Una voce in città

articolo di Stefano Tassinari

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Una voce in città

 

Profezia è saper vedere ed essere ciò che, dell’oggi, mi parla dell’eterno.

Non so chi l’ha detto e non so neppure se, come definizione, abbia una qualche dignità; prendetela pure, se volete, come una frase buttata giù alla svelta, e che lasci, se vi piace, il tempo che trova: personalmente vorrei partire da queste poche parole per comunicarvi alcune impressioni e pensieri riguardo alla giornata conclusiva della carovana della pace, a Bologna, il 15 settembre.

Sento il bisogno di accostare la parola “Profezia” accanto a quello che è stato chiamato “Giubileo degli oppressi”, sia perché le origini bibliche degli eventi giubilari hanno una fortissima valenza profetica, sia perché, di quella giornata, ho percepito nella profezia la sua forza più profonda. In queste mie sensazioni un ruolo estremamente importante lo ha giocato il fatto che l’evento si sia svolto proprio a Bologna, la “mia” città e la “mia” Chiesa. Vediamo dunque !

Profezia è, anzitutto, saper vedere, cioè avere gli occhi aperti e accorgersi come all’interno della storia, vi sia un tessuto molto solido, per lo più invisibile, che tuttavia in alcuni tratti si lascia scorgere, e che si fa portavoce della promessa di Dio. Il pericolo, a volte, oggi più che mai incalzante, è quello di guardare la storia e trovarsi davanti ad un piatto nulla, incapaci di scoprire la trama che regge tutto. E’ un pericolo subdolo, che potrebbe tradursi con “morte della speranza” e che noi cristiani corriamo con troppa facilità o, forse, prendiamo sottogamba e teniamo in poco conto. Credo che per la Chiesa bolognese l’arrivo della carovana della pace sia stata l’occasione per aprire una finestra: certamente una finestra sul mondo, in tutte le sue fatiche, sofferenze e peccati, ma pure una finestra sulle speranze enormi, che essa ha in sé, di potersi rinnovare e di poter indicare strade nuove laddove le vecchie, impossibili da riparare, corrono il rischio di non essere più percorribili e di far impazzire il pellegrino che, stanco, si ritrova sempre al punto da cui poco prima era partito. Ecco la profezia: vedere la novità di Dio.

Poi profezia è anche essere la novità di Dio; sì perché non basta rendersi conto dell’azione di Dio nella storia, mettersi su un sagrato (o su un altare !) e dire agli altri cosa fare e come farlo; questo lo abbiamo già fatto per troppo tempo e siamo diventati dei maestri in quest’arte. Dimentichiamo con una facilità inverosimile quel meraviglioso passo compiuto da Dio quando, dopo aver visto la miseria del suo popolo schiavo in Egitto, dopo aver udito il suo grido, si fa liberatore in Mosè, e quando, nella pienezza dei tempi, compie quella follia dell’incarnazione di cui, oggi, anche noi cristiani sappiamo solo scandalizzarci perché decidere di assumerla ci costa troppa responsabilità.

Anche in questo la Chiesa di Bologna ha sperimentato con il Giubileo degli oppressi, la profezia del Vangelo: in una giornata che ha voluto essere voce di coloro che non hanno voce, in un popolo che ha voluto incarnarsi in uno spasmodico grido di pace e farsi possibilità viva di quella che sulla carta sembra essere la più folle utopia. Ecco la profezia: osare l’incarnazione.

Il commento più bello che mi è stato fatto riguardo agli eventi di quel 15 settembre, l’ho ricevuto da un mio amico prete il quale, il giorno seguente, mi ha fermato dicendomi: “Steppa ho bisogno !”, e alla mia domanda su cosa potessi fare per lui, mi ha risposto: “No, ho bisogno, bisogno di capire da dove cominciare a cambiare le cose, per me e per gli altri con cui ho a che fare”.

Questo mi pare sia stato il Giubileo per la Chiesa di Bologna: il bisogno di essere uomini, e uomini nuovi.

Credete che sia troppo vedere tutto questo nella giornata del 15 settembre ? Non so, datevi seriamente la vostra risposta; personalmente se rispondessi affermativamente a questa domanda, sentirei di aver già tradito la speranza, e con essa di aver ucciso la profezia.  Crediamoci !

Stefano