torna alla pagina Osservatorio sull'informazione

 

 

INFORMAZIONE:

 MILLE FINESTRE SU SQUARCI DI REALTÀ

 

Corso di laurea in Relazioni Pubbliche

 Approfondimento per il corso di Sociologia della Comunicazione

Prof.ssa A. Pocecco - a.a. 2001/02

 Studenti: Berardo Federica, Ceccato Marilena, Spada Antonella                              

 

PREMESSA

 

Claudio Fracassi paragona l’informazione a una finestra aperta che ci da un’inquadratura, una prospettiva particolare e forse distorta. Il fatto che l’informazione sia parziale non significa che sia per natura imprecisa o approssimativa, anzi permette di mettere a fuoco particolari ed elementi che nel flusso della realtà possono addirittura non apparire .

Essendo una finestra può essere aperta e chiusa a comando senza troppe spiegazioni. E’ per questo che talvolta notizie che nascono tumultuosamente muoiono ancor più rapidamente senza lasciar traccia. Hoagland dice che “il giornalismo è la sola forma narrativa in cui è possibile omettere la fine” . Capita infatti di essere bombardati di notizie su un certo argomento e poi da un giorno all’altro non se ne sente parlare più, quasi come se quell’evento, che per giorni ci aveva tormentato, si fosse dissolto in un battibaleno  

L’informazione ha una struttura a singhiozzo. “In un mondo sempre più  in  preda alle convulsioni delle guerre, delle contrapposizioni etniche e religiose, degli esodi forzati, i riflettori dell’informazione sembrano accendersi a casaccio su questo o quell’angolo del pianeta che subito scompare.

Per una settimana ci arrivano le notizie sulla guerra in Cecenia. Poi le notizie scompaiono. La guerra no, quella continua, con il suo corollario di morti e di massacri. Ma se la finestra è chiusa, se il riflettore non è acceso, esiste ancora la Cecenia?…” (C.Fracassi)

Ad aprire e chiudere le finestre sono sia i processi di formazione delle notizie, nella maggior parte dei casi, che sono lunghi e complessi per cui le distorsioni sono involontarie e inevitabili, sia i fabbricanti di eventi che modificano la realtà o ne inventano per far notizia, per apparire sui mezzi, o per altri scopi più biechi e discutibili.

 

 

COS’ È UNA NOTIZIA

 

La notizia è innanzitutto “una costruzione umana, un prodotto culturalmente determinato” (C.Fracassi), ma tecnicamente parlando una notizia è “ un rapporto per un pubblico su un avvenimento”. Gli elementi fondanti sono quindi il pubblico, troppo spesso sottovalutato nonostante sia la ragione dello scrivere e l’evento, che diventa notizia solo se da origine a una notizia, cioè se appare sui media, e produce informazione. Un avvenimento diventa notizia, è cioè notiziabile se risponde a diversi criteri di cui diremo in seguito.

Una notizia può essere classificata in modo diverso a seconda degli autori, per esempio Violette Martin distingue in fabulative e dimostrative, mentre Mc Quail in “hard news”, i fatti, “soft news”, cioè le notizie di secondo piano o senza connotazione temporale, “spot news”, cioè fatti nuovi, “notizie in corso di svolgimento”, “notizie in serie continua”.

In base a un criterio temporale Mc Quail classifica le notizie in :

programmate: fatti in agenda la cui copertura può essere programmata;

non programmate: fatti che avvengono inaspettatamente e devono essere immediatamente divulgati;

non soggetti a rigida programmazione: sono le “soft news”  e possono essere immagazzinate e    diffuse in seguito in base alle esigenze e alle necessità dell’organizzazione.

 

 

CRITERI DI NOTIZIABILITÀ

 

Mario Lenzi aveva scritto per  i redattori dei giornali locali del gruppo Caracciolo un manualetto pratico in cui  elenca le sette caratteristiche in base alle quali un fatto diventa notizia.

1-La sua carica di novità e la sua singolarità anche in relazione al tipo di pubblico a cui il giornale si rivolge.

2-L’importanza pratica che un fatto assume per la vita della  gente. Per esempio il rincaro dei prezzi, lo scoppio di un epidemia…

3-Le possibili conseguenze sulla vita quotidiana e sugli interessi di ciascuno

4-La vicinanza fisica o semplicemente psicologica

5-La possibilità di far leva sulle emozioni e di creare un senso di attesa

6- Lo sviluppo che un avvenimento promette

7-Il carattere di esclusiva.

