Tierra durante il XVIII Convegno Nazionale della Rete Radié Resch, appena conclusosi a Rimini. Quello della Rete Radié Resch, un'associazione impegnata da 35 anni in iniziative concrete di solidarietà, è un appuntamento che ogni due anni offre l'occasione per riflettere sui problemi più vicini al sud del mondo, e soprattutto per dare voce a quei popoli che normalmente non hanno voce. I temi su cui si è appuntata l'attenzione quest'anno sono stati quelli della globalizzazione e del Giubileo. E proprio di questi argomenti abbiamo parlato con una delle voci più autorevoli del convegno, Arturo Paoli. Originario di Lucca, sacerdote e "Piccolo fratello del Vangelo", sull'esempio di Padre Charles de Foucauld, Paoli vive dal 1959 in Brasile, a fianco dei più poveri e dei più deboli. All'attività di sacerdote accompagna quella di conferenziere e saggista, ispirandosi alle idee della teologia della liberazione. Tra i suoi testi ricordiamo Grideranno le pietre. Essere cristiani in America latina, Il grido della terra, Dialogo della liberazione, Ricerca di una spiritualità per l'uomo d'oggi, Il sacerdote e la donna.

Al convegno della Rete di quest'anno si è parlato di globalizzazione della giustizia, in opposizione a quella economica. In una sua testimonianza ha sottolineato come sia fondamentale ricercare nella nostra società globalizzata quei punti deboli capaci di trasformarsi in occasioni di resistenza. Cosa significa agire in questa direzione?

"Io direi che ci sono due aspetti importanti" - risponde Paoli ­ "Il primo aspetto è quello di analizzare il nostro Occidente, aiutarlo a vedersi. Noi andiamo avanti religiosamente, politicamente, economicamente, come se l'Occidente fosse un organismo sano, mentre è un organismo malato. E quindi andiamo avanti così, sconsideratamente, verso un abisso. Dobbiamo cominciare ad analizzare un po' le debolezze, le contraddizioni che sono dentro questo mondo occidentale. E poi è importante vedere non dalla parte dei vincitori, ma da quella dei vinti. Solo nel momento in cui noi conquisteremo questa posizione, potremo cominciare a progettare un mondo nuovo. Come si vede analizzando anche la Rivoluzione Francese, quelli che sono stati travolti sono quelli che non hanno preso in tempo la coscienza della fragilità della società nella quale vivevano. Mi ha interessato molto un bellissimo libro di Asor Rosa, 'Fuori dall'Occidente'. Finalmente uno che analizza implacabilmente l'Occidente come un groviglio di contraddizioni. Il problema è quello di aver messo al centro della vita l'economia, che si è trasformata in un processo di accumulazione. E' come se una famiglia dimenticasse gli affetti, le relazioni. Come se dimenticasse di essere fatta di esseri umani, con i loro bisogni, la loro affettività, la loro positività. E facesse del guadagno, dell'accumulazione l'unico senso. Lo stesso succede alla nostra società. Il problema è l'accumulazione a tutti i costi, senza controlli. E l'accumulazione si fa sempre creando delle vittime, a spese di qualcuno".

Si parla insistentemente della necessità di intervenire sul debito estero dei paesi del sud del mondo. Cosa pensa delle varie proposte per cancellare questo debito?

"Teoricamente è una cosa perfetta, perché realmente questi paesi sono oppressi dal debito pubblico. Ma bisogna cominciare a chiedersi: perché si fa questo debito, e soprattutto, chi lo fa? Quelli che hanno la possibilità di comprare i prodotti dall'estero, quindi non sicuramente il povero. Il debito è fatto da gente ricca, quindi c'è il grave pericolo che la remissione vada a loro vantaggio. Questa remissione deve essere controllata, deve andare alle spese sociali. Sono i poveri che ne devono essere risarciti. Anche perché sono loro che stanno pagando questo debito, che vengono spogliati. Loro che non hanno casa, terra, ospedali, scuole".

Una riflessione sul Giubileo. E' stato detto che stiamo assistendo ad una scandalosa mercificazione di questo evento religioso. Come possiamo recuperarne l'autentico significato?

"Io penso che ci sia poco da fare, perché ormai è impostato così. Secondo me ci deve essere una grande riforma. Non dobbiamo cambiare i dogmi, ma la nostra maniera di vivere la fede. Il grande guaio è che tutto à concentrato sul culto, sulla solennità, sulla liturgia, e quasi nulla sull'etica. Quello che propongo è di cambiare direzione. Noi siamo abituati sempre ad andare verso l'alto, verso i templi, le solennità, i Giubilei, mentre Dio è sceso sulla Terra. E' quasi umoristico. Noi siamo andati su, ma Dio non c'è perché è quaggiù. Tra noi, nel volto dell'altro".

Una sua speranza per il nuovo millennio.

"La più grande speranza, per me, è lo scoprire che ci sono delle voci profetiche che sempre più avanzano e hanno importanza, voci che insistono su questa necessità dell'etica . Sulla necessità di aiutarci, di volerci bene, di pensare all'importanza dell'uomo. Sta avanzando nel nostro mondo occidentale una nuova cultura. Una cultura che parte da un'altra base antropologica: dalla negazione che l'uomo è solo ragione. L'uomo infatti è sentimento, è passionalità. L'uomo è uno che non funziona solo con la testa, ma con tutto il corpo. L'etica della responsabilità nei confronti degli altri e della natura, allora, può e deve unificare credenti e non credenti"

Quando finirà la cuccagna del re?

Lo incontrammo già nel "sessantotto": e fu una provocazione. L'abbiamo riascoltato ad oltre 30 anni di distanza, dopo aver letto alcuni suoi libri: e la sorpresa continua.
Arturo Paoli, a 87 anni, inquieta sempre. Ha il cuore del profeta Amos, che grida: "Cesserà l'orgia dei buontemponi... Cambierò le vostre feste in lutto" (Amos 6,7 e 8,10). Ci assale un timore: che non vi siano persone, sufficientemente cristiane, pronte all'impatto.

a cura di Francesco Bernardi

Fratel Arturo, si discute sempre di società. In base alla sua vasta esperienza in Europa e America, come vede la società presente?
È una società violenta, e non solo a causa delle guerre. È violenta intrinsecamente; il suo funzionamento è malvagio, perché produce milioni di affamati, miserabili, esclusi; genera l'accumulazione di ricchezza nelle mani di pochissimi. Sono i poveri che arricchiscono sempre di più i ricchi. Ma non è un dono volontario, bensì un fenomeno meccanico che sottrae vita a tutti (ricchi compresi), per aumentare l'opulenza. È una società violenta soprattutto fra noi, perché è riuscita a togliere la responsabilità di costruire un ambiente consono alla dignità dell'uomo.

In tutto questo, qual è il rapporto con la globalizzazione?
Globalizzazione significa ridurre a mercato il senso della vita, fare della ricchezza l'unico scopo. I poveri si sono sempre contrapposti ai ricchi (e viceversa). Al presente però c'è una grande differenza: mentre, fino a ieri, i ricchi non sono mai riusciti a togliere la libertà dei poveri, oggi il progetto neoliberista (da non confondere con liberale) ne riduce ogni giorno di più lo spazio.
Gli italiani non si meraviglino che non esistano più partiti seri, che manchino idee nuove e valide, che non si riesca a risuscitare la politica nobile. Questo è una conseguenza del progetto neoliberista, dove tutto è sottoposto ai dettami del mercato. Quindi siamo schiavi. Siamo di fronte a una delle forme dittatoriali più crudeli.

In Brasile, dove lei opera, quali sono le ricadute della globalizzazione?
Ho visto il modo vergognoso con cui il Fondo monetario internazionale, fedele al neoliberismo, ha concesso un prestito. Il fatto è stato anche condannato dalla Conferenza episcopale cattolica, perché non ha fatto altro che aumentare la fame dei poveri. Il prestito del Fondo (un flusso enorme di denaro) è finito nel meccanismo diabolico dell'accumulazione. Pertanto non solo non ha giovato ai poveri, ma li ha immiseriti ancora di più.

