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Milano. Per don Luigi Ciotti la
proposta del Papa di una giornata di digiuno per la pace è «enorme e
necessaria». In direzione di un'autentica fratellanza, che è molto di più del
semplice dialogo. Parla delle ferite poco raccontate di questa guerra, e del
dovere di accogliere «senza riserve» i «fratelli» dell'islam, «anche se -
aggiunge - non bisogna dimenticare che ci sono reti criminali che fanno
riferimento all'islamismo fondamentalista di grande pericolosità e diffusione.
Presenti anche in Italia, come recenti indagini stanno mettendo in evidenza.
Reti e criminali rispetto a cui occorre esplicitare, a voce forse più alta e
decisa di quanto non si stia facendo, una rigorosa denuncia morale, culturale e
politica, e auspicare una severa e decisa repressione. Sono reti che da tempo
lavorano nell'ombra, anche in città italiane, che talvolta cercano e trovano
alleanze anche con gruppi della criminalità organizzata, come la 'ndrangheta.
È grazie a queste reti, e agli ambiti di omertà e protezione di cui godono in
Paesi europei e occidentali, che il terrorismo stragista può più efficacemente
e impunemente colpire. C'è un grosso lavoro da fare - prosegue il fondatore del
Gruppo Abele - anche in materia di paradisi fiscali dove, come già per le mafie
italiane e internazionali, si intrecciano e coprono a vicenda gli interessi
degli assassini del terrorismo islamico, di al Qaeda in particolare, e quelli di
una finanza in doppiopetto, una criminalità di «colletti bianchi» e dalle
mani sporche. Talvolta sporche di sangue delle tante vittime del terrorismo,
rispetto alle quali la solidarietà dell'opinione pubblica italiana e mondiale
deve essere incondizionata e priva di ambiguità.
Don Ciotti, il Papa propone una giornata di digiuno per la pace il 14
dicembre. Una proposta senza precedenti e carica di significato...
Il significato è enorme, l'iniziativa inedita e necessaria. Purtroppo, senza
precedenti o quasi è anche il clima di grave e crescente tensione
internazionale, la capacità distruttiva e offensiva acquisita dal terrorismo
integralista di radice islamica. Inedita è fors'anche la disattenzione con cui
l'opinione pubblica occidentale pare seguire gli eventi bellici: quali ne siano
la legittimità e le motivazioni, occorre infatti dire che di guerra si tratta.
Le pagine dei giornali sono piene di cronache, mappe e descrizioni delle forze
in campo o delle polemiche politiche, ma mi pare non sia sufficientemente
raccontato il dramma umano, le sofferenze e le morti che la guerra, ogni guerra,
comporta. E questo nonostante il coraggio, sino al sacrificio della vita, con
cui i giornalisti seguono sul campo gli avvenimenti. Dopo la «guerra televisiva»
del Golfo, dopo i missili intelligenti e chirurgici nell'Iraq o nei Balcani, si
è fatto strada una sorta di apatia emotiva, di separazione asettica del fatto
militare dalle conseguenze che comporta. Ora la proposta del Pontefice ci
richiama, con lungimiranza, generosità e autorevolezza, a una riflessione
morale, ma credo anche politica. In mezzo al disquisire vuoto di troppi, il Papa
ci dice una cosa semplice: il dialogo tra popoli e religioni diverse costruisce
e garantisce «una pace stabile, fondata sulla giustizia». Verità semplice e
potente, proprio come l'amore. Che, se sapremo aprire le orecchie e i cuori, può
essere capace di frenare la corsa all'odio e di interrompere la catena di
montaggio della morte alla quale sembriamo rassegnati.
Che cosa la colpisce di più della proposta del Papa, l'idea in sé, la data
scelta, o il momento in cui viene lanciata?
La lettera apostolica "Novo millennio ineunte" del 6 gennaio scorso,
ricordando l'invito di Gesù a Simone a prendere il largo per la pesca, si
apriva e chiudeva con un invito a proseguire nella speranza Duc in altum!
