Il nuovo Kenya che avanza sbaraccando i baraccati.

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tratto dal "Venerdì" di Repubblica

 

 

 

   NAIROBI.

La baracca di Joseph Otieno era stipata di gente.

Mentre padre Daniele tirava fuori dallo zaino il suo sacro armamentario, qualcuno ha urtato una mensola e si è sentito il rumore delle pillole che cadevano.

La mattina dopo, Joseph partiva per andare a morire nel suo villaggio, perché chi appartiene all'etnia Luo deve essere sepolto nella terra degli antenati. Lo pretendono gli spiriti ancestrali, altrimenti la sfortuna si abbatte sui parenti. Ma un funerale da Nairobi al villaggio costa e allora saranno i debiti ad abbattersi sulle famiglie.

Così i moribondi salgono in corriera
tentando di arrivare vivi. Dopo che l¹avevano spalmato ben bene d¹olio santo, Joseph Otieno è uscito dallo stupefatto torpore dell'Aids all¹ultimo stadio e ha anche ringraziato Dio e gli uomini. Nessuno piangeva, ma questi placidi abissi di tristezza noi non li possiamo capire.
Ogni sera una messa così, per il comboniano Daniele Moschetti, erede di Alex Zanotelli a Korogocho, lo slum che si affaccia per due chilometri sulla più grande discarica di Nairobi. Posto infernale, dove il ladro colto sul fatto finisce infilato in un copertone a cui si dà fuoco.

In lingua kikuyu, Korogocho vuol dire caos, quindi lasciamo stare le statistiche su quelli che vivono sotto la soglia di povertà, o su quante latrine e quante fontane. Per capire l¹aria che tira basta il Jet Five, il liquore locale, distillato dall'olio bruciato degli aerei.

Ma poi ci sono le prostitute che si crescono i figli; i ladri che non rubano ai vicini di casa; il feroce racket minorile della discarica che lascia ai bambini piccoli il diritto di prelazione sul camion con l¹immondizia dell¹aeroporto.

Generazioni di ragazzini sono venute su con gli avanzi dei pasti serviti sugli aerei, disputandosi come prelibatezze cracker e formaggini.
A passarci qualche giorno, Korogocho non acquista alcuna bellezza, ma rivela una dignità di sistema sociale. Nell¹ammasso di baracche si sviluppa una topografia disegnata dalle appartenenze tribali, i conturbanti chioschi
alimentari o il gregge che intasa il vicolo raccontano di un'economia sommersa che non vuole assolutamente sprofondare.

 Insomma, anche il caos ha il suo ordine, questa non è solo la pattumiera della città.
Anche perché, a ragionare in questi termini, Nairobi sarebbe tutta una pattumiera: ci sono 168, (ma c'è chi dice 190) slum affollati da oltre due milioni di persone, il 55 per cento della popolazione compresso nel 5 per cento dell¹area urbana.

 Ma Nairobi, capitale di uno Stato sempre più povero, col turismo in caduta libera (grazie anche ai governi inglesi e americani, che sconsigliano ai propri cittadini le vacanze in Kenya finché il Paese non si allineerà alle loro politiche antiterroristiche), vuole diventare una metropoli moderna, assestata sugli standard occidentali.

Bisogna costruire una tangenziale, potenziare la ferrovia, rifare la rete elettrica, possibilmente in joint venture con le società straniere che però, se prima non si spazzano via le baracche che ostacolano i lavori, non aprono neanche i cantieri.
Nelle stime ottimiste si prevedono 160 mila sfollati, ma in quelle fosche la cifra raddoppia. Dove andranno? Si vagheggia su un pezzo di terra, per molti ma non per tutti, dalle parti di Athi River, quaranta chilometri a sud della
città. Una deportazione, aggravata da una nuova brillante iniziativa, il riordino dei trasporti pubblici: divieto di condurre passeggeri in piedi su autobus e pulmini, e cinture di sicurezza obbligatorie.

Così i mezzi non bastano più e i biglietti sono saliti alle stelle.
 

«Le grandi manovre sono partite all'inizio dell'anno, senza offrire reali alternative a chi ne farà le spese», racconta padre Daniele, che con altre quindici parrocchie delle baraccopoli, ha costituito un comitato per la difesa degli slum dweller, gli abitanti della città sommersa.

 «Non ci opponiamo alle migliorie, ma bisogna accordarsi con la gente degli slum, proporre delle soluzioni, decidere insieme».
Kibera, la bidonville più grande d'Africa dopo Soweto, un milione di abitanti, è attraversata per cinque chilometri dalla ferrovia che lambisce le baracche e, non di rado, falcia i bambini. Per riassestare la linea si sgombrerà, 30 metri per lato, il terreno che costeggia i binari: 20 mila demolizioni, pari a 51 mila sfollati.