 

Fabrizio Fornezza, un giovane studioso italiano, ha individuato due grandi classi di notiziabilità:

·         La notiziabilità “ politica”: sotto due aspetti:

 a- il primo è che fa notizia ciò che  è funzionale alle esigenze riproduttive del sistema socio-economico a cui appartiene il mass media, cioè gli eventi conformi alla linea politica del giornale o compatibile con essa.

b- Il secondo aspetto riguarda la “linea” del giornale, decisa dalla proprietà e “controllata” dalla direzione che avendo maggiori “simpatie” e attenzioni verso certi temi o aree politico- economiche, ne favorisce la notiziabilità.

A questo riguardo Warren Bread  afferma che nelle moderne democrazie occidentali simpatizzare per una parte politica non comporta prevaricazione, piuttosto omissioni, selezione differenziale e piazzamento preferenziale.

 

·         La notiziabilità- tecnico professionale: un evento avrà più possibilità di diventare notizia quanti più dei seguenti criteri soddisferà:

-         svolgersi in sintonia coi tempi del quotidiano;

-         superare una certa soglia, diventare cioè un “evento primato”;

-          avere bassa ambiguità di interpretazione. Infatti più un evento è complesso più minori saranno le sue possibilità di diventare notizia senza subire mutilazioni e “semplificazioni”;

-          l’essere signicativo, provenire cioè dallo stesso contesto culturale del giornalista e del pubblico o comunque da contesti ad essi vicini. E’ una forma di etnocentrismo culturale.

-          corrispondere alle attese del pubblico;

-          l’essere inatteso. Questo criterio potrebbe sembrare una contraddizione degli altri due, mentre ne è solo un correttivo: tra tutti gli aventi significativi e che rispondono alle aspettative diverranno notizia quelli più inattesi e/o rari;

-          grazie a questi criteri l’evento, diventato notizia acquista una certa famigliarità col pubblico e col giornalista che ne facilita una successiva selezione;

-          quanto più un evento sarà stato selezionato come notizia, tanto più in seguito se ne sceglierà una diverso in modo da ottenere un prodotto informatico, equilibrato, bilanciato,  appetibile a un pubblico eterogeneo;

-          provenire da una nazione élite;

-          riguardare persone d’élite;

-          “quanto più un evento può essere visto in termini personali, come dovuto all’azione di individui specifici, tanto più diventerà notizia”;

-          avere conseguenze molto negative;

-          avere possibilità di diventare “emozionane”, di avere cioè una carica drammatica, azione o conflitto;

-          provenire da fonti attendibili;

-          avere esclusività dell’organizzazione giornalistica;

-          essere economico nella raccolta e nell’elaborazione delle informazioni riguardanti l’evento. Un evento costoso riceverà copertura solo se molto importante;

-          avere  immagini fotografiche. Per la selezione di queste valgono gli stessi criteri delle notizie, più altri più tipici (valore estetico della foto, formato…).

 

 

 

 

 

Criteri di Wolf analizzati da Michele Sorice e integrati con un volume di Alberto Pupazzi

 

Criteri strutturali, relativi cioè al contenuto:

 

-         Grado e livello degli attori coinvolti e il loro prestigio sociale

-          Impatto sulla nazione e sull’interesse nazionale

-          Impatto internazionale; sviluppo di un idea condivisa di progresso per cui esiste anche una scalea di valore per le notizie scientifiche.

-         Vicinanza

-          Quantità di persone coinvolte (legge di mc Lurg)

-          Conflittualità , presentata anche se spesso inesistente o latente

-         Rilevanza e significatività dell’evento rispetto a sviluppi futuri

 

Criteri relativi al prodotto giornalistico

 

-          Brevità specie per il giornalismo radiotelevisivo

-          Novità, per i lettori

-          Attualità, per le redazioni

-          Ritmo: i mezzi prediligono i mezzi che si adattano al loro ritmo

-          Completezza o qualità della storia

-          Chiarezza del linguaggio

-          Standard tecnici :una notizia ha tante più possibilità di diventare notizia quanto più si adatta al agli standard tecnici  del mezzo

-          Comunicabilità cioè la semplicità nella trasmissione e interpretazione di un evento.

 

Criteri relativi al mezzo

 

-         Qualità del materiale filmato e delle immagini, se è buona favorisce la notiziabilità, se è    pessima avvalora la drammaticità della situazione

-          Frequenza dell’avvenimento simile alla frequenza del mezzo

-          Formato, cioè la loro struttura narrativa

 

Criteri relativi al pubblico

 

-         Identificazione nella notizia e non è semplice dato che di solito gli apparati informativi non conoscono la loro utenza

-         Servizio cioè incremento delle condizioni fattive degli individui

-         Conseguenze pratiche nella vita quotidiana.

