“Ero in carcere e sei venuto a visitarmi”
Al di là delle sbarre
Rompere le catene dell'indifferenza

Al carcere delle Vallette di Torino, 28 luglio – 8 agosto
GIM Venegono

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Dai partecipanti al campo

Cosa siete venute a fare? di Nicoletta e Anna
Cosa vuole il Signore da te? di Emanuela
Al di là delle sbarre... di Giovanni
L'opportunità di essere in "Crisi"
Le Catechesi che hanno guidato la riflessione e la preghiera durante il campo

 

Veglia di Preghiera

 

COSA SIETE VENUTE A FARE?

 

L’ estate è sicuramente per molti tempo di vacanze, programmate ed attese dopo molte fatiche.

Ma essendo il tempo un dono ricevuto da Dio che va vissuto in pienezza, offrendolo gli uni agli altri noi abbiamo deciso di trascorrerlo nel servizio, insieme a chi vive in situazioni personali o sociali, fisiche o mentali di difficoltà, di disagio.

 

Allora le vacanze non sono diventate un semplice far niente, ma un KAIROS, un tempo opportuno e propizio per fare esperienze di solidarietà e di servizio; per lasciarsi provocare da persone, storie, vite; per leggere la propria vita con lo sguardo di Dio, nel mondo che ci circonda, tante volte non conosciuto a fondo.

Infatti ci siamo lasciate condurre, e mettere in discussione, da Giuseppe, figlio di Giacobbe, che nonostante sia stato gettato in una cisterna, venduto dai fratelli e imprigionato ingiustamente, è sempre rimasto fedele a Dio e, grazie al Suo Amore, è riuscito a perdonare chi gli aveva fatto del male.

E così, in questi 12 giorni a Torino precisamente nella Cooperativa Sociale Oltre di Rivoli, le nostre vite si sono incrociate con quelle di tanti Giuseppe.

 

Questa Cooperativa è nata come Centro di Ascolto con lo scopo di accogliere le persone in difficoltà, offrire ascolto e dialogo per chiarire la loro situazione e dare un aiuto immediato. Oggi offre diversi servizi come la distribuzione di vestiario e viveri, sostegno e collaborazione nella ricerca della casa e del lavoro. Inoltre all’interno della stessa c’è un laboratorio che dà l’opportunità di lavorare a chi ne ha bisogno e un Centro di Temporanea Accoglienza che, in attesa di una sistemazione stabile, permette di superare i momenti critici. Il suo motto molto significativo è “Oltre un passato difficile, verso un futuro migliore”.

Nel corso della nostra esperienza estiva abbiamo inoltre avuto la fortuna di sentire le testimonianze di tante persone che della loro professione né hanno fatto una vocazione.

Ad esempio due responsabili del Gruppo Abele, una che è a contatto con tossicodipendenti e l’altra con le prostitute, sono state le portavoce di questi ragazzi e ragazze che vivono nel buio, che soffrono, che si aggrappano a qualsiasi cosa che faccia loro stare meglio.

 

Abbiamo incontrato anche il cappellano del carcere il quale ci ha fatto comprendere come la vita in carcere non sia dignitosa e come il carcerato stesso si sente solamente un numero, senza personalità, inutile.

E Cottolengo? Eh sì, don Giuseppe Cottolengo che ha aperto le porte a quelle persone che avevano ormai visto solamente porte chiuse, a cui era stato negato ogni aiuto.

 

E infine, ma non di meno, abbiamo avuto l’occasione di far visita al Sermig (Servizio Missionario Giovani), l’ARSENALE DELLA PACE che si trova nell’ex arsenale militare, dove giovani e non solo sono al servizio dei poveri e della pace attraverso una rete di solidarietà sparsa in tutto il mondo. E’ stato molto toccante vedere questo luogo che da creatore di morte è divenuto creatore di Pace e che il forno con cui un tempo venivano fabbricate armi ora è un tabernacolo contenente l’Amore. All’ingresso una frase che lascia attoniti: “per entrare non bussare, è già aperto” … e poi un pezzo di muro fatto di mattoni rappresentanti i vari paesi coinvolti su cui è  scritto “la Bontà è disarmante”.

