“C’è
un tempo per piangere e uno per gioire” dice il Qoèlet, in un lungo elenco
delle possibili vicende della storia. Ma
c’è un tempo che lo scrittore biblico non aveva previsto ed è il tempo
dell’orrore e della confusione. E’ il tempo che stiamo vivendo. Anche quando
il Qoèlet fu composto, 2200 anni fa, la storia aveva pagine sanguinose: ma
tutto era (o sembrava) chiaro: l’eroismo e la ferocia, i volti degli uccisori
e quelli delle vittime, i loro nomi, le conseguenze di una strage. Oggi
conosciamo veramente soltanto la crudeltà del massacro, le emozioni che abbiamo
provato davanti alle immagini televisive, i sentimenti che si agitano ancora in
noi, la confusa certezza, dell’imminenza di una bufera nella quale potremmo
essere coinvolti come foglie secche. Il
primo superstite dell’orrore delle Torri che ho visto comparire sul mio
teleschermo era un negro, anziano, con un cappello a visiera. Che fosse un
negro, lo si scopriva soltanto guardando i suoi lineamenti, una polvere compatta
lo aveva rivestito di un bianco spettrale. L’uomo portava occhiali e anche le
lenti di quegli occhiali erano rese opache dalla polvere. Tuttavia egli non
accennava a pulirle. Sembrava che non volesse più vedere, che andasse avanti
come un automa e difatti sul suo volto non c’era altra espressione che quella
dello smarrimento. Penso che camminasse cercando un luogo per dimenticare. E
anch’io vorrei camminare con lui, ma quel luogo non c’è. Siamo tutti
costretti a ricordare. Ma ricordare non può voler dire rimanere incapsulati in
uno choc che ci impedisca di pensare e di agire razionalmente. Nelle
lunghe ore in cui sono rimasto, come centinaia di milioni di persone di tutta la
Terra, seduto davanti al televisore, quasi ipnotizzato, guardando quel cielo
senza luce mi è capitato di ripensare a un verso di Shakespeare: “Questo
mattino reca una lugubre pace. Il sole, per il dolore, non vuole mostrare il suo
volto”. Quel verso sta in “Romeo e Giulietta”, tenera storia di due
giovani sposi ma anche terribile racconto di un odio insensato; e certo la
parola “pace” voleva dire silenzio stupefatto, orrore, senso di inermità
davanti a un tetro capolavoro del male. E’ la “pace” che in queste ore
inchioda anche noi: qualcuno in preghiera, qualcun altro ai tavoli su cui i
generali distendono le carte geografiche e scelgono dove colpire, qualcun altro,
infine - i più - in una fonda paura, paralizzante. La tragedia contemplata in
diretta sui nostri teleschermi sembra prepararne un’altra, più vasta,
planetaria. Ancora una guerra nella storia dell’umanità. Penso
che non possiamo dimenticare la tragedia ma dobbiamo “leggerla” in tutti i
suoi aspetti. Non soltanto, dunque, l’odio e la strage: ma anche la generosità
con la quale il popolo di New York si è mosso subito, cercando in tutti i modi
di esprimere una solidarietà attiva per
le vittime del massacro e per le loro famiglie. E’ un esempio di fraternità
ma è anche un’indicazione politica e di sanità psicologica. Come scrisse
Sigmund Freud a Einstein poco prima del secondo conflitto mondiale, alla
distruttività della propensione alla guerra si deve rispondere mobilitando
l’Eros, l’amore; e il fondatore della psicoanalisi citava il vangelo
“…Ama il prossimo tuo come te stesso”. Che è l’esatta antitesi del
terrorismo, il quale travolge nella stessa morte i suoi autori e le loro
vittime. E’
soltanto con l’amore che si può vincere l’odio. I governanti e i generali
non vogliono capire che non è con le armi che si sradicherà il terrorismo: ci
sarà sempre qualche disperato o qualche fanatico che deciderà di diventare una
bomba umana. Le Torri erano già state attaccate (6 morti, 150 feriti) nel 1993
da un uomo – fu detto - di bin Laben. Due anni più tardi una setta
fondamentalista “cristiana” americana fece saltare un grattacielo di