Usando l'auto o il computer, diventiamo complici della società violenta che li ha prodotti?
Non dobbiamo partire dall'esterno. Se lo facciamo, cadiamo in una casistica che complica ulteriormente la vita. Non dico che non dobbiamo cercare la sobrietà; ma non basta. L'importante è assumere un atteggiamento di spiritualità, incarnare nella nostra vita i drammi che vengono dal nostro mondo. Gesù, più che annunciatori della parola, vuole che siamo noi stessi "parola". È questo il significato dell'evangelico "far vedere le nostre opere buone".
Che dire, allora, della spiritualità del monaco?
Una certa spiritualità monastica non dico che sia finita, ma oggi forse non è ciò che il mondo chiede. Al presente conta una spiritualità di solidarietà che assuma l'altro con i suoi problemi. Noi pensiamo sempre a ciò che dobbiamo insegnare. Invece l'uomo d'oggi ci chiede, soprattutto, di essere testimoni di fronte al peccato facendolo nostro. Dico pure che, in Italia, oggi sarebbe necessario ritornare all'Azione cattolica, ripensandola.
I poveri aspettano.
I poveri hanno anche "la pietra al collo" del debito estero. La sua abolizione può dar loro respiro?
In clima di globalizzazione c'è il grave sospetto che l'abolizione del debito non rechi alcun vantaggio ai poveri.

Fratel Arturo, qualcuno potrebbe accusarla di catastrofismo!
Come cristiano, ritengo importante ripensare la nostra posizione di fronte alla società. Prima di tutto, dobbiamo assumerci la responsabilità del meccanismo di violenza che viene da una società cristiana... che però ha svuotato il cristianesimo.
La sapienza del vangelo è stata quasi annullata da una persistente cultura greca, dualista, che separa il reale dallo spirituale. Oggi è urgente ridurre le distanze e dire, con il teologo Giambattista Metz, "più Gerusalemme e meno Atene".

Ritorniamo al debito. Come traduce oggi "rimetti i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori"?
Bisogna acquisire la coscienza dei propri debiti ed ammettere che tutti siamo responsabili dell'uccisione di tanti poveri nel mondo. Non basta riconoscere alcuni peccatucci! Un ebreo come Levinas e un cristiano come Dostoevskij hanno detto, ciascuno per proprio conto: io sono il più grande peccatore. Per non parlare di san Vincenzo De Paoli, che in punto di morte diceva alle suore: fatevi perdonare la carità.
Come sono grandi i nostri debiti!

Fratel Arturo, il suo è un atto di accusa generale. Non rischia, forse, di generare un rifiuto psicologico? In tal caso, il suo discorso è controproducente.
Anche se abbiamo la coscienza di non avere offeso alcuno, né di avere contratto dei debiti, dobbiamo rinnovare l'atteggiamento di Gesù. Lui solo poteva dire di essere giusto, di non essere assolutamente responsabile della violenza. Eppure si è fatto peccato, cioè ha assunto il male, senza divenire malvagio. Per far capire che cosa vuol dire amore di Dio, Cristo è entrato nell'ingiustizia convertendola in grazia sulla croce. Non si può testimoniare l'amore del Padre se non dentro i conflitti innescati dal peccato. Lo so: esistono altre forme di solidarietà, quali l'elemosina e la beneficenza; ma sono superficiali e inadeguate.
Conosce qualche uomo di chiesa che "si è fatto peccato" per vincere il peccato?
Il mio pensiero va ai vescovi Romero in El Salvador e Girardi in Guatemala, entrambi martiri. Ma ci sono state migliaia di persone che, in questi anni, hanno dato la vita trasformando il peccato in grazia, ripetendo quanto è avvenuto sul calvario. Questo non è stato un sacrificio espiatorio - come qualche teologo del passato affermava - per pagare un debito; è stata la trasformazione del delitto in atto di amore, di offerta di sé.

Lei è anche un missionario. Come giudica la missione oggi?
Occorre ripensarla. I primi missionari dell'America Latina si preoccupavano quasi solo della salvezza dell'anima: per loro "dare la vita" significava portare la verità, la "loro" verità. Ritengo che il compito fondamentale del missionario sia un po' diverso. Bisogna andare ai poveri, come Gesù, per annunziare giustizia e pace. Questo non possiamo farlo solo con le parole, ma con la nostra persona, trasmettendo una vicinanza alla gente.
Si sa che la ragione umana è riuscita a creare tante distanze, che favoriscono tutte le incoerenze. La filosofia, con l'idealismo, ha voltato le spalle alle sofferenze, considerando impura la fatica, il dolore, la malattia, il lavoro. Questa è stata la sorte anche della teologia: altro che incarnazione come Gesù Cristo. Così facendo, ci siamo resi complici di un cristianesimo-peccato anche oggi.

Non è possibile invertire rotta?
È compito dei giovani liberare il cristianesimo dalla complicità con il male. L'occasione arriverà quando l'"impero americano" avrà un cedimento e finirà la sua cuccagna. Allora tutto il sud del mondo ci salterà addosso e ci accuserà come cristiani: "Siete stati voi ad affamare il mondo, ordinare le guerre e fornire armi; siete stati voi a creare un meccanismo economico inumano".
In tale contesto i giovani avranno il volto credibile e pulito per imprimere al cristianesimo un'altra direzione. Intanto tutti dobbiamo renderci conto che non siamo affatto cristiani se ci accontentiamo della messa domenicale e di qualche funerale in chiesa. Vengono chiamati in causa soprattutto un cristianesimo e una teologia che hanno voltato le spalle a Cristo.
A questo allude il papa quando parla di "nuova evangelizzazione". Senza angoscia sterile, ma anche senza l'arroganza della nostra cultura.

Ieri i missionari sono spesso caduti nella trappola della loro presunta superiorità culturale. Che dire di quelli d'oggi?
Anche i missionari d'oggi devono farsi perdonare la loro arroganza. Alcuni movimenti laicali, andati in America Latina, hanno fatto tacere persino il papa, che chiedeva loro una vera inculturazione. Questa viene tradita dalla prassi di organizzazioni, tutte lontane dal popolo, ma ossequienti ad una certa aristocrazia spirituale. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: si moltiplicano le s&egravette, che propongono un cristianesimo alienante.
Ci sono laici, presunti missionari, che vanno in America Latina per applicare rigorosamente statuti, formule di preghiera, schemi di ritiri spirituali confezionati in Europa. È l'anti-inculturazione. E il popolo sente che la chiesa si allontana sempre di più dai suoi problemi.

Un'occasione per farsi perdonare può venire dall'anno santo?
Io vedo anche un'insidia nell'anno santo. La società del "prendi, usa e getta" può intromettersi nel religioso, strumentalizzandolo per scopi di lucro. Bisogna stare molto attenti.
L'altro giorno, mentre tornavo a casa, una donna è crollata per strada; è venuta la polizia e ha chiesto che cosa avesse. Forse bisognava domandare da quanto tempo non avesse mangiato. È in ambiti come questo che bisogna entrare, per fare "giubileo".
 

