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Liberare la Vita

l'analisi di fr. Joel per giovaniemissione

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Abbiamo conosciuto una persona molto preziosa: fr. Joel. Ci piacerebbe che ciascuno degli amici di giovaniemissione potesse dialogare a lungo con lui, personalmente... ma anche queste relazioni virtuali possono dischiudere grandi potenzialità, perchè -come dice lui- "ogni giovane che visita questa pagina è un sogno in azione, e diventa un pericolo".

Lasciamoci accompagnare da fr. Joel in questo itinerario alla ricerca di una nuova chiesa, coraggiosa, profetica, appassionata per i poveri. Lui se ne è innamorato fin dall'inizio, come missionario comboniano che dal Messico è vissuto in Colombia ed Ecuador. Ora è in Italia, sta specializzandosi sulla 'Dottrina sociale della chiesa', testimone che una chiesa diversa è possibile, ed è già in costruzione!

Fr. Joel ci aiuterà con una rubrica in cui leggeremo (con un linguaggio semplificato e critico) i documenti più profetici della chiesa istituzionale, per imparare a cambiare le cose a partire dall'interno, senza scoraggiarsi nè scontrarsi in maniera sterile o ideologica. Buon cammino a tutti!

 

In questa prima sezione, cerchiamo di conoscere più da vicino fr. Joel.

Ecco un'intervista realizzata dallo staff di giovaniemissione:

 

Fr. Joel, chi sei tu?

           E’ una domanda non così semplice, perché va fino alla mia identità più profonda. Se fosse soltanto una identità convenzionale basterebbe con dire che io sono JOEL CRUZ REYES FRATELLO MISSIONARIO COMBONIANO MESSICANO.

Ma non voglio fermarmi al superficiale, vado alla mia “essenza”, che scaturisce da un cuore indigeno.

In questo senso devo rifarmi al concetto di persona proprio della mia cultura nella quale l’essere umano è “volto e cuore” frutto di una storia concreta, e allo stesso tempo è “sogno”, progetto storico con dimensione di passato, presente e futuro.

 Nella mia eredità indigena, il nome spiega la persona: la sua interiorità (cuore), il suo agire (volto) e il suo progetto (sogno). Quando mi sono messo a leggere in profondo il mio nome ho scoperto che è composto da un elemento biblico (Goel = Joel ) e un elemento cristiano (Cruz = Croce, Reyes=Re). In un primo momento questa scoperta è stata per me una tragedia: Bibbia e Cristianesimo nascondevano in me un “incontro-scontro” fra i miei antenati e la cultura occidentale (Spagna): luci ed ombre fanno parte già del mio essere profondo.

Ho portato questo nome come indigeno, in un lungo processo fatto di tragedia, odio, rassegnazione, poi perdono, riconciliazione e perfino gratitudine. Questo nome si è incarnato nella mia esperienza personale e collettiva (popolo indigeno mixteco) fatta di povertà, emarginazione, discriminazione, esclusione… ma anche fatto di contemplazione, di relazione fraterna con la natura, di speranza e resistenza, di uno spirito che parla con Dio in tutto.

Insomma, questo indigeno mixteco che sono io è diventato il luogo d’incontro dello spirito occidentale (con la sua paradossale intenzionalità di dominazione e “salvazione”) e lo spirito indigeno (fatto di contemplazione, perdono, riconciliazione e resistenza).

L’incontro con Daniele Comboni mi aprì le porte al carisma missionario: il luogo concreto di comunione e partecipazione di tutti gli elementi del mio essere profondo, di questi due “spiriti” (occidentale e indigeno) in funzione dei miei fratelli più poveri ed abbandonati.

È stata la porta verso l’universalità della mia esperienza: sono diventato dono per tutti. E attraverso Comboni ho trovato il Fratello universale: Gesù. Un Fratello libero, talmente libero che neanche il peccato, la religione, le ideologie gli hanno impedito di essere fratello di tutti.

Per questo sono diventato fratello missionario.  Con Daniele Comboni mi sono reso conto che sono comboniano.

Per concludere: la mia identità scaturisce dagli antenati collegati direttamente con il mio nome: il profeta Joel (Gioele), Gesù crocifisso e Re (Cruz Reyes) e Daniele Comboni.

Questi antenati fanno il mio cuore-volto e il mio sogno. Nel concetto d’identità indigeno la persona è la presenza degli antenati oggi e qui, ed è sempre una spirale aperta ogni volta più larga che cresce sempre. Cioè io sono un cuore-volto ed un sogno frutto d’incontri con persone, culture, situazioni… nel passato, presente e futuro. Questo è il significato più profondo quando dico: “Io sono Fratello Joel Cruz Reyes, missionario comboniano, messicano”. Quindi, il mio progetto di futuro è il mio nome stesso.

 

Chi sono i popoli che hai conosciuto?

Cosa puoi dirci, in particolare, a proposito dei giovani in quei popoli?