Molte delle persone incontrate, meravigliate della nostra semplice presenza ci chiedevano, “ma cosa siete venute a fare?” Noi rispondevamo: ad AMARE.

 

Nicoletta ed Anna

 

 

“COSA VUOLE IL SIGNORE DA TE?

 

Egli vuole che DOVUNQUE tu vada possa sentirsi il buon profumo di Cristo e che ti lasci scavare l’anima dalle lacrime dei poveri, di coloro che soffrono e INTERPRETI L VITA COME DONO …”

Con queste parole di don Tonino Bello si è concluso lo scorso giugno l’ultimo incontro GIM e quale provocazione migliore di questa avrebbe potuto spingerci a OSARE veramente il FUTURO nelle esperienze indimenticabili dei CAMPI ESTIVI?

 

E così sono arrivata a Torino. Ad essere sincera prima di partire ero piena di dubbi. Sapevo che non saremo più andati a conoscere e condividere la realtà delle carceri, ma ignoravo cosa avrei fatto in quei 12 giorni di campo. Nonostante tutto c’era quel DOVUNQUE di don Tonino che mi spronava ad impegnarmi per portare con me l’infinitesima parte del profumo di Cristo da donare a chi il Gran Capo aveva scelto do porre sulla mia strada.

 

E con questo spirito eccomi assegnata al Centro S. Mauro, una comunità del Gruppo Abele che accoglie per circa due anni madri  tossicodipendenti e spesso anche sieropositive, con i loro figli, nella speranza di allontanare le donne dalla dipendenza e renderle capaci di una buona relazione madre-figlio.

… Dopo la prima mattinata in cui ci siamo un po’ ambientati, eccoci “bambini tra i bambini”, forse un po’ troppo cresciuti, lo ammettiamo, ma con tanta voglia di giocare e far giocare.

Ci siamo subito accorti infatti, che i nostri simpatici amici desideravano da noi solo lo stare con loro, con una presenza capace di offrire mille attenzioni, mille sorrisi, e in questo modo ci hanno insegnato che molte volte, non è importante quante cose sappiamo fare, ma ciò che più conta, è come lo facciamo, come ci poniamo nelle relazioni …

 

Ma la Comunità di S. Mauro, un vero dono per me, Anna, Annalisa e Christian (che hanno condiviso con me questa esperienza) , aveva in serbo ulteriori sorprese per ciascuno di noi: storie di prostituzione, aborti, violenze e uso di droghe. E così, nel bel mezzo di una mattinata d’agosto, mi sono ritrovata a chiacchierare con un’ex prostituta, meravigliata che ragazze “normali” (come ci ha definito lei), e non suore, facessero volontariato… Non avrei mai immaginato di parlare di aborto, fede, preghiera, gratuità, con una donna forse se non attratta, ma per lo meno incuriosita da questo altro modo di vivere e di vedere la vita, totalmente diverso dal suo, ancora molto legato al triste passato che purtroppo ha ripercussioni negative anche nel rapporto con la figlia.

… Non avrei mai pensato di partire da Torino per lasciarmi mettere in gioco da questa mamma ancora così lontana dal concetto che solitamente si ha di una “mamma”, ma penso che attraverso questo incontro il Signore mi ha gridato: “Ema, ti decidi o no a rompere queste catene dell’indifferenza che ti impediscono di incontrare veramente l’altro come persona, senza dare troppa importanza agli errori più o meno gravi che si possono commettere?”.

Così, “costretta”, ho risposto … senza fere nulla di speciale, ma semplicemente stando a S. Mauro con tutta me stessa.

 

… E penso che attraverso la mia esperienza, la presenza di Christian, di Anna, di Annalisa e di tutti coloro che quest’estate hanno OSATO il loro FUTURO il Signore abbia voluto concretizzare le parole di don Tonino: “… IL MONDO, ANCHE QUELLO IN DIFFICOLTÀ, SI ACCORGERÀ CHE SU QUESTA NOSTRA POVERA TERRA IL ROSSO DI SERA NON SI È ANCORA SCOLORITO”.