La porta del giubileo CHE NON SIA A SENSO UNICO

Leggendo da ragazzo I Malavoglia del Verga piansi al racconto di 'Ntoni che ritorna in carcere. La sorella vorrebbe trattenerlo e lui restare, ma 'Ntoni sa che deve andare. Uscito di casa, si ferma nel buio e attende che si chiuda la porta. Lo sbattere dell'uscio alle spalle segna la rottura definitiva dal suo passato, dalla sua radice...
Se visiterò San Pietro nell'anno giubilare, è probabile che non entri nella basilica dalla porta santa, per evitare code. Ma il "vuoto" creato da questa porta che si apre è importante. Ne parlo spesso con gli amici che chiedono le ragioni della mia pace.
So di appartenere ad una famiglia ricca. E non parlo di ricchezze materiali, ma di quelle dottrinali, accumulate dalla sapienza dei padri, dalla speculazione dei dottori, dalle suppliche dei santi. Ma io vivo con poco, e questo mi riempie di gioia. Vivo in due stanze senza immagini. Eppure questo vano, come quello della porta santa, non dà sul nulla. E vorrei che le porte dei vescovadi, seminari, monasteri, nunziature e sacre congregazioni, dove si decidono gli orientamenti della chiesa, si aprissero sul mondo vero, dove il tempo si fa storia.
A un rettore di un seminario teologico ho chiesto se non sarebbe opportuno, invece di inviare i chierici nel fine-settimana alle parrocchie per fare pastorale, orientarli verso le case di raccolta dei bambini di strada, verso i giovani malati di aids, verso famiglie che vivono nelle baracche. Le disposizioni di Roma pare che non lo permettano. Così i portoni continuano a difendere il privilegio.
L a porta santa potrebbe essere il simbolo dell'apertura sul mondo reale, dove il peccato umano non è più un'entità spirituale invisibile, che si presume di cancellare con un segno di croce, ma un fenomeno drammatico, un vero segno di morte. Ho notato persone impallidire, quando nelle favelas hanno visto con i loro occhi i segni chiari dell'assenza di amore.
Quelli che decidono i metodi di formazione e clericalizzano i giovani, che saranno per sempre incapaci di distinguere diritti da privilegi, dovrebbero riflettere se la formazione non sia molto prossima all'alienazione e alla distruzione di una vera identità.

Forse non ci chiediamo mai seriamente perché il Cristo risorto mostri le piaghe aperte. Vuol fare solo un riferimento ai modi con cui l'hanno giustiziato o anche alle piaghe del suo corpo mistico che restano aperte e sanguinanti? È possibile conoscere Gesù senza mettere le nostre mani nel suo costato aperto?
La porta del giubileo che si apre mi ricorda, per contrapposizione, quella che si chiude alle spalle di 'Ntoni. Ho incontrato tanti fratelli e sorelle che hanno confessato di aver sentito sbattere alle loro spalle (e per sempre) una porta definita santa.
Nel giubileo la porta santa diventa come il luogo della decisione. Il papa la interpreta come il passaggio per raggiungere Cristo, la sua grazia. Ma una porta è anche il varco da cui si esce. So che dalla basilica nessuno potrà uscire per la porta santa. Però è necessario uscire nel mondo, senza abdicare alle proprie responsabilità.
Risuonano le parole di san Paolo: "Cristo patì fuori della porta della città [città santa, porta santa]. Usciamo, dunque, anche noi dall'accampamento e andiamo verso di Lui portando il suo obbrobrio" (Eb 13, 12-13). Se uno vuole incontrarsi col Cristo carico di vergogna, la cosa è facilissima: basta andare incontro agli esclusi, agli sbattuti fuori dalla porta.
Per i più la porta santa resterà a senso unico, e forse la grazia che riceveranno sarà il sorgere di antiche angosce, segno di non aver trovato il cammino verso il luogo dove oggi Gesù è crocifisso. Solo questo sfocia nella pace promessa.

 

 

Difendere Cristo dal Cristianesimo di Arturo Paoli

 

Anni fa, proprio in questo luogo, padre Ernesto Balducci disse che le tre caravelle di Colombo erano tornate indietro. Era un modo di dire che Cristo è essenzialmente liberatore, e liberatore dei poveri. La teologia della liberazione è un messaggio non solo per i poveri, ma anche per tutti coloro, credenti e non credenti, che fanno parte di questa cultura "cristiana" occidentale che oggi è direttamente responsabile dei mali del mondo. E’ da qui che vengono le guerre, le distruzioni, la fame: dal mondo occidentale cristiano. E’ qui che si fabbricano le armi, è da qui che partono gli aerei che vanno a bombardare. Dobbiamo assumerci le nostre responsabilità. Dobbiamo sapere che non possiamo affrontare temi come la giustizia, l’uguaglianza, i diritti dei popoli se non cambiamo radicalmente la nostra cultura.

Noi abbiamo sempre pensato che il centro del mondo è l’Io, l’essere, il soggetto, e abbiamo proiettato questo concetto in tutte le strutture che abbiamo creato e imposto. Compresa la globalizzazione, apoteosi di un soggetto dominatore e unificante: il mercato. La volontà di sopprimere l’altro, l’incapacità di riconoscere la sua cultura, la sua storia, la sua religione, il suo diritto alla vita, è la conseguenza diretta del culto dell’Io. Per lo stesso motivo la Chiesa è chiesocentrica, lo stato è statocentrico.

Il rispetto dell’altro non è un atto di volontà, dev’essere il frutto di una cultura nuova che deve ancora nascere. Fino a che non cambieremo questo paradigma tutti i nostri progetti saranno superficiali. La richiesta di perdono fatta di recente dal Papa è commovente, ma è come dare l’aspirina a una persona che muore di cancro. Finché non cominciamo a vivere in un altro modo, finché non capiremo che la solidarietà con i poveri non è buon cuore, ma un modo di uscire dalla colpa, di rendere giustizia, tutti i nostri discorsi politici non serviranno a niente. Ci manca un’etica, abbiamo perso il sentiero della giustizia, non sappiamo più cosa è giusto e cosa non lo è. L’etica deve essere costruita sui diritti degli oppressi: solo partendo da questa base possiamo pensare a un mondo nuovo. Cristo ha predicato la fraternità a partire dai più deboli. Oggi noi predichiamo le stesse cose da Wall Street, dal nostro comodo benessere; predichiamo principi, idee, senza mai mettere i piedi per terra. Sono secoli che pensando di amare opprimiamo. Oggi dobbiamo difendere Cristo dal Cristianesimo. (www.manitese.it)

 

Difendere Cristo dal Cristianesimo, a cura di Bruna Sironi (www.nigrizia.it)
Arturo Paoli, Piccolo fratello del Vangelo (della famiglia spirituale di Charles de Foucauld), era a Firenze per il convegno internazionale di Mani Tese (19-20 marzo). “Nuove regole per il nuovo millennio” il tema in discussione, che ha affrontato nel ruolo di profeta dei nostri tempi. Con Nigrizia si è lasciato andare, con il suo linguaggio incisivo, al suo sogno di chiesa.

Negli anni ’50 la partecipazione dei cattolici alla vita pubblica poteva e doveva passare da un unico partito. Arturo Paoli fu tra coloro che affermavano l’autonomia dei laici nelle scelte politiche, posizione riconosciuta legittima solo molti anni dopo, con il concilio Vaticano II. Fu allontanato dall’Italia. Arrivò in America Latina, a Buenos Aires, nel 1960, per un’esperienza limitata nel tempo; dopo quarant’anni non è ancora finita. Da quindici vive nel sud del Brasile, a Foz do Iguaçú, una località con contraddizioni economiche e sociali fortissime, dove la globalizzazione economica e culturale è vissuta in pieno, sulla propria pelle, dalla gente che, dall’indigenza delle favelas, si confronta con il mondo opulento degli hotel a cinque stelle.

Il desiderio di ripartire, la nostalgia per le persone e per le attività momentaneamente lasciate, si legge in ogni sguardo, in ogni espressione di questo vecchio dall’aria mite e sorridente, ma dalle parole forti e dirompenti.

Lei ha detto e ripetuto che la cultura cristiana è responsabile dei mali del mondo. Qual è il senso della sua affermazione?

Il mondo occidentale cristiano è il luogo da cui partono tutti i comandi di morte, da cui si organizzano le guerre, in cui si realizza l’accumulazione che toglie il pane a milioni di persone. E non c’è caduto per disgrazia, in quest’avventura di essere il centro del male del mondo. È una conseguenza logica e fatale della sua cultura. Abbiamo sempre pensato che il centro di tutto è l’io, l’essere, il soggetto, e abbiamo proiettato questa filosofia su tutte le strutture politiche ed economiche che abbiamo creato.

Anche la globalizzazione non è venuta a caso, ma è la conseguenza di un cammino filosofico di secoli, che ha affermato questo principio di unificazione dando origine alla necessità di un soggetto unico, dominatore. E ha prodotto il mercato, la dittatura, il partito. Creazioni astratte, unificanti, dominanti il mondo e la storia, che hanno intrinseca la tendenza alla negazione, alla soppressione dell’altro.

