|
STA
per scoccare la grande ora del pacifismo. Nei primi giorni di shock e di orrore,
era un robusto mormorìo di fondo. Oggi, dopo che il mullah Omar e lo sceicco
Bin Laden hanno solennemente dichiarato la "guerra santa agli ebrei e ai
crociati"- dunque all'intero Occidente - i pacifisti si apprestano a
diventare un fattore politico. Sarà bene esserne consapevoli. Perché fra le
molte asimmetrie di questo conflitto, la più importante e la meno discussa è
che noi abbiamo un'opinione pubblica e i nostri nemici no. Per fortuna. Se
questa guerra ha un senso ultimo, ebbene questo senso è di continuare a vivere
in un paese in cui le opinioni si dividono.
I terroristi sanno di non avere la minima chance di batterci militarmente.
Ma con i loro attacchi sperano di diffondere insicurezza nelle nostre società.
Così creando un ambiente ideale per spaccare l'Occidente e per minare
dall'interno le nostre democrazie. Le quali rivelerebbero la loro intrinseca
debolezza di fronte all'auspicata sollevazione delle masse musulmane.
La difficoltà di questo scontro sta per noi nell'equilibrare la più rigorosa
lotta ai signori del terrore con la difesa dei caratteri fondamentali della
nostra vita associata. Nello stato di eccezione in cui versa la nostra
democrazia alcune provvisorie limitazioni sono necessarie. Qualche grado di
autocensura – anche per noi giornalisti – è inevitabile e sarebbe ipocrita
negarlo. Ma sarebbe fatale incrinare, per qualsiasi ragione o con qualsiasi
pretesto, il diritto di ciascuno di esprimere anche il più assoluto dissenso
nei confronti dei nostri governi. E di manifestare liberamente per la pace. Come
accade in America, nel paese che è il principale bersaglio di Bin Laden e della
sua holding del terrore.
Quali sono le ragioni del pacifismo, quali le sue forme? Ci sono almeno tre
correnti nel vasto oceano dei pacifisti italiani – ma il panorama non cambia
troppo negli altri paesi europei. C'è chi la pace la invoca per principio, chi
per paura, chi per politica. Di quest'ultima anima del movimento vale discutere
le ragioni. Degli anacoreti – come definire altrimenti i fondamentalisti del
pacifismo? - si può avere rispetto, ma non si dà circolazione di idee fra chi
sceglie di vivere nel proprio deserto immaginario e chi, bene o male, nuota
nella società umana. Dei timorosi – e in questo momento lo siamo un po'
tutti, salvo gli incoscienti – si comprende il sentimento. Di chi esprime un
pacifismo politico, determinato a orientare le strategie del paese, si devono
conoscere le argomentazioni. Per aderirvi o per confutarle.
A un esame il più sereno possibile, le tesi del movimento contro la guerra,
destinato a culminare nella marcia PerugiaAssisi del 14 ottobre, appaiono
piuttosto deboli. Diamo per scontato, naturalmente, che il loro obiettivo sia
identico a quello proclamato da Bush a nome del mondo civile: difendere la
(nostra) libertà e sconfiggere il (loro) terrorismo. E sgombriamo il terreno da
ogni maliziosa lettura ideologica: che molti pacifisti siano mossi da
antiamericanismo è senz'altro vero, ma non interessa ai fini della nostra
questione - se sia possibile sconfiggere i terroristi senza fare loro la guerra.
La risposta è sì in un solo caso: che l'attacco al cuore dell'America sia
opera di un'organizzazione criminale ormai moribonda. Nulla lascia purtroppo
prevedere che il massacro delle Torri Gemelle sia l'ultima raffica di Bin Laden.
O meglio, potrà rivelarsi tale solo se stroncheremo rapidamente le cellule
terroristiche – non importa di quale matrice – capaci di uccidere migliaia
di innocenti.
E siccome è risibile concepire una trattativa con organizzazioni terroristiche
tanto fanatizzate, non resta che annientarle.
Molti, soprattutto in Europa, obiettano al termine "guerra". Questa
critica nasce da un teorema in tre parti. Primo: lo scontro con il terrorismo è
affare degli americani, i quali "se la sono cercata" e ora reagiscono
da sceriffi mondiali. Secondo: la guerra in corso è assimilabile ai grandi
conflitti mondiali del Novecento. Terzo: la guerra è la negazione della
politica.
Tesi che non convincono. È stata proclamata una "guerra santa" al
"regno di Satana", che non è solo l'America, né solo l'Occidente, ma
anche la Russia, la Cina, l'India – per tacere dei loro complici arabi o
"falsamente musulmani". Insomma, il mondo meno i terroristi, o quasi.
Non per caso è stato scelto a bersaglio il Centro Mondiale del Commercio, dove
lavoravano migliaia di nonamericani e diversi musulmani. Tra le vittime ci sono
centinaia di giapponesi, inglesi e altri occidentali, tra cui decine di italiani
– fatto di cui curiosamente poco si parla. Sappiamo che Bin Laden programmava
un attacco analogo su Genova, in occasione del G8. E anche a non credere alle
voci su possibili attentati al Vaticano o a obiettivi dei kamikaze sul
territorio nazionale, cos'altro ci vuole per capire che siamo anche noi nel
mirino della rete terroristica? Quanto ai paradossi della geopolitica americana
- Washington si trova a combattere i suoi ex amici (Bin Laden e i taliban, già
celebrati da Reagan come «guerrieri della libertà") con i suoi ex nemici
(Russia anzitutto, ma anche Cina) - non basterebbe un'enciclopedia per
contenerli. Ma perché perseverare nell'errore? Suicidarsi per dimostrare di
aver avuto ragione sarebbe bizzarro.
Quanto al secondo punto, è stato ripetuto fino alla nausea che questa è una
guerra molto particolare. L'aggressione agli Usa è stata scatenata in modo non
convenzionale, dunque la risposta della coalizione è inedita. Si compone di
misure politicodiplomatiche, economicofinanziarie, di polizia e di intelligence.
La replica militare è largamente affidata a covert operations di cui per
definizione non sapremo nulla. Se però gli americani dovessero farsi tentare
dallo spirito di vendetta, cominciando a sparare missili all'impazzata in giro
per l'Oriente islamico, i rischi sarebbero enormi. E la coalizione si
spezzerebbe all'istante, lasciando gli Usa dov'erano prima dell'attacco:
piuttosto soli, dunque vulnerabili.
È compito degli alleati, a cominciare da noi italiani ed europei, richiamare
gli Stati Uniti al principio di utilità, se mai perdessero il controllo dei
nervi. La reazione deve battere il terrorismo di sterminio, non moltiplicarlo né
eccitare "guerre sante". Dunque lo scopo prioritario della campagna è
di rovesciare il regime dei taliban, uccidere o catturare Bin Laden e impedire
ulteriori devastanti attentati da parte di alQa'ida e affini.
Questo ci conduce al punto finale. La guerra è l'estrema risorsa della
politica. Oppure è follia. È un mezzo, non un fine. Dev'essere ben chiaro ed
esplicito qual è l'obiettivo della mobilitazione mondiale. La guerra si fa per
difendersi e per restaurare la pace. In un ambiente geopolitico possibilmente più
stabile. Quanto meno americana e più globale sarà questa guerra, tanto più
utile sarà, per gli americani e per il resto del mondo. Altrimenti i pacifisti
avranno avuto ragione, malgrado se stessi. Ma i vincitori non permetteranno loro
di celebrare.
|