 Come ho detto prima io sono parte del popolo indigeno mixteco nel sud del Messico e ho vissuto per un tempo con il popolo p’urepecha o Tarasco (indigeni dal centro occidente del Messico). Poi in Colombia ho accompagnato il popolo indigena Sikuani nelle pianure orientali vicino all’Amazzonia in un contesto di guerriglia, dopo ho fatto un cammino con la gente nelle periferie urbane di Bogotà (in un contesto di estrema povertà e di violenza urbana). In Ecuador la mia presenza di accompagnamento è stata fra gli afroecuatoriani (i neri ecuadoriani della costa in un contesto urbano e di campagna, di discriminazione, povertà e violenza).

In questo senso posso dire alcune cose sui giovani delle aree marginali di Bogotà (Colombia), Guayaquil (Ecuador), dei giovani indigeni (Messico-Colombia-Ecuador), e dei giovani afroecuatoriani della costa ecuadoriana. Tutti comunque con la esperienza di essere la “periferia” a livello socioeconomico, culturale e religioso.

Sono tre i tipi di giovani che ho conosciuto e accompagnato. Comincio per dire alcune caratteristiche specifiche:

a). I giovani della periferia urbana (Bogotà – Guayaquil ), in maggioranza sono meticci, cioè discendenti da europei e indios o africani, con un riferimento culturale occidentale dominante. Con un complesso di superiorità verso l’indigeno o il nero (Afro), ma con la loro identità spezzata. Oltre a questo aspetto, i giovani della periferia urbana vivono un contrasto socio-economico terribilmente evidente, che fa “sognare” loro una realtà diversa, ma che spesso finisce in frustrazione per la mancanza d’opportunità di studio e di lavoro. Da qui nascono diversi tipi di violenza giovanile urbana, più o meno organizzata. Spesso il loro pensiero, il loro grido, il loro sogno vengono espressi nei muri della città (graffiti…). Sono giovani forse lontano dalla Chiesa, ma affascinati da Gesù.

b). I giovani indigeni: in loro ho trovato l’impronta della povertà, dell’emarginazione, della discriminazione, della coscienza di essere una “minoranza” etnica considerata una “razza” di seconda o terza categoria. Da questo scaturisce un grande complesso d’inferiorità e uno stile di relazione che molti definiscono a “doppia faccia”, come meccanismo di sopravvivenza e resistenza. Il loro silenzio contemplativo s’intreccia con la paura di essere rifiutati, con la melanconia storica, con la rassegnazione ad essere gli ultimi fra gli ultimi. Innocenza, rabbia, desiderio di rivendicazione… Ma allo stesso tempo una pazienza storica e una speranza attiva vissuta nel silenzio. Questi sono i giovani indigeni, che vedono nella storia il paradosso di una chiesa complice e causa del loro male ma allo stesso tempo unica compagna di cammino: amano la chiesa non tanto per essere chiesa ma perché lì trovano Gesù crocifisso, solidale con il loro popolo.   

c). I giovani afro (neri): figli dello sradicamento e della schiavitù, vittime di una coscienza collettiva che associa il nero con la violenza e la delinquenza, con l’incapacità d’organizzazione. Discriminazione, povertà, rifiuto… ma vissute nel canto e nella danza al ritmo dei tamburi: per chi guarda da lontano sembra una festa, ma in fondo sono grida di denuncia, di resistenza, di liberazione dall’odio, dalla disperazione, dalla frustrazione.

Queste grida salgono verso il Dio africano nascosto dietro ai nomi dei santi cristiani. Questi giovani, tramite i loro antenati, hanno fatto di Cristo la loro forza; attraverso la figura di Cristo crocifisso, come loro, sono riusciti ad avvicinarsi e perdonare la Chiesa. Posso dire che il giovane afro cosciente ama la Chiesa per Cristo, non per quello che ha fatto o fa nell’attualità.

 È questo il volto giovanile latinoamericano che conosco, con la grande potenzialità di chi sogna un mondo più giusto e fraterno. La loro condizione di periferia sociale, economica, culturale e religiosa non è un limite per sognare come un cittadino del mondo uguale a tutti i giovani del nord del pianeta. Ormai non esiste il giovane “locale”, esiste il giovane “globale”, penso e ogni volta in più rafforzo questa mia convinzione, che la emigrazione è espressione della voglia di realizzare questo sogno globale di giustizia e di fraternità.

Il pericolo che vedo è che il cuore del giovane latinoamericano sta diventando vicino al lontano, e lontano dal vicino (il suo contesto concreto), con la grande possibilità di diventare vittima dell’uniformità culturale vuota di umanità promossa dal neoliberismo globale.

La sfida è riuscire creare lo spirito di comunione e partecipazione dei “sogni”, cioè far suonare assieme la chitarra (giovani meticci), la Kena (giovani indigeni) e il Bombo (tamburo, giovani afro) nel concerto globale dei giovani nel mondo.