Ci siamo vantati di portare al mondo la civiltà, ma aveva questo veleno dentro: la necessità di sopprimere l’altro, di non riconoscergli la sua cultura, la sua religione, la sua vita. Dobbiamo assumerci questa responsabilità.

Il papa ha chiesto perdono per le responsabilità della chiesa…

È molto commovente, ma è come un’aspirina per una persona che sta morendo di cancro. Il papa ha detto di aprire le porte a Cristo, ma a quale Cristo? Quello solenne, dominatore, o quello povero fra i poveri? Perciò non ha fatto altro che caricare di responsabilità il mondo cristiano.

Ci manca un’etica. Abbiamo perso il senso della giustizia. Se accettiamo la sponsorizzazione di pellegrinaggi da parte di multinazionali che conoscono solo l’etica del profitto, come possiamo dire di no alla clonazione? Dobbiamo essere integrali, coerenti, completi. La nostra etica deve partire dai diritti degli offesi, degli oppressi. È solo su questa base che possiamo pensare un nuovo mondo.

Come deve essere una chiesa nuova?

Dobbiamo difendere Cristo dal cristianesimo, dalla cultura cristiana. Cristo ha predicato la fraternità, la giustizia. A partire dai poveri, dalle vittime dell’ingiustizia. Non ha fatto mai teoria, non ha mai parlato neanche di Dio, si è semplicemente messo accanto ai poveri. Cristo è essenzialmente liberatore, e liberatore dei poveri.

Nel suo intervento ha parlato molto della teologia della liberazione.

È stata una rivoluzione culturale in quanto vedeva possibile la conoscenza di Dio attraverso la discesa tra gli uomini, per realizzare la giustizia, l’uguaglianza, la fraternità; temi spesso dibattuti ma che non possono essere risolti senza un cambiamento totale della nostra cultura. Doveva essere un messaggio felice per i poveri, ma non poteva non suscitare la reazione dell’Erode e della Gerusalemme religiosa del tempo.

Il missionario è in contatto con i poveri e li aiuta con denaro che, a volte, proviene da chi agisce contro l’interesse dei poveri. Quale dovrebbe essere il rapporto tra il missionario e il denaro?

La missione, come tale, non dovrebbe esistere. Lo dice Gesù stesso. Basta leggere il capitolo 10 del Vangelo di Luca. Si deve andare tra i poveri come amici, senza nulla, e farsi accogliere. Bisogna invertire la posizione: non sono io, ricco, che vado al povero, ma devo andarci povero, alla pari con lui. È il concetto stesso di missione che bisogna cambiare. Se c’è una disuguaglianza di partenza non si può mai creare una vera amicizia.

Qual è il ruolo della donna in una chiesa rinnovata?

La donna è la metà dell’umano, e la chiesa dovrebbe essere pensata e organizzata tenendo conto di questo. Nei consigli pastorali la donna ha un suo ruolo, ma è il prete, la gerarchia, che non sono preparati. Così la donna non produce opinione all’interno della chiesa. Esiste come consigliera, direi occulta, ma è un modo non leale di ascoltare la sua voce. Se non le si vuol dare il sacerdozio, bisogna almeno darle parità di diritti.

Ricordo un fatto che mi ha molto colpito. Per l’anniversario della conquista dell’America il mio vescovo ha organizzato una veglia notturna in cattedrale. Ha chiamato a partecipare il sacerdote guaraní, che ha pregato tenendo per mano la moglie. Dopo la cerimonia ha cominciato un lungo discorso. Non so il guaraní, così ho chiesto a un giovane cosa aveva detto. «Ha ricordato tutto quello che ha visto dal momento in cui ha lasciato il villaggio», mi ha risposto. Poi ha cominciato la moglie. «Anche lei ha ricordato tutto quello che ha visto da quando ha lasciato il villaggio». «Allora hanno ripetuto le stesse cose», ho osservato. «Veramente, sono stati sempre per mano, ma quello che ha visto lui non è lo stesso che ha visto lei», ha replicato il giovane.

È una lezione che non dimenticherò mai. Voglio dire che l’ideale è la coppia. L’uomo solo, la donna sola, vedono e capiscono metà di quello che c’è da vedere e capire.

 

 

 

LA PORTA SANTA
di Arturo Paoli (www.christusrex.org)

La porta santa si aprirà la vigilia di Natale del 1999: evocherà il passaggio che ogni cristiano è chiamato a compiere dal peccato alla grazia, e ricorderà che nessuno può avere accesso al Padre se non per mezzo di Gesù. Fratel Arturo Paoli in questo articolo "allarga" il significato di questo passaggio.

Quando una trentina di anni fa arrivai con un fratello nella parte occidentale della provincia della Rioja mi parve di giungere in un villaggio abbandonato per una decisione collettiva di fuga. Restava solo una casa abitata da due indie molto anziane, che ci offrirono due ambienti da abitare provvisoriamente, finchè fossero terminati i lavori di restauro di un vecchio mulino abbandonato.

Mi accompagnava un antico abitante di questo villaggio, e mi mostrava i resti di case di fango e paglia che in una ventina d'anni si erano polverizzate. Restava di loro un segno: tre travi robuste che indicavano la soglia di ingresso alla casa ora inesistente.

Mi raccontava la mia guida che a causa di questi tre pali erano avvenuti dei litigi tali che arrivavano alla "giustizia", così si esprimeva. Perché? - chiedevo sorpreso - ormai non servono più a nulla e potrebbero essere utilizzati visto che sono di un legno molto forte e pregevole. La mia osservazione era interessata, perché pensavo all'utilità che quei legni avrebbero potuto avere per i lavori di restauro della nostra casa. Ma per fortuna non manifestai il mio interesse. Capii subito che togliere uno di questi pali era esattamente come violare una tomba.

La porta e le radici

La casa non esiste più e le famiglie sono partite per luoghi lontani, qualcuna è andata ad abitare nella città capoluogo ma nessuna pare abbia il progetto di tornare. Però la soglia, la porta di ingresso deve restare e un uomo del luogo è pagato dalle antiche famiglie per vegliare sulle soglie. Questi tre pali, due verticali e uno orizzontale, erano la famiglia che continuava a vivere lontana ma legata a questo luogo. Il giorno in cui avessero distrutto la soglia o bruciato quei pali la famiglia sarebbe andata distrutta.

Col tempo i loro discendenti nati in città certamente non si ricorderanno più di quelle soglie, del custode e delle tradizioni religiose o superstiziose che davano senso alla sopravvivenza di quei "monumenti". E probabilmente proprio per questo, proprio perché senza radici, andranno ad ingrossare il numero di coloro che agitano le periferie delle grandi città delle loro inquietudini, delle proteste violente contro una vita che non riusciranno più a trovare bella, e non sapranno più come farla bella.

Le famiglie emigrate nel capoluogo Rioja, che in seguito conobbi, mi fecero capire che la soglia lasciata nel luogo di origine era il segno della solidità della famiglia, simbolo religioso della sua continuità.

Di notte, sotto la luna, le strutture disseminate su quel deserto ondulato mi parevano esseri viventi e spesso pregavo per loro e con loro, pensando a quelli che si sentivano uniti a quella soglia e ai dispersi che avevano spezzato le loro radici e vivevano senza trovare il senso del vivere.

I portoni dei palazzi nobiliari della mia antica città, Lucca, mi parvero il segno di una lontananza della comunità cittadina. Un distacco orgoglioso che facevano sentire che la famiglia al di là di quella porta superba non era della città. I portoni si vedevano aprire e chiudere per lasciar passare degli anni di una macchina, e si intravedevano per un attimo le architetture stupende dei cortili di accesso alla casa. Ora questi palazzi sono passati quasi tutti alle amministrazioni pubbliche, i portoni sono aperti e lasciano vedere quei meravigliosi cortili sconosciuti a molti di noi, salvo che qualche compagno di scuola ci introducesse nel suo palazzo spesso per studiare insieme.