Oklahoma City: 168 morti, 500 feriti. Quando (e se) bin Laben sarà stato preso
e, come merita, esemplarmente punito per il suo crimine contro l’umanità, sarà
fatta giustizia ma sradicata soltanto una delle spaventose minacce che gravano
sulla nostra civiltà. La guerra può, forse, distruggere alcuni governi
favoreggiatori del terrorismo, ma non deve toccarne i popoli. Se la nostra
civiltà risponderà alla orribile strage delle Torri con altre stragi anche
numericamente maggiori, com’è proprio di ogni guerra, non soltanto sarà
compiuto un peccato mortale collettivi ma sarà più facile al terrorismo
nascere e muoversi in un panorama popolare di odio accresciuto. Il
miliardario Bin Laben (tale per attività capitalistiche negli Stati Uniti, in
Giappone, in Norvegia etc.) non rappresenta il Sud dei poveri. E’ una scheggia
impazzita dell’Islam e una persona che può permettersi il lusso di tessere
una gigantesca rete di fanatici nel cuore stesso dell’impero americano. Ma non
è un emissario dei poveri e non si cura del loro destino. Lo spinge il
fanatismo religioso, non lo spirito di giustizia. Colpire il Sud dei poveri per
distruggere il suo invisibile impero, significherebbe compiere un’immensa
ingiustizia. “Rawa”, l’associazione delle donne afgane in esilio, ha
pubblicato un appello in cui dice: “Il governo degli
USA e il popolo americano devono sapere che c'e' una grande differenza tra la
gente povera e martoriata dell'Afghanistan e i terroristi criminali Talebani e
Jehadi. (…) Attaccare l'Afghanistan e uccidere la sua gente piu' derelitta e
sofferente, non alleviera' in alcun modo il lutto del popolo americano”. Non
aumenterà la sicurezza del Nord. Quando
sono andato a controllare la citazione di Shakespeare, ho trovato che , subito
dopo l’immagine del sole che non vuole vedere il massacro e dopo il grido:
“Povere vittime del nostro odio!”, egli conclude la tragedia con un
incitamento rivolto alla folla che va addensandosi intorno ai corpi esanimi dei
protagonisti: “Partiamo di qua per parlare più a lungo di questi tristi
eventi”. Io credo che sia un consiglio che ci riguarda. E’
impossibile, cercare di ragionare sui luoghi della strage, mentre riviviamo la
tragedia del bambino che la madre strinse al seno mentre l’aereo su cui
viaggiavano si schiantava su una delle torri o quella del marito che sapendo di
dover morire entro pochi attimi telefonò alla moglie chiedendo “Sono andate a
scuola le bambine? Io vi amo, tu lo sai che voi siete tutto il mio amore”; o
contemplando per l’ennesima volta le immagini delle decine di persone che si
gettarono impazzite dalle finestre dei grattacieli. E’
necessario scostarsi un po’, non permettere che il lutto offuschi la nostra
vista perché il lutto, talvolta, genera mostri, violenza, desiderio di
vendetta. E’ necessario sapere che tutto è cambiato per noi, gente del Nord;
aggredita nella nostra isola di benessere in mezzo a un oceano di disperazione;
ma nulla è cambiato per la miseria del Sud. Oggi il Sud sembra soltanto, sulle
pagine dei giornali e nei torrenti di parole che escono dai teleschermi, una
giungla da bonificare non con i trattori e con gli aratri ma con le armi più
sofisticate; un cuore di tenebre da colpire a morte. Follìa! Gli studenti di Berkeley scrivono sui cartelli delle loro manifestazioni
pacifiste una frase di Gandhi: “Occhio per occhio rende cieco il mondo” Noi
che ci sforziamo di guardare la Terra con gli occhi del vangelo dobbiamo, dopo
la sosta sulle tombe, riprendere il lavoro per un mondo più giusto. Dobbiamo
reimparare l’amore e il coraggio dell’amore. Dobbiamo testardamente aprire
il cuore ai poveri, volere per loro una giustizia che non è quella
“infinita” reclamata dai potenti offesi ma il diritto alla vita, alla dignità
e alla libertà di tutti gli esseri umani. di Ettore Masina |
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