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Un mondo più giusto:
Meglio la fine dell'ingiustizia che "giustizia infinita". Il riequilibrio
tra nord e sud del mondo, invece di seminare bombe, odio e morte. Una nuova
cultura, una nuova umanità che sappia risolvere i conflitti e lottare contro
la miseria, l'ignoranza, le intolleranze
LUIGI CIOTTI  (Il Manifesto, 22.9.01)




La vera e duratura garanzia di pace, stabilità e sicurezza è nella capacità
delle nazioni del mondo, a partire da quelle che hanno più ricchezza e
dunque più potere, di ritrovare unità, concerto nelle decisioni, coralità
nella definizione delle priorità. Nazioni unite significava, e deve tornare
pienamente a significare, questo. Certamente, e pur indirettamente, il
progressivo svuotamento e delegittimazione di sedi internazionali quali
l'Onu non ha contribuito a rendere più sicure e durature le relazioni di
pace tra i popoli e gli equilibri geopolitici tra le aree.
In questo stato di grave tensione e dopo i tragici lutti che hanno colpito
la popolazione americana, occorre far sì che l'emozione non soffochi la
ragione, che il dolore non accechi e zittisca la politica, che rimane lo
strumento principe per governare le relazioni tra gli stati, dirimendone e
prevenendone i conflitti.
Prima che di "giustizia infinita" occorrerebbe forse parlare di fine
dell'ingiustizia. Non è un gioco di parole: è la consapevolezza, fuori di
ogni retorica o demagogia, che il rapporto tra Nord e Sud del mondo è
contrassegnato storicamente da troppe disparità, ineguaglianze, povertà,
logiche di sfruttamento, razzismo e neocolonialismo. Uno squilibrio
pericoloso, rispetto al quale siamo spesso sordi e disattenti. Ragionarne
non significa certo allentare lo sdegno per il criminale attentato dell'11
settembre o diminuire la solidarietà verso le vittime e le popolazioni
colpite. All'opposto, significa ricercare una più efficace capacità di
prevenire nuovi lutti e di battere le organizzazioni criminali e il
fanatismo politico e religioso, sottraendo loro il consenso e contrastandone
l'operatività.
Queste ingiustizie, lo strangolamento economico di intere regioni e
continenti attraverso il meccanismo "usurario" del debito, la morte per
fame, per sete, per malattie evitabili, per desertificazione del territorio,
per nuovo schiavismo, per aids, per privazione dei diritti umani, per
intolleranze etnico-religiose, costituiscono nell'insieme una polveriera.
Promuovere giustizia, neutralizzare la polveriera, ristabilire equilibrio
geopolitico non può avvenire in forza delle armi, né con la logica della
rappresaglia o con la licenza di uccidere. Una logica che può apparire
legittimata dalla gravità inaudita degli avvenimenti, emotivamente
condivisibile, ma politicamente assai rischiosa e del resto moralmente e
culturalmente inaccettabile per quanti si riconoscono in Cristo e per chi
creda nelle regole dello stato di diritto. Nella guerra non c'è mai vero
sollievo per le vittime, non c'è riparazione per i torti subiti, non c'è
promozione di giustizia: c'è solo la certezza di incrementare la spirale
dell'odio.
La giustizia non si conquista sulla punta delle baionette, neppure quando si
hanno tutte le ragioni dalla propria parte o quando, come nel criminale
attacco dell'11 settembre a New York e a Washington, migliaia di persone
vengono uccise senza pietà e senza giustificazione alcuna. Non è certo con
nuove leggi repressive ed emarginanti contro gli immigrati, come sembra
farsi strada negli Usa, che si ferma la mano e l'odio del fanatismo etnico o
religioso. Anzi. Non è con l'aumento delle spese militari, con le
finanziarie e l'economia di guerra, che si stabilizzano e rendono sicure
certe aree geografiche o le nostre stesse città. Certo, la giustizia e la
sicurezza non si ottengono neppure con la rassegnazione o subendo
passivamente la violenza e il terrorismo. Questo deve essere chiaro e
ribadito.
Ma, al di là e dopo l'emozione che ci ha tutti colpito per la tragedia negli
Usa, e senza fare venire meno la massima solidarietà per la popolazione
colpita, la necessità vitale e lungimirante è quella di una nuova logica
politica, di una alleanza internazionale non solo contro il terrorismo, ma
per una nuova cultura nel rapporto tra i popoli, le religioni, i paesi e i
loro governi, che non metta sempre al primo posto la logica del profitto e
la legge del più forte (militarmente ed economicamente), ma quella della
tolleranza e del rispetto reciproco, della convivenza e dello sviluppo
comune.
Quando la parola passa alle armi, quali che siano le ragioni e gli
avvenimenti che determinano questa scelta, si tratta sempre di uno scontro
tra inciviltà. Invece, questo nostro mondo lacerato e insanguinato ha
bisogno di riscoprire una nuova umanità, un modo nuovo, radicalmente
diverso, radicalmente più giusto, non distruttivo, per affrontare e
risolvere i conflitti. Un modo radicalmente e rigorosamente nonviolento.
Un'utopia? Può sembrarlo, ma forse diventa credibile e praticabile se
osserviamo quanto l'opzione militare e la politica (e l'economia) che
preferiscono la risposta delle armi non hanno mai prodotto stabilità,
sicurezza e progresso. Al contrario, hanno sempre rinnovato, esteso e
moltiplicato i conflitti e le vittime, specie civili.
Allora - è il mio auspicio e impegno - paradossalmente la terribile strage
dell'11 settembre potrebbe innescare un soprassalto di lucidità nei governi
e nella coscienza collettiva, nella società civile globale, per interrompere
finalmente la spirale dell'odio e del terrore. Iniziando a metterne in
discussione i presupposti e sottraendosi al copione già scritto della
rappresaglia. Un copione di morte, sicuramente previsto e fortemente voluto
dagli occulti registi dell'11 settembre. Non facciamo il loro gioco, vi
prego.

* Gruppo Abele, Torino