Leggendo nella mia adolescenza I Malavoglia ricordo che piansi al racconto di 'Ntoni che torna dal carcere. La sorella vorrebbe trattenerlo e lui vorrebbe restare, ma sa che non può, che se ne deve andare. Uscito di casa si ferma nel buio e attende che la sorella chiuda la porta. Lo sbattere di quella porta che si chiude alle sue spalle segna la rottura definitiva dalla sua famiglia, dal suo passato, dalla sua radice. Tutti noi portiamo lungo la nostra vita dei ricordi che si potrebbero definire profetici perché si ripresentano con un valore indicativo di scelte e atteggiamenti importanti.

Apriamo le nostre porte

Oggi le porte sono per lo più il simbolo della paura piuttosto che dell'accoglienza. I sistemi di chiusura non sembrano mai troppo sicuri. Un amico di San paolo venuto a visitarci si meraviglia della fragilità delle nostre porte, egli che vive quasi in uno stato di assedio.

Riflettendo sull'apertura della porta santa, sono venuti alla luce questi tre ricordi, come una vecchia stampa sbiadita a cui un procedimento chimico permette di ridonare le sue immagini.

Ricordo di aver visto partire soavemente senza rumore questa porta ai colpi di martello vibrati con molto energia dall'allora papa Pio XII. Era l'anno '50, era fresco il ricordo di un congresso trionfale della gioventù cattolica, e stavamo entrando nel tempo della critica all'interno della Chiesa. Il vano aperto dal pontefice al calar del sole viene chiuso da una porta di legno. Ripensando a quegli anni mi pare che molti di noi li vissero come gli abitanti del villaggio abbandonato, lontani da quel soglio ma attaccati a quelli stipiti non di legno ma di marmo, che nessuno avrebbe mai divelto, noi partimmo lontano, ma rimanemmo legati come le famiglie del villaggio riojano.

Se visiterò San Pietro nell'anno giubilare è probabile che entri nella Basilica da un'altra porta per evitare l'attesa di una lunga fila. Ma il simbolo di questo vuoto è per me importante in questo epilogo della vita.

Mi trovo spesso nell'occasione di parlare di questo vuoto ad amici che mi chiedono le ragioni della mia pace. So di appartenere a una famiglia molto ricca direi troppo ricca, e non parlo delle ricchezze materiali ma delle sue ricchezze dottrinali, di quelle riserve accumulate dalla sapienza dei padri, dalla speculazione dei dottori, dalle suppliche gridate e lacrimate dei suoi santi. Ma io sento di vivere con molto poco, e questo poco mi riempie di pace e di gioia. Vivo in due stanze senza quadri, senza immagini eppure questo vano come quello della porta santa non dà sul nulla.

Ripenso ai portoni dei palazzi della mia città natale e vorrei che come quelli si sono aperti per lasciare uscire i giovani in cerca di lavoro da cui fino a pochi anni fa erano dispensati per il privilegio della loro nascita, vorrei che le porte dei palazzi o delle ville dei vescovi, dei seminari, dei monasteri, delle nunziature, delle sacre congregazioni dove si decidono gli orientamenti della chiesa si aprissero finalmente sul mondo vero dove il tempo si fa storia, vera storia.

A un rettore di un seminario teologico ho chiesto se non sarebbe opportuno, invece di inviare i chierici nella fine di settimana alle parrocchie per fare della "pastorale", orientarli verso le case di raccolta dei bambini di strada, verso gli ospedali dove i giovani malati di AIDS attendono la morte, alle famiglie che vivono nelle baracche. Perché lasciare questa iniziativa di battere alle porte delle favelas ai mormoni, ai testimoni di Geova, agli addetti allo spiritismo? Le disposizioni di Roma pare che non lo permettano, i portoni continuano a difendere il privilegio.

Aprire sul mondo reale

La porta santa potrebbe essere il simbolo di questa apertura sul mondo reale, dove il peccato umano non è più un'entità spirituale invisibile che si presume cancellare con un segno di croce, ma un fenomeno drammatico, un vero segno di morte.

Ho visto persone impallidire quando nelle baracche delle favelas hanno visto con i loro occhi i segni chiari dell'assenza di amore.

Quelli che decidono metodi di formazione, che clericalizzano i giovani che saranno per sempre capaci di distinguere diritti da privilegi, essenze invisibili da realtà fenomeniche e per questo irraggiungibili dai gemiti dell'uomo, dovrebbero riflettere se la formazione non si molto prossima all'alienazione e alla distruzione di una vera identità.

Forse non ci chiediamo mai seriamente perché il Cristo risorto mostri le piaghe aperte. Vuole fare solo un riferimento al metodo con cui lo hanno giustiziato o alle piaghe del suo corpo mistico che continuano a restare aperte e sanguinanti? È possibile conoscere Gesù senza mettere le nostre mani nel costato aperto?

Il vano della porta santa che si apre quando ai lievi colpi del martello, naturalmente d'argento, viene rimosso il muro che lo riempiva mi ha ricordato la porta che si chiude alle spalle di "Ntoni reduce dal carcere. Ho incontrato tanti fratelli e tante sorelle che mi hanno confessato di aver sentito sbattere alle loro spalle e per sempre una porta definita santa o sacra. Sono quelli che dopo aver accettato con gioia la rinunzia a una famiglia propria, avvertono il sorgere di una identità che non coincide con quella esistenza che stanno conducendo dal momento in cui hanno accettato questo stato di vita.

Mentre scrivo ho lasciato da poco persone che non hanno dimenticato il rumore di quella porta, e avvertono il contrasto con quel vano aperto che pare invitare tutti a entrare in una casa dove tutti vengono rimessi nella loro dignità e nei loro diritti. Sono quelli che hanno vissuto l'esperienza della donna di Magdala e di essere stati come lei governati dai sette spiriti maligni. Come lei hanno trovato il liberatore e sono rinati, sono altri, ma rinati nello Spirito continuano a essere asserviti alla legge. Liberati ma non liberi perché non hanno indossato la veste bianca e non hanno messo l'anello al dito. Ammessi nella sala del banchetto ma con la proibizione di sedersi alla mensa. Ho pensato a tutti quelli che vivono l'esperienza del giovane siciliano che torna a casa, ma non gode la festa del ritorno, vengono invitati a restare ma non possono.

È vero che questo rifiuto viene ampiamente riempito dall'invito diretto al cieco di cui parla il capitolo 9 del vangelo di Giovanni. Il cieco è uno che fa l'esperienza dello sbattere di una porta, anzi due, quella della sua propria casa perchè i genitori non lo vogliono più e quella sacra del tempio. Io vorrei scomporre un po' la struttura del racconto; i versi 39-41 li metterei dopo il 34 perché fanno parte della giornata turbolenta, di accese polemiche che ha come punto massimo l'espulsione della sinagoga del miracolato "lo buttarono fuori" (34). Su questa giornata agiatissima cala la pace della sera, quest'uomo uscito dal carcere è libero e avverte questa gioiosa libertà ma non sa bene dove andare; le due porte meta del ritorno sono state chiuse e non si riapriranno. È allora che incontra Gesù e trova l'approdo definitivo: "Signore io credo".

Cristo patì fuori della porta

Scrive il papa nella Bolla: "L'indicazione della porta richiama la responsabilità di ogni credente ad attraversare la soglia. Passare per quella porta significa confessare che Gesù Cristo è il signore, rinvigorendo la fede in Lui per vivere la vita nuova che egli ci ha donato.

È una decisione che suppone la libertà di scegliere e insieme il coraggio di lasciare qualcosa".

Al di qua della porta santa c'è la società della violenza, della negazione dell'amore, dell'ingiustizia, della vera grande insopportabile sofferenza di gran parte dell'umanità; al di là della soglia non c'è quella liberazione quasi automatica dal peccato come mi avevano insegnato nell'anno 1925 quando bambino attraversai più volte quella soglia per ricevere quelle grazie che avrei distribuito specialmente ai miei genitori.