E con questa certezza continuiamo a camminare nella speranza di poterci unire a p. Lele dicendo: “CON L’INVERNO VADO CREANDO PRIMAVERA”. Quindi non mi resta che augurare a tutti una buona “primavera di PACE”, camminando con gli ultimi sulle strade degli ultimi.

 

Emanuela

 

 

Al di là delle sbarre

 

"Al di là delle sbarre” è stato lo slogan del campo di lavoro di Torino che si è svolto dal 28 luglio all’8 agosto. Le sbarre in questione, nella mente di chi ha pensato e organizzato il campo, avrebbero dovuto essere quelle del carcere delle Vallette, nel quale noi che abbiamo partecipato avremmo dovuto entrare, per conoscerne la realtà e gli abitanti. Dico avrebbero perché in realtà nel carcere nessuno di noi è potuto entrarci per cause di forza maggiore. E’ stato quindi necessario andare in cerca di altre “sbarre” da oltrepassare per non rinunciare del tutto a questa esperienza di incontro con realtà emarginate, escluse e spesso ritenute inutili se non pericolose dalla società civile. La complessa e intricata situazione di una grande città come Torino e dei suoi dintorni non hanno reso questa ricerca vana: tossicodipendenti, anziani, ragazze madri, persone in difficoltà per i motivi più diversi sono stati i protagonisti dei nostri incontri in questi dieci giorni veramente intensi.

La mia esperienza riguarda l’attività con gli anziani della Residenza Assistenziale Flessibile di via Querro a Rivoli, periferia di Torino. Assieme a Michela e Stefania mi è stato proposto, tramite la cooperativa Oltre, che si occupa di vari servizi di tipo sociale a Rivoli, di trascorrere le mattinate del nostro campo come “animatori” con gli ospiti della RAF. Questa è una struttura di recente costruzione, dall’aspetto molto caldo e accogliente; ospita anziani non autosufficienti e disabili medio-gravi, sistemati in due parti distinte della Residenza.

La prima mattina che ci siamo recati lì per conoscere quale avrebbe dovuto essere il nostro compito, abbiamo incontrato Cristina, la giovane psicologa della Residenza. Dopo le presentazioni di rito e una rapida presentazione della struttura, la prima raccomandazione che ci è stata rivolta è stata di rivolgersi sempre con il “lei” agli ospiti, in modo da portare sempre il massimo rispetto e non cadere in banali atteggiamenti di sufficienza mascherati da compassione. Sebbene con gravi difficoltà di comunicazione e di movimento, avremmo comunque avuto davanti delle persone con un’età superiore alla nostra, e quindi era giusto mantenere verso di loro il  rispetto che si conviene comunemente con delle persone più mature.

 

Queste parole mi hanno, perché mi hanno fatto riconsiderare l’idea che mi ero creato su quel luogo: non un posto nel quale relegare persone che ormai fuori non possono più vivere, bensì un luogo nel quale queste persone vengano aiutate a mantenere quella dignità che gli spetta nonostante l’età e le condizioni psico-fisiche.

A noi fu chiesto di trascorrere la mattina facendo compagnia agli ospiti; in particolare ci furono affidati Aldo e Carla, una coppia di sposi, e Rocco. Questo perché si trattava di ospiti non ancora ben inseriti nei ritmi della vita alla RAF e perciò più bisognosi di qualcuno che stesse con loro. Da subito, però, molti altri ospiti si sono uniti a noi.

 

Non nascondo che i momenti in cui mi sono trovato in imbarazzo sono stati molti: la comunicazione era difficile e i momenti di silenzio frequenti. Tuttavia, col passare dei giorni, mi sono potuto accorgere che stava nascendo un rapporto di amicizia e di fiducia. Aiutandoci anche con il canto e la musica, un po’ alla volta si è andata stabilendo un’intesa che andava oltre le “sbarre” della mancanza di comunicazione orale, dell’handicap fisico o della differenza d’età. Così al mattino il nostro arrivo era atteso e festeggiato, mentre non potevamo andarcene se prima non avevamo dato sufficienti assicurazioni che il giorno seguente saremmo ritornati.

Ciò che più mi ha stupito è il fatto che, in fondo, noi abbiamo fatto veramente poco per loro, considerando anche tutto ciò che invece fa il personale della Residenza. Tuttavia ho proprio l’impressione che quel “poco” che noi abbiamo potuto offrire, qualche ora in compagnia, due parole scambiate, un paio di canzoni con la chitarra, una passeggiata in paese, fosse proprio ciò di cui essi avevano bisogno, al di là dell’assistenza fisica che, purtroppo anche se necessariamente, a volte non comporta anche un’assistenza emotiva.

 

A livello personale, questa esperienza mi ha fatto riflettere su come spesso consideriamo gli anziani: essi, tra i vari “piccoli” della nostra società, sono forse i più piccoli. Da loro, infatti, non ci si può più aspettare granché, sono alla fine della loro avventura, per qualcuno poi sono solo un peso. Inoltre un rapporto con una persona anziana, per di più invalida o con disturbi mentali, richiede enorme pazienza e disponibilità ad accettare anche l’insuccesso o il rifiuto. Sono questi dunque gli atteggiamenti che più di tutti ho sperimentato in quei giorni.

Credo inoltre di aver capito un po’ meglio cosa voglia effettivamente dire “amare il proprio prossimo”: non significa compiere gesti clamorosi, bensì avere l’umiltà di stare da Persona insieme a delle Persone, al di là di quelle barriere esteriori che spesso ci portano a presumere di essere su piani diversi. E questo nella consapevolezza che ciò che secondo noi ci rende più fortunati di altri, impallidisce davanti alla vera fortuna di ogni uomo, l’amore che il Padre ci dona perché ci sentiamo tutti veramente fratelli.

 

 

L'opportunità di essere in "Crisi"

 

“CRISI” è una parola forte, carica molto spesso di negatività e di mancanza di prospettive. È la crisi che ti porta sull’orlo dell’abisso, che ti fa vagare nel buio senza che all’orizzonte si intraveda alcun bagliore. Ma nello stesso tempo è la stessa Crisi che ti espone al cambiamento, che ti può permettere di ritornare alla Vita, là dove la luce del Sole brilla più forte e riscalda un’esistenza che stava per spegnersi.

“Centro Crisi1” incarna questa duplice dimensione. È una struttura di prima accoglienza, del Gruppo Abele di Torino, per i tossicodipendenti che arrivano dalla strada… appunto persone in piena crisi.

 

Persone che non ce la fanno più, annientate dalla droga e stufe di avere come compagni di sopravvivenza espedienti, delinquenza e soprattutto tanta, tanta sofferenza. Il centro Crisi diventa l’inizio di un possibile quanto tortuoso cammino verso la comunità, verso quella tanto famosa “uscita dal tunnel” che però -ingiustamente- ben pochi hanno visto.

 

Qui i ragazzi/e arrivano con dosi massicce di metadone a mantenimento, che invece di ridurre il danno provocato dalle sostanze lo aggrava. Questa sostanza sintetica, oppiacea distrugge più dell’eroina: cronicizza la condizione di disagio e toglie al soggetto le capacità recettive, riflessive, ideative e volitive. Crea degli “zombie”. E il primo passo è proprio la terapia a scalare del metadone, finalizzata all’avvio di un programma socio-riabilitativo.

 

Ma è solo incontrando le Persone, le loro storie, i loro desideri e le loro emozioni che si può comprendere un fenomeno assurdo come quello della droga. È solo mettendo in gioco e smentendo le proprie “pre-comprensioni”, spesso veri e propri pregiudizi, nei confronti di questi esclusi della società che si può cercare di dare loro una via di salvezza.

E allora scopri che ogni volto non è la colpa che ha commesso, le scelte sbagliate che può aver fatto ma un’umanità che ha solo una gran voglia di tornare a vivere.

Ernesto, un utente del centro, ci ha accolto con queste parole: “Cosa siete venuti a fare? Non mi va che siate qui, se volete vedere gli ‘animali’ potete andare allo zoo”. Al momento mi sono sentito un reietto, ho provato una rabbia immensa e un senso di nullità. Grazie Ernesto! Perché mi hai spalancato il cuore, perché mi hai messo alla prova, perché mi hai permesso di far parte per dieci giorni della tua vita. Da quel momento ho capito che “l’esperienza droga” non è la causa iniziale di un disagio, ma l’espressione finale di uno stato di profondo malessere esistenziale. Ed è stato stupendo ritrovarsi due giorni dopo questa sincera accoglienza a parlare con Ernesto, a condividere insieme il suo dolore ma anche le sue speranze e il suo impegno nel tentativo di cambiare; nel contempo anche lui ha saputo ascoltare i mie giovani sogni, le mie motivazioni e mi ha dimostrato quanta sensibilità necessita la Vita altrui.