 

Parlaci della chiesa che hai incontrato nei vari paesi che conosci

Parlare della Chiesa nei diversi paesi dove sono stato è molto complesso. Mi limito a dire qualcosa del “volto povero” della Chiesa dove sono stato. Con questo vorrei che si superasse l’idea dei “poveri” come “destinatari” o “preferenza” dell’azione della Chiesa, come se i poveri latinoamericani pure essendo la maggioranza dei battezzati non fossero Chiesa.

Quando parlo del “volto povero” della Chiesa parlo dei poveri che sono Chiesa perché battezzati, e comunque presenti in diversi modi come cattolici nel nostro continente. Parlo di questo volto ecclesiale perché l’unica esperienza che ho vissuto. Il cammino fatto come parte di questo volto (in Messico, Colombia, Ecuador) mi ha convinto che Dio, Gesù Cristo è lo stesso ovunque. È lui che accompagna il suo popolo facendosi presente nelle diverse devozioni, quello che gli “esperti” chiamano “religiosità popolare” o “sincretismo”, che per me  non è altro che l’iniziativa di Dio al vedere il suo popolo abbandonato e non capito in profondità.

In questa realtà pratica del povero ho capito che Dio e soltanto Lui si lascia avvicinare dal suo popolo così come Lui lo ha creato, cioè come indigeno, come nero… ed è precisamente questa la potenzialità del volto povero della Chiesa latinoamericana, è questa la sua originalità, il suo dono alla Chiesa universale.

Questo volto della Chiesa latinoamericana guarda la Parola di Dio con “innocenza intellettuale”, non perché è privo di intelletto, ma perché legge la Parola senza pregiudizi, senza ideologie, perché non ha accesso alla teologia nè alla filosofia delle università. La Parola diventa la sua unica scienza: la crede, la vive.  Il suo punto di partenza non è un concetto, un’idea, ma la sua vita quotidiana, la sua problematica concreta. Si avvicina a Dio per chiedergli luce, per capire, per avere speranza e forse una alternativa. In altre parole, legge la Parola per vivere, perché crede che la Parola di Dio serve per vivere, soltanto per questo.

 

Fr. Joel, qual è il tuo sogno come missionario comboniano?

Lo trovi seguendo l’orizzonte del “salvare l’Africa con l’Africa” e del “fare causa comune con i più poveri e abbandonati”. Il mio sogno comboniano è lo stesso del profeta Gioele: “fare scoprire ad ogni uomo e donna che vive nella periferia del sistema attuale, che lo Spirito del Signore è in ognuno di loro, in tal modo che diventino profeti che parlano in nome di Dio in favore dei dimenticati, delle vittime del sistema.”

Vorrei soltanto aiutare a questi uomini e donne fratelli nostri a ricuperare la capacità di sognare un mondo più umano, giusto, fraterno. Ma non come sogno di una persona che dorme, ma che è sveglia e cosciente che il sogno non è un ideale o una utopia, ma una realtà che comincia ad esistere dal momento che si comincia a sognare, perché si trasforma in un nuovo modo di relazione, in fonte d’iniziative, proposte, diversi modi di organizzazione… è questo il mio sogno, il mio progetto.

 

Che messaggio vuoi lasciare ai giovani italiani?

 Io credo che ogni giovane italiano che visita questa pagina è un “sognatore”. Cioè un giovane non “comune” – perché sembra che ormai la grande maggioranza ha perso la capacità di sognare giustizia, pace, fraternità per tutti.

Invece ci rendiamo conto che  la nostra presenza nella società, nella Chiesa, in ogni contesto è come una domanda, forse senza risposta, ma che comunque non lascia in pace la coscienza di tutti coloro che dormono o non vogliono vedere. E’ questa la presenza del Signore che apre gli occhi ai ciechi, che fa parlare i muti, che fa ascoltare i sordi… tramite le diverse iniziative di organizzazione, di manifestazione… Io credo che ogni giovane italiano che visita questa pagina è un sogno in azione, e diventa un pericolo per il sistema che ha bisogno di cuori e menti vuote, spiriti spenti  di sogni e d’umanità per poter mantenersi in piedi.

Vorrei dire a questo giovane di non smettere di sognare, perché soltanto i morti non sognano. Il nostro mondo è pieno di morti che camminano, mentre un mondo di giustizia e di pace soltanto è possibile se ci sono persone vive nel mondo. Noi vogliamo un mondo dove trionfi la vita, non la morte, ma per questo è necessario sognare, svegli e camminando.

Il mondo, i poveri, hanno bisogno di sognatori. Certo: un sognatore diventa pericolo per alcuni, ma speranza per molti, perché la sua presenza è fonte d’alternative.

Per favore, non lasciare di sognare, per il bene di tutti.

Io credo che soltanto questo vuole Dio. Vale la pena sognare.