La porta santa diventa come il luogo della decisione. Il papa la interpreta come il passaggio per raggiungere Cristo, la sua grazia, la vita divina. Ma una porta è anche il varco dal quale si esce. So che dalla basilica nessuno potrà uscire per la porta santa perché sarà a senso unico.

Ma dalla mia esperienza di aver incontrato troppi laici clericalizzati, spiritualizzati, liberati attraverso un'immersione in una miracolosa piscina dalla "responsabilità", dalla decisione, dal coraggio, le tre forme dello spirito credente indicate dal papa, sogno la porta santa come varco di uscita nel mondo.

Risuonano in me le parole di san paolo: "Cristo patì fuori della porta della città (città santa, porta santa). Usciamo dunque anche noi dall'accampamento e andiamo verso di Lui portando il suo obbrobrio" (Eb 13,12-13). Se uno vuole incontrarsi col Cristo caricato di obbrobrio, la cosa è facilissima: andare incontro agli esclusi, agli sbattuti fuori dalla porta.

Non so se sono troppo audace, ma sento dentro di me che Gesù chiederebbe che sulla soglia fossero indicate due direzioni. Una verso il Gesù glorioso che siede alla destra del padre, fatto come lui onnipotente e l'altra di uscita verso il servo sofferente caricato di obbrobrio.

Per i più la porta santa resterà a senso unico, e forse la grazia che riceveranno sarà il sorgere delle antiche angosce segno di non aver trovato il cammino verso il luogo dove oggi Gesù è crocifisso. Solo questo sbocca nella pace promessa.

 

 

Arturo Paoli non partecipa al Giubileo degli anziani

Caro amico e fratello,

tu avrai notato in me una certa reticenza davanti al progetto "17 settembre". Approfitto di un momento di grazia per aprirti il mio cuore. Ho cercato nella mia vita, se vuoi aggiungi l'aggettivo spirituale - per me superfluo - di essere vero con Dio. Non essendo capace di "perfezione" ho scoperto che nostro Padre mi chiedeva soprattutto la verità, non quella verità cui si viene meno con le bugíette definite peccati veniali; ma quella verità che Gesù unisce al verbo fare: "fare la verità". Nel deserto, spogliato di tutto, il nostro maestro un vero beduino ci martellava continuamente l'ideale: "essere veri". E questo ideale ha costituito la stella che ha guidato il mio lungo cammino. E non vorrei perderla di vista ora che felicemente sono all'ultima tappa. E mi spiego. La famosa convocazione dei "baschi verdi" fu certamente una indimenticabile preghiera; ma fu anche una acclamazione a Pio XII e una rassegna di forze su cui poteva contare (e glielo ripetevamo in canto) in un momento in cui si temeva una affermazione di una ideologia dalla quale saremmo stati dominati.

Sono certo, anche se il ricordo é lontano, che io partecipai a quella notte con totale adesione e con l'entusiasmo che fremeva in quella piazza. Ora non potrei promettere questa totale adesione, perché? Perché sotto il pontificato di Giovanni Paolo II i poveri della America latina sono stati massacrati. Come? Togliendo loro sistematicamente i pastori, loro protettori e difensori. Si è inaugurata così una pastorale pentecostale esattamente secondo il progetto Reagan per combattere la "comunista" teologia della liberazione. Trovo molto triste, ma perfettamente logico che i poveri abbandonati, preferiscano il cattolicesimo delle cosiddette sette, al pentecostalismo cattolico, che manifesta la dolorosa assenza di pastori amici e protettori.

Non ho nessuna intenzione di negare la mia obbedienza al successore di Pietro, e meno di giudicarlo. Per una grazia specialissima ho capito fino in fondo che chi può giudicare é solo il Giusto, il Misericordioso, il Santo. Non mi preoccupa minimamente la teologia della liberazione al sicuro oltre le frontiere dell'America latina, ma non potrei acclamare il Papa, entrare con voi nella sala Nervi, dimenticando i gemiti di quelli che sono la mia famiglia.

Essere veri oggi, tempo nel quale il mondo ha urgente bisogno di etica, vuol dire mantenere chiara la differenza sostanziale fra quella che nella Chiesa é ingiustamente definita carità e laicamente si chiama elemosina, beneficenza, e la giustizia. Bisogna in tutti i modi, a qualunque costo combattere questa confusione che contiene un tradimento alla verità.

Per denunziare questo tradimento e per non tradire i poveri non parteciperò a questa vostra iniziativa.

Vogliate scusarmi e non interpretate la mia assenza come mancanza di amore per voi. Gli anni della nostra militanza sono un ricordo bellissimo, pieno di profumo. Cammineremo sempre insieme sulle tracce del nostro Maestro Gesù fino alla fine della nostra vita, verso la liberazione definitiva.

Vostro fratello Arturo Paoli

 

 

Ai giovani in occasione della Giornata della Memoria

 

Un anziano che vi ha tanto amato e continua ad amarvi vi invita oggi a fermarvi un momento, oggi 27 gennaio. Siete ancora pieni di sonno, avete lasciato suonare la sveglia, e ora bevendo il caffè, vi mettete in fretta il casco, il motorino vi attende alla porta e via, comincia la vita. Ma vi chiedo un solo momento! Anch’io fui giovane, e il tempo della mia prima gioventù era pieno di speranza: l’Italia pareva un adolescente impaziente di prendere il volo verso il suo futuro. Mussolini il dittatore parlava spesso di aquile, voleva volare a occupare quegli spazi percorsi dalle legioni romane. Vedeva la Roma in cammino, la Roma conquistatrice, audace, implacabile verso i popoli che opponevano resistenza. Non aveva tempo di ascoltare il gemito dei vinti, li affidava al giogo di tiranni locali, e seguitava ad avanzare. Il condottiero non si prese il tempo di ascoltare la Roma del diritto, la Roma saggia, quella a cui l’Ebreo crocifisso era tornato con un messaggio di riconciliazione e di pace.

E allora fu la guerra. Nel tempo di questa guerra sbarcò la mia prima giovinezza e vide improvvisamente cadere tutti i sogni: il fragore delle bombe impose il silenzio dei canti che inneggiavano la grandezza fatale di Roma. Avevo accolto lungamente il messaggio di riconciliazione e di pace dell’Ebreo di Nazareth e lo seguii in un grande palazzo disabitato dove con tre compagni ci disponemmo ad accogliere quelli che la guerra spingeva quotidianamente a mettersi sulle strade in cerca di asilo. Qui conoscemmo l’arresto della storia. Quelli che avevano tentato di affascinarci nel sogno di essere portatori di civiltà nel mondo, apparvero improvvisamente invasori venuti da terre lontane, esseri che venivano da epoche a noi sconosciute, esseri predatori, distruttori assetati di sangue e di vendetta. Ricordo la giovane coppia venuta dal nord d’Europa portando il ricordo della famiglia distrutta nei forni crematori, dopo un lungo viaggio in vagoni piombati, ammassati come oggetti senza valore. La donna portava nel suo ventre la vittoria sulla furia devastatrice e cercammo di mettere al sicuro questo piccolo seme che conteneva la forza della vita, la speranza sicura della sua vittoria sulla morte. E mentre l’uomo mi raccontava le barbarie della shoah vedemmo entrare gli S.S., quelli che Hitler chiamava “i miei lupi”, lo nascosi in uno strettissimo sottoscala deposito di carta da gettare e di altri rifiuti. I lupi ruppero porte, bruciarono, distrussero, e arrivarono da me che li accolsi con apparente sorpresa e indifferenza. E passarono oltre... Cercai io, impietrito dentro, di far tornare i sensi al mio ebreo svenuto. E la vita continuò.

Accogliendo le notizie di quello che accade oggi nella terra che è tornata ad essere del popolo disperso, mi pongo la domanda: perché si è cancellata così presto la memoria di un tempo in cui l’umanità assistette rabbrividendo all’incontro della più acuta follia con la più audace razionalità? Perché il ricordo non è riuscito a distruggere ogni radice di vendetta, cedendo il luogo a sentimenti di pace e di riconciliazione? A questa domanda sorge dentro di me la risposta: forse l’umanità è ancora incapace di un amore così forte, così generosamente altruista da superare per sempre il ritorno di istinti feroci preumani. Forse perché il progetto di umanizzazione del nostro io, di crescita nella dimensione dell’alterità, non è riuscito a liberarsi dalle tentazioni del piacere immediato, della comodità, dell’interesse egoistico. Vi lascio la fiducia che voi giovani saprete avanzare in questa linea. Dalle ceneri di Aushwitz si leva la voce di una ragazza spensierata come voi, come voi avida di piacere, Etty Hillesum: vi dice di amare come lei la vita, di dissipare con il perdono e l'amore i venti dell'odio e della vendetta, di saper scoprire al di là delle nubi nere il sole di Dio che non desiste dal cercare noi che continuiamo ad azzuffarci come adolescenti inferociti. Ascoltate la voce.

 

Fratel Arturo Paoli

 

 

 

Il dramma dell’opulenza

 

Intervista ad Arturo Paoli
di Alberto Bobbio
tratta da Jesus (www.stpauls.it)

 

Cosa succede se la Chiesa diventa troppo "organica" alla logica delle società capitalistiche occidentali? Trascura i poveri e perde coraggio e radicalità nell’annuncio del Vangelo. Un profeta dei nostri giorni analizza lo stato di salute di una comunità ecclesiale che corre il rischio di essere molto "visibile" e potente ma poco autorevole.

 

Lui dice che basta guardarsi in giro per persuadersi che i risultati di una società fondata sull’egoismo sono disastrosi. Ed è anche convinto che lo saranno sempre di più. «A meno che…».

Arturo Paoli, 90 anni, una vita intensa di prete e di profeta, erede di Carlo Carretto (2 aprile 1919 - 4 ottobre 1988) tra i Piccoli Fratelli di Charles de Foucauld, "Giusto delle nazioni" per Israele per aver salvato la vita a un ebreo a Lucca nel 1944, sacerdote da 62 anni, scrittore e conferenziere in tutto il mondo, uomo che da 40 anni condivide la vita con i boscaioli, i contadini dello Stato del Paranà in Brasile, spiega cosa ha guidato la sua vita e cerca di spendere qualche parola sulla fede in questa intervista che è un po’ come un testamento. Il nostro incontro con Arturo Paoli prende le mosse da un libro, l’ultimo dei suoi, intitolato Quel che muore, quel che nasce (Ega, lire 22.000).

  • Cominciamo da quell’"a meno che…". Cosa vuol dire?

«A meno che non prendiamo su di noi il peccato del mondo. Concretamente, senza pensare che il raddrizzamento delle situazioni che non vanno, insomma che la redenzione dell’umanità, sia qualcosa affidata, come si diceva, al sangue di Cristo. Bisogna lasciarsi guidare dai volti delle persone, bisogna andare nei sotterranei della Storia dove vivono le persone. Dobbiamo occuparci delle vittime e non gioire per la bravura dello stratega».

  • C’è troppa angoscia in giro oggi?

«Sì, angoscia e paura. Ossessioni. Siamo ossessionati dal denaro, dal sesso, dal gioco e anche da santi buoni e un po’ antichi che pensiamo ci possano risolvere tutti i problemi. Compreso quello della nostra sicurezza. In ogni campo. Ma la nostra angoscia più grande è data dalla incapacità, che ci rode dentro, di prevedere il futuro. Facciamo finta di essere spavaldi, perché non riusciamo a calcolare tutto. Umberto Eco ricorre alla fantascienza per pensare, solo pensare, al futuro»

  • Come si fa a guardare nei sotterranei della Storia?

«Ci si riesce solo se al centro della vita il cristiano mette il Regno di Dio e non se stesso. Insomma facendo quello che coerentemente ci consiglia il Concilio Vaticano II. Bisogna far sparire l’io come preoccupazione personale, che provoca angoscia. Quanti sono quelli che credono che lo Spirito agisce nella Storia e la trasforma? Quanti credono al Vangelo che dice "chi vuol salvare la propria anima la perderà"? È un tema centrale perché rimanda alla polemica che Gesù ha aperto con il mondo religioso della sua epoca. Gli ebrei rimandavano continuamente al passato, ad Abramo, a Mosé, ai profeti. Lui no, si occupa delle persone. Dice che Dio è qui davanti a voi: il povero, la vedova... La carità non deve servire a me, non è un rimedio alla mia angoscia. Perché si può essere caritatevoli senza essere giusti, se si mantengono le distanze».

  • La Chiesa è responsabile di una religiosità della distanza?

«Certo. La Chiesa – non tutta – ha ritirato Dio in cielo. Dice agli uomini: consolati, il Regno di Dio è vicino. Nelle omelie dei preti si parla di cose lontane. I sacramenti sono parole e non simboli. Dov’è lo Spirito che sprona a fare? Il Vangelo ha raccomandato l’annuncio attraverso la persona, non attraverso le parole. È la persona che parla. La parola è solo rimedio d’emergenza. Se la mia vita non testimonia, io non posso neppure parlare».

  • Come sta la Chiesa?

«Male. Non ha seguito fino in fondo l’ordine dello Spirito Santo e del Vangelo. Il centro della predicazione si è spostato: dal Regno di Dio alla visibilità della Chiesa, alla sua grandezza, al suo potere. Parla molto la Chiesa, scrive molto. Non si può dire che non si occupi dei poveri: mai sono state prodotte tante parole sull’argomento, mai tanti documenti. Viviamo una religiosità opulenta, anche dal punto di vista intellettuale. Sappiamo come affrontare i problemi, sappiamo come risolverli, da soli, sempre da soli, senza contare sugli altri. I poveri, i barboni, gli esuli, cosa contano per me intellettuale, per la mia teologia, per la mia pastorale? Il Vangelo è ridotto a manifestazioni rituali o metafisiche. Voglio fare una provocazione e dire ai credenti: spogliatevi anche della vostra fede e allora comincerete a capire cos’è la gratuità».

  • Ma tutta la Chiesa è così?

«Non tutta. Nei Paesi poveri modelli di Chiesa diversi sono stati soffocati, ma non distrutti. Alla Chiesa era stata servita su un piatto d’argento la teologia della liberazione, ma è stata rifiutata. Ripeto: soffocata, non distrutta».

  • Eppure la riflessione attorno a un nuovo umanesimo è stata portata avanti…

«E con grande forza, per esempio da Giovanni Paolo II, soprattutto negli ultimi anni in modo profetico. Ma la Chiesa è troppo legata all’Occidente. Ha dovuto mantenere buone relazioni con il capitalismo. Gesù dice che saremo giudicati non sull’obbedienza, ma se l’avremo visto nudo, affamato, prigioniero, schiavo. Tutto lì. Vederlo sta solo a me».

  • Lei è dunque contro la Chiesa, i suoi dogmi?

«No. Per me l’obbedienza non è un problema. Ma dico che il concetto di "santo" non coincide necessariamente con "religioso". Il giudizio va dato sulla costruzione del Regno di Dio: beati i poveri, i miti… Io sento che sarò giudicato su questo, non sul devozionalismo, che in questo secolo non ha impedito guerre e sangue. È sull’uso della mia libertà che mi si chiederà conto. Se uno risponde "Eccomi", è santo. Diventare santi è drammaticamente difficile appunto per l’estrema semplicità della risposta. È difficile obbedire a Dio piuttosto che agli uomini».

  • La Chiesa tuttavia oggi è molto visibile, di essa si parla e si scrive. Allora cosa c’è che non va?

«La Chiesa gode di grande prestigio. Vorrei dire che il carisma del prestigio è sceso sugli Stati e sui popoli. Molti stanno ad ascoltare le parole del Papa. Molti restano ammirati dalla sua figura e dalle cose che dice. Ma la disobbedienza formale e la noncuranza rispetto ai suoi insegnamenti è enorme. Nella Chiesa quelli che prendono sul serio la responsabilità di fare la giustizia, di difendere il diritto dei poveri, molto spesso vengono emarginati. E di solito fanno molto meno di quello che è scritto nei documenti. Prenda il Brasile, Paese visitato tante volte dal Papa: che riscontro hanno avuto le sue parole forti sulla giustizia, sulla distribuzione della terra, sui popoli oppressi? Zero. Chi oggi è convinto che amore per gli altri significa uso sobrio dei beni? Molti credenti nel mondo praticano una buona spiritualità individuale, ma poi sono assolutamente sfrenati nell’uso del denaro, anarchici nell’uso dei beni. Non si può giustificare il primato di Dio, sopra tutti gli altri diritti».