Su Kibera incombe anche la tangenziale: giù altre 16.800 baracche.

I pali della luce, invece, sono una minaccia che pende su molti slum: è illegale e pericoloso abitare sotto i cavi, sentenzia il governo. Ci sono stati degli incendi, dei morti.

Così sono partiti gli ordini di sgombro e le prime demolizioni, in una frenesia di progresso che considera incivile vivere sotto i cavi elettrici, ma non si scandalizza per le fogne a cielo aperto o per il divario fra la densità di Karen, il quartiere bene, 358 abitanti per chilometro quadrato, e gli 82 mila di Kibera.
Per arginare il nuovo che avanza i parroci hanno coinvolto Ong, gerarchie ecclesiastiche, Onu, e hanno lanciato Viva Nairobi Viva, campagna di raccolta firme on line (www.habitants.org/IAI). Al governo kenyota stanno
arrivando migliaia di firme. L'Onu ha definito le demolizioni una violazione dei diritti umani.

 Il governo finlandese ha proposto a quello kenyota di cancellargli il debito se rifonderà adeguatamente gli sfollati.

Il tribunale di Nairobi ha accettato il ricorso di 89 persone contro lo sfratto.

 «Siamo riusciti a sospendere le demolizioni e abbiamo portato una delegazione delle Kenya Railways a Bombay per mostrare loro come, con una mediazione, era stato risolto un contenzioso simile» racconta l'avvocato Odindo Opiata.

E i politici? «L'8 marzo noi donne di Korogocho abbiamo scritto una lettera alla moglie del presidente Kibaki.

Non ci ha risposto né ricevuto.

Chi vive nell'immondizia è considerato subumano. Invisibile», s'indigna Mary Wangoi, che sta con otto figli e quattro nipoti in tre stanze, sotto un palo della luce: «Quando ho costruito la casa il palo non c'era: illegali sono loro, non io».
 

Padre Daniele dice che in Kenya c'è una segregazione sociale simile a quella razziale al tempo degli inglesi, quando Nairobi era interdetta agli africani: «Dei poveri ci si ricorda solo prima delle elezioni: sono la maggioranza dell'elettorato».

In effetti, ministri e parlamentari non hanno grande voglia di rispondere sul destino degli elettori baraccati ma, nelle dichiarazioni pubbliche che devono pur rilasciare, a volte dicono che bisogna bloccare tutto e altre che si deve procedere.

William Omondi, deputato di maggioranza della circoscrizione di Korogocho, ci offre un saggio di dialettica politica: «Le baracche sono abusive, non si può arrestare il progresso, però è necessario trovare una soluzione per gli sfollati». Quale? «Beh, vedremo. Dobbiamo discuterne».
Nel 2002, il paese è uscito, speranzoso, dal regime assoluto di Daniel Toroitich arap Moi, durato 24 anni. Il nuovo governo multietnico e multipartitico guidato dal presidente Mwai Kibaki si è insediato con due obiettivi: sradicare la miseria e la corruzione.

Peccato che per prima cosa il parlamento si sia aumentato gli stipendi e che la corruzione occupi sempre le prime pagine.

 Anche la storia delle demolizioni ha risvolti torbidi: nella campagna contro gli abusivismi, le prime a cadere sono state
le ville dell'establishment dell¹ex presidente Moi. 

È sembrata una rappresaglia tribale e politica. Politici e burocrati si sono comunque sporcati le mani con gli slum, occupando le terre demaniali senza comprarle, attraverso atti di vendita fasulli e accordi sottobanco. Poi ci hanno speculato affittando i terreni o costruendoci sopra catapecchie immonde che rendono il corrispettivo di tre euro al mese la stanza (cinque, se il pavimento è di cemento).

Calcolando che la maggior parte degli slum dweller sono affittuari, quello delle baracche risulta un buon affare, in Kenia.
La cittadella dell'Onu che, a occhio, sembra più vasta di Korogocho, ospita il quartier generale di Habitat, il programma sugli insediamenti umani delle Nazioni Unite.

Quando gli chiediamo come pensa di intervenire contro gli sgombri, Farouk Tebbal, un amabile algerino responsabile del dipartimento «Abitazione» allarga le braccia: «Abbiamo la fortuna e la sfortuna di avere la nostra sede a Nairobi: altrove ci siamo opposti a simili provvedimenti, qui è più difficile. E poi noi africani non amiamo l'intimidazione, preferiamo i messaggi indiretti».

Per esempio? «Nel Sud del mondo pretendere di assumere da un giorno all'altro gli standard europei può essere un grave errore».

di da Paola Zanuttini

tratto dal Venerdì di Repubblica