Questa parola ci invita a fare memoria grata del passato, a vivere con passione
il presente, ad aprirci con fiducia al futuro: Gesù Cristo è lo stesso,
ieri, oggi e sempre!. Ora, mentre sul filo dell'orizzonte si scorgono non le
reti dei pescatori, ma le reti del terrorismo internazionale e le sagome di
portaerei e cannoniere, il primo anno del nuovo millennio sembra all'opposto
chiudersi all'insegna della disperazione, della sfiducia gli uni verso gli
altri, dello scontro terribile tra aree diverse e differenti riferimenti
religiosi, della strage dei fratelli nel cuore degli Usa quanto nella periferia
di Kabul. Fratelli e sorelle, gli uni e gli altri. Eppure, l'odierna proposta
del Papa mi sembra insista sul punto: Gesù Cristo è sempre lo stesso. Sono gli
uomini nel loro incurante egoismo, i governi nel loro realismo talvolta venato
di cinismo, gli integralismi che soffocano nel sangue le parole della fede,
siamo noi che non sappiamo riconoscerlo e accettarlo. Mi colpisce la coerenza
della testimonianza e delle parole di Giovanni Paolo II nel proporci speranza.
Senza speranza non c'è dialogo, senza dialogo non c'è futuro, pace stabile. Ma
il futuro e la pace sono bisogni insopprimibili dell'uomo.
Più che perdersi nei dettagli, il Papa sembra invitare i credenti ad andare
a fondo, alle radici della fede e all'imitazione di Cristo. Offrendo rispetto -
con la data scelta - alla fede altrui come all'avvento cristiano.
Costruire la pace vuol dire scegliere la giustizia, arrendersi alla sua
radicalità, riconoscersi per davvero in Gesù Cristo. Il rispetto per il
Ramadan e per la fede dei seguaci di Allah è messaggio di coerenza cristiana,
non di «cortesia» o semplice attenzione. L'Onu, che ha proclamato il 2001 «Anno
internazionale del dialogo fra le civiltà», può anche rimanere inerte di
fronte ad avvenimenti che invece vanno in direzione opposta. Ma chi crede in
Cristo e nell'uomo non può esimersi dall'accettazione senza riserve di suo
fratello, uomo o donna, quale che sia il colore della pelle, la lingua parlata o
la religione professata. Per «vivere con passione il presente», non solo nella
verticalità dei riferimenti di fede. Evitando di testimoniare per un giorno e
poi magari scordarcene per i rimanenti 364. Questo vale per il Natale, come per
il 14 dicembre o per il 24 gennaio, quando cristiani e musulmani pregheranno
assieme ad Assisi.
Ma lei che conosce le esperienze in campo, ritiene che siano tuttora
prevalenti i segni di speranza, di dialogo fra cristianesimo e islam?
Certo, quando l'odio acceca i cuori e il rumore delle bombe assorda le
coscienze, si apre un fossato che può sembrare invalicabile. Però,
riavvicinare i bordi della ferita diventa necessario e urgente, perché
l'infezione non diventi cancrena. Nessuno, da solo, può arrivare a tanto. Ma se
tutti assieme, cristiani e islamici, europei e africani, americani e asiatici,
riprendiamo i piccoli passi che portano all'incontro allora il ponte apparirà
come d'incanto, la ferita sarà sanata. I segni della speranza e della volontà
sono ancora forse rinserrati dentro i cuori. Bisogna costruire iniziative di
pace, perché gli spiragli si allarghino e i venti di guerra si smorzino, sino a
spegnersi.
Qual è l'islam che lei ha incontrato e che induce a sperare?
Ha il volto del povero, del senza casa, del carcerato, del senza diritti. Non
tutti se ne sono accorti, ma a margine e a causa degli attentati dell'11
settembre e del successivo clima di guerra, in tutto l'Occidente o quasi, Italia
compresa, si stanno approvando leggi di emergenza. Questo non produrrà grandi
difficoltà ai soldati di al Qaeda, ma ulteriore emarginazione per i tanti
immigrati, molti di fede musulmana, presenti nelle nostre strade, negli anfratti
della nostra società. L'eredità tremenda che gli attentati dell'11 settembre e
la guerra attuale lasceranno, temo a lungo, è la paura e la diffidenza verso
gli stranieri in generale e i musulmani in particolare. Di recente sono stato a
un convegno nel carcere di Padova: proprio lì, nelle celle, ho trovato i segni
della speranza e la voglia di dialogo tra detenuti italiani e arabi che
discutono e lavorano assieme nella redazione del giornale del penitenziario. La
speranza, molto spesso, è un dono che ci viene dagli ultimi, da quelli che
releghiamo ai margini, per pregiudizio. Ma a noi che ci accapigliamo nei
dibattiti televisivi seduti in comode poltrone, è significativo che parole di
pace arrivino proprio da chi vive sulla propria pelle la tragedia dell'odio, del
sangue o dell'emerginazione. Sono i segni della speranza che dobbiamo accogliere
e fare nostri.
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Angelo Picariello
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