  • Parliamo del Concilio. Perché lei spesso dice che è stato tradito?

«È stato il Concilio Vaticano II a richiamare i credenti sulla centralità del Regno di Dio e sul ruolo dello Spirito Santo. Il Concilio ci ha chiesto di aprire le porte e non soltanto di parlare di Dio, ma di camminare con gli uomini, di affermare il diritto a una vita piena, di esaminarci in base alla giustizia o all’ingiustizia. Non ci ha insegnato a consolarci con la religione. Quando Gesù va via da Nazareth non si mette a fare il guru, non va nel tempio di Gerusalemme ad ascoltare, ma ad attaccar briga, dando la prova tremenda del suo unico interesse: costruire il Regno di Dio. Noi invece ci ritiriamo sul culto, a volte in modo narcisista».

  • Ma le responsabilità sono dei preti o dei laici?

«Di entrambi. Cominciamo dai preti, che sono educati secondo forme rigidamente borghesi. I preti – non tutti – stanno troppo bene. Si occupano di sé stessi. C’è troppa paura di perdere vocazioni. Vengono allenati ad avere coscienza di sé, a essere altro rispetto al mondo. Ecco l’insistenza sul sacramento dell’Ordine che vale di più di altri sacramenti, compreso quello del matrimonio. Stanno chiusi nei seminari e vanno nel week-end nelle parrocchie. Io domando: quando si calano sulle piaghe di Cristo? È sicuramente migliorata la formazione intellettuale. Le omelie sono più colte, più dotte che in passato. Ma sono spesso anche più lontane dalla vita reale che nel passato. La Chiesa ha come paura di essere invadente, di essere esigente. Non si può dire che i giovani rifiutano la Chiesa. Se si analizzano le cose in profondità, si vede che essi non capiscono, non ci comprendono. Dio non c’è nel loro orizzonte».

  • E il laicato?

«Manca di audacia. Passa da un ritiro spirituale a un altro, ma poi non si interroga sulla propria responsabilità davanti alla società. Non si può essere contro la manipolazione della vita, contro una bioetica sbagliata, e poi dichiarare valido il sistema economico che arriva a queste aberrazioni, quello che succhia il sangue dei poveri, che è la benzina di cui ha bisogno il nostro mondo troppo ricco per vivere. Vogliamo una società nuova, ma poi applaudiamo al politico di turno. Siamo troppo miopi, non siamo capaci di guardare avanti. Il laico che vive la sua responsabilità politica con autonomia, sapendo che di essa deve dar conto solo davanti a Dio, oggi è scomparso. Naufragate le ideologie, il laicato religioso è stato inglobato nella Chiesa, che ne ha marcato la clericalizzazione».

  • Lei quali esempi indica?

«Ho ammirato De Gasperi, La Pira, Dossetti come cattolici. Uomini che sapevano distinguere l’area religiosa da quella politica e la propria autonomia e responsabilità dall’obbedienza dovuta alla Chiesa. Uomini che erano convinti di rispondere al Vangelo e non al prestigio della Chiesa nel Paese in cui abitavano. Dov’è finita la tradizione che loro hanno incarnato? Il laico credente – uomo o donna che sia – non deve rifugiarsi sotto le ali della Chiesa per stare al caldo e dimostrare che sa fare. Ha una responsabilità adulta, libera, autonoma, di rendere il mondo più umano della quale risponderà solo a Dio».

Alberto Bobbio

 

 

Arturo Paoli

LA PORTA STRETTA
Anno C - 26 agosto 2001 - XXI Domenica del Tempo Ordinario
(Is 66,18-21; Sal 116; Eb 12,5-7.11-13; Lc 13,22-30)

 

"Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel Regno di Dio"

 

Penso che il mondo sarebbe migliore se in tutte le omelie si avvertissero i fedeli che partecipano all'assemblea domenicale di abbandonare il vezzo diventato quasi spontaneo di pensare che il Vangelo sia diretto agli altri. Cioè applicare le parole di Gesù alla suocera, al macellaio, al comunista, all'albanese o al marocchino. Credo che il vero successo, la vera conversione di una comunità cristiana, specialmente quella che partecipa ai ritiri e che si propone una specializzazione nella spiritualità, sarebbero raggiunti se ciascuno tornasse a casa con questa convinzione: a me, proprio a me, e solo a me, Gesù oggi rivolge queste parole. Il vezzo di scaricare sugli altri accuse che vogliono svegliarci perché finalmente mettiamo la mano all'aratro non è solo nostro, del nostro tempo. Nel capitolo undici c'è un passaggio nel quale Luca coglie la mentalità religiosa corrente. Ascoltando Gesù che inveisce contro i farisei, un dottore della legge si sente assalito da un pensiero: "Io non sono del club dei farisei, ma sono vicino a loro, non sarà che entro anch'io nella condanna?". E con una certa timidezza si rivolge a Gesù: "maestro, dicendo questo offendi anche noi" (Lc 11,45). Sta attento con le tue scudisciate a non ferire qualche innocente. Ma il maestro rincara la dose: "guai anche a voi". Non si scappa. Ognuno prenda il suo. Da questi squarci di indignazione appare chiaro che Gesù non è un moralista. Il moralista mette la persona a confronto con la legge, e normalmente scarica sulla persona un complesso di colpa. Se vuol liberarsi deve tornare, e si crea un vincolo di dipendenza fra maestro e discepolo, o per essere più precisi, fra terapeuta e paziente, che difficilmente si spezza. Gesù colloca la persona religiosa davanti alla decisione: o ti impegni o te ne vai. Non mi far perdere il tempo. Il giovane ricco vuole andare a scuola di spiritualità. Come fare per essere più buono, tu che sei buono devi avere la ricetta. È come la signora che vede un'amica con una pettinatura perfetta e le chiede l'indirizzo della parrucchiera. Ma Gesù non ha formule e mette subito il giovane di fronte alla decisione. E lui parte. Anche questo insuccesso illumina lo stile di Gesù: non mette il laico in uno stato di dipendenza, ma di fronte a una libertà di scelta. O ti decidi o te ne vai; a Gesù non piacciono le persone incapaci di decidersi.
L'altra maniera per sfuggire al colpo di spada è quella di indugiare su un'esegesi scientifica della Parola. In questo brano Gesù parla di una porta stretta, evidentemente è la porta del paradiso. Allora saranno pochi quelli che si salveranno? C'è chi dice molti, chi dice tutti e c'è chi ha visto scendere all'inferno tanta gente come fiocchi di neve. E così andando dietro alle diverse opinioni si specula, si indaga, si rimanda la decisione. Ma, benedetti discepoli di Gesù, pensate qui, all'oggi: la porta stretta è lo straniero che disprezzate, sono le occasioni quotidiane che vi disturbano, che vi obbligano, che scomodano il vostro io che preferisce la calma e le pantofole. Martin Buber ha detto che l'ebreo è colui che vive la sua vita allo scoperto, sotto lo sguardo di Dio, Gesù, non dimentichiamolo, è ebreo. Davanti a tanti rifiuti nascosti sotto le apparenze di docilità e di obbedienza alla Parola, Gesù finisce per dirigersi agli ultimi, agli esclusi, ai disprezzati. Davvero ti sei ricordato di noi? Davvero vieni a trovarci nelle cloache dove ci hanno spinto a vivere? Possibile che ti lasci toccare da questa fetida prostituta? E sarà questa sorpresa, questo accorgersi improvvisamente che avviene l'incredibile, ciò che mai si sarebbe osato sperare, la risposta unica che Dio attende dall'uomo.