-         No eccesso di informatività: deve esserci un bilanciamento tra elementi nuovi ed elementi già conosciuti in modo che i fruitori li interpretino correttamente.

 

Criteri relativi alla concorrenza

 

Molte notizie possono essere selezionate solo in previsione che altre testate faranno lo stesso oppure selezionate nei loro dettagli anche più insignificanti per produrre differenziazione in un prodotto omogeneizzato dagli stessi meccanismi del sistema informativo

La competizione può contribuire  a stabilire parametri professionali ,e modelli di riferimento. In America per esempio  il New York Times  è trattato come il prototipo degli standard professionali.

Questi criteri non sono definitivi, sono frutto della ricerca fino a questo momento. I valori notizia sono valutati nei loro rapporti reciproci, in connessione gli uni gli altri e non presi singolarmente o isolatamente.

 

 

FONTI

 

Per fonti si intendono tutte quelle persone che il giornalista osserva o intervista e quelle che forniscono solo le informazione di base o gli spunti per una notizia.

Le fonti possono essere primarie ( sono l’insieme degli accadimenti) e intermedie: sono le agenzie di stampa, le istituzioni che selezionano e codificano la notizia mettendola poi a disposizione degli apparati della comunicazione di massa. Permettono una produzione d’informazione ricca veloce ed economica.

Ci sono diversi tipi di fonte e il giornalista impara col tempo a conoscerle a trovarle a controllarle, a farle parlare, a interpretarle. Il lettore invece spesso non le conosce ed è questo un punto di debolezza.

Un tempo i giornalisti dovevano trovare le fonti e costringerle a parlare. Poi le fonti hanno imparato che ai giornalisti non importano tanto i fatti quanto più le notizie e quindi per modificare o nascondere i primi era necessario produrre direttamente le seconde . E’ questo uno dei motivi per cui  negli ultimi tempi c’è stato un  grande aumento delle fonti, di uffici stampa .

Attualmente tra fonte e giornalista c’è un complesso rapporto di complicità-conflitto: il giornalista cercherà di accattivarsi la fonte citandola positivamente o rispettando la sua richiesta di riservatezza, e in cambio otterrà delucidazioni, spiegazioni non ufficiali, vere e proprie notizie. 

La fonte da parte sua cercherà di orientare il lavoro del giornalista per trarne vantaggio. E’ stato scritto anche che il rapporto fonte-giornalista è come una danza, guidata di solito dalle fonti.

 

Criteri che fanno scegliere una certa fonte sono la convenienza mostrata in precedenza, cioè se le fonti hanno fornito materiale attendibile potrà essere scelta ancora fino a diventare stabile; la produttività, cioè la ricchezza del materiale messo a disposizione; l’affidabilità, cioè la credibilità dell’informazione; l’autorevolezza, cioè a parità di altre condizioni si preferiscono fonti ufficiali e l’attendibilità, cioè l’esigenza di controlli minimi.

 

Dice la Maffai che coll’aumento smodato delle fonti di informazione c’è il rischio che un’attività giornalistica si trasformi in un’attività fortemente routinizzata e spesso subalterna ad affinità ideologica e ambientale o ad intrecci finanziari o di altro genere che si vengono a creare a tra fonte e giornalista. Bechelloni sottolinea il carattere particolare delle fonti professionali o semi professionali o che producono un’informazione per promuovere un’immagine pubblica della propria attività ricorrendo a tecniche di relazioni pubbliche pubblicitarie o di ufficio stampa.

Il rischio è che il giornalista si trasformi in un burocrate addetto allo smistamento di un prodotto e al suo confezionamento e che l’informazione subisca gravi distorsioni.

 

 

LE FONTI ISTITUZIONALI

 

Le fonti istituzionali sono gli uffici stampa e i portavoce degli organi centrali e periferici dello stato, degli enti pubblici o privati dei partiti e di ogni altro organo che rappresenti una fetta grande o piccola della struttura di potere. Ultimamente i rappresentati stessi delle istituzioni sono le fonti, agiscono cioè senza tramiti burocratici.

Queste fonti  fondano sul segreto e sulla reticenza la loro strategia informativa, amministrando e somministrando le proprie informazioni secondo convenienze e opportunità di tempo e di luogo  per valorizzare la propria immagine, accreditare la propria autorità, pilotare l’effetto della “rivelazione” o l’interpretazione di comodo, per produrre eventi o modificarli.

Forniscono gratuitamente materiale notiziabile e rispondono meglio a criteri di produttività, affidabilità e attendibilità, ottemperando alle necessità organizzative delle redazioni, e su questioni controverse rappresentano il punