Rompere le catene del razzismo e della xenofobia:
l'esperienza di Tringa
di Enrico

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ORMEGIOVANI GIM ATTIVITA' E CAMPI

 

Castello di Elmina, Ghana. Il chiasso dei bambini che giocano sulla spiaggia e le urla del vicino mercato non penetrano il silenzio spettrale di quel luogo. Nelle fetide pareti di quelle stanze vivono ancora le anime di più di 100.000 valorosi Ashanti, rapiti dalla loro terra, trasformati in bestiame ed imbarcati verso il “nostro” nuovo mondo. In quella “porta del non ritorno” c’e tutto un continente, stuprato tante volte quanti sono gli anni dalla sua scoperta.

Quel forte, così ben conservato, ora è patrimonio dell’Unesco, ed è meta di pellegrinaggio per molti americani in cerca delle loro origini e per qualche ghanese benestante. La guida è ghanese e, nonostante ripeta ogni giorno la stessa filastrocca, non è difficile notare la rabbia con cui spiega dettagliatamente cosa dovevano sopportare i padri dei suoi padri.

Come è potuto succedere? Come ha potuto perpetrarsi per più di tre secoli, senza che nessuno alzasse un dito, una pazzia collettiva di queste dimensioni?

E allora si inizia a pensare che quei carnefici, in fondo, appartenevano a generazioni che poco c’entrano con la nostra e comunque riconducibili ad un passato “barbaro” in cui la vita di una persona valeva davvero poco.

Ma un ragazzo occidentale di allora era al corrente di ciò che accadeva? Delle mostruosità dei viaggi nelle navi negriere?  Come poteva non indignarsi di fronte all’ attracco di un “cargo umano” in quelle condizioni, nel porto della sua città, magari dopo aver ascoltato una messa cantata ?

 

Anche allora SERVIVANO BRACCIA per gli sterminati latifondi americani E NON PERSONE.

Anche allora, quando questo “sistema produttivo occidentale” era in voga, le flotte con bandiera imperiale esercitavano un controllo sulle navi negriere, che sebbene fossero funzionali enormemente alla coltivazione del cotone americano, come oggi a quella dei pomodori del Meridione o alle concerie del Vicentino, non rispettavano i diritti umani. Quindi i negrieri, avvistata la bandiera di sua maestà, si disfacevano del carico illegale senza lasciare traccia.

Anche allora, in “carrette del mare” ed in condizioni igieniche spaventose, donne stremate partoriscono assistite da una moltitudine di occhi indiscreti.

Anche allora, persone senza scrupolo si arricchivano col trasporto del bestiame umano.

Anche OGGI, tutto questo è accolto con la stessa maledetta indifferenza.

 

E così, fatta eccezione per qualche islamico pazzo sudanese, lo schiavismo lo si crede morto e sepolto; un punto di partenza incoraggiante per quest’alba di millennio.

Ma il mondo è ancora malato, soffre ancora degli stessi sintomi. Si nega che il virus sia quello, ma allo stesso tempo si adotta la stessa terapia.

Ciò che si nega, o peggio si trascura, è che stipati dentro le “carrette del mare” di oggi, ci sono persone COSTRETTE a partire, che lasciano situazioni invivibili, e che peraltro garantiscono il nostro benessere.

Sono il sasso su cui il nostro “mulino bianco” può incepparsi e smettere di portare acqua da una parte sola. Sono una minaccia: alla sicurezza delle nostre città, al nostro posto di lavoro, alla tranquillità delle chiacchiere domenicali fuori dalla chiesa, alla catalessi nelle soste ai semafori, alla fedeltà coniugale, alla crescita dei nostri figli.

I giornali capiscono l’antifona e trasformano questa diffidenza quasi fisiologica in una perversa operazione di marketing in cui queste persone perdono il proprio nome e la propria storia per diventare in prima pagina “un albanese, una nigeriana, un marocchino, una moldava” fuorilegge. Questa linea scandalistica adottata da molti giornali locali (i più letti) soddisfa pienamente la nostra morbosa curiosità e la nostre spontanee semplificazioni e (nella più rosea delle ipotesi) purtroppo plasma il nostro pensiero  civico e politico.

Ogni volta che Tringa invece, legge quei titoloni sugli “albanesi”, s’indigna e…s’incazza. Lei è arrivata dall’Albania quasi dieci anni fa perché lì, non ci poteva più stare. E’ albanese, conosce l’Albania e soprattutto ama l’Albania.

E continua ad amarla e a sognarla migliore anche da qui, dalla “terra promessa”

da televisioni bugiarde.

Come  i nostri “maccaroni” americani degli anni ’20, gli emigrati  di oggi sopravvivono tra diffidenza e precarietà. E come loro si cercano, si uniscono, riscoprendo  l’amore per la loro terra e per radici comuni che forse pensavano di non avere.

Tringa sente l’esigenza di organizzare una volta all’anno la festa Albanese, uno dei momenti più importanti per questa gente.

Ora conosce bene anche l’Italia e gli italiani…..“relativamente” brava gente. 

La percezione che si ha, ascoltando le sue parole, è di avere di fronte una persona in prima linea, che si scontra tutti i giorni contro la diffidenza e l’ignoranza italiana e la difficoltà di coinvolgimento degli albanesi, immersi completamente nel problema della sopravvivenza quotidiana.

Nessuno più di lei può capire l’ingiustizia del disegno di legge Bossi-Fini……perché grazie alla sua fede e alla sua lunga esperienza da “extracomunitaria” Tringa è riuscita a crearsi una coscienza civile e politica che non può che arricchire un contesto come il nostro, così arido di sostanza e così sazio di parole.