 

La realtà della tossicodipendenza è disarmante tocca moltissimi giovani, senza risparmiare nessuno. Si va dal ragazzo abbandonato a se stesso, al padre di famiglia, alla ragazza laureata in medicina e catechista che decide di farsi un’overdose e farla finita.

Noi però, società che esclude, togliamo loro ogni giorno un pezzo della legittima possibilità di rivincita che hanno diritto ad avere. Escludiamo, rinchiudiamo, etichettiamo… priviamo la vita altrui.

Sono i ragazzi della Crisi che ti trasmettono la logica del Vangelo, che ti fanno vedere quel Dio crocifisso che è anche il Dio della Vita.

Ed è stata una donnina minuta, all’apparenza fragile, un esempio concreto di una vita cristiana vissuta in pienezza. Margherita, questo è il suo nome, insieme a don Ciotti vive ancora appieno l’ideale della “missione in strada” che ha caratterizzato il gruppo Abele fin dal suo inizio. In lei il messaggio profetico del Vangelo si è fatto scelta di vita radicale. Una donna dalla fede e dalla personalità immense, che non ha paura di stare fuori dal pensiero comune per rimanere nella minoranza con uno sguardo critico ma sempre aperto all’incontro e alla condivisione. Come diceva don Milani “Bisogna far strada ai poveri senza farsi strada ” e Margherita c’è sempre per tutte le persone che a lei chiedono di non essere lasciate sole. Lavora ogni giorno in silenzio, con dedizione e passione, voglia ed entusiasmo ma non nel silenzio poiché si fa anche voce dei bisognosi e dei desideri di queste persone, denunciando queste estreme situazioni di sofferenza ed essendo una presenza scomoda.

Questi incontri sono testimonianze di Dio e, trasmettono un grande insegnamento che sta andando perduto in mezzo a troppa superficialità: la Persona è relazione, attenzione, cura, amore, reciprocità, dono; ciò non significa altro che farsi prossimo, sentirsi mossi a com-passione.

 

Abbiamo bisogno di far ritorno all’Umano, al cuore dell’Essere vivente.

In fondo solo Dio è Onnipotente, noi siamo solamente un’Opportunità. Quindi non si tratta di salvare nessuno ma solo di concedere un’Opportunità di vita – che è poi un’Opportunità d’Amore. I ragazzi del centro Crisi e quelli ancora nascosti nei meandri di una società lontana dalla persona si salveranno da soli se vorranno ma noi dobbiamo concedere loro questa Opportunità, riducendo un danno irreparabile: la morte. Non basta vivere per se stessi ma occorre che ogni vita abbia la possibilità di vivere.

 

Ci siamo talmente abituati alla debole luce delle lampadine che non siamo più in grado di reggere la bellezza della luce del Sole; rischiamo, se non lo siamo già,  di diventare “dipendenti” del troppo benessere e disinteresse, lasciando che su tutto si depositi uno strato di noia e di 'fatica di vivere' per cui l' oggi e il domani sembrano senza prospettive...sempre uguali a se stessi. I filosofi esistenzialisti hanno descritto benissimo questo stato d'animo: l' inaridimento del cuore e del desiderio. Questa nostra ‘dipendenza’ non ci permetterà di avere mani pronte a sporcarsi, occhi per vedere e orecchie per ascoltare chi sta lanciando l'ultimo, tragico grido di vita e di desiderio di vivere.

 

Dobbiamo continuare a credere e a lottare per far riemergere le potenzialità presenti in ogni uomo. Diamo ogni giorno il nostro Sì alla Vita, all’appello della speranza e della dignità e anche la vita dei ragazzi del centro Crisi verrà recuperata con la vita.

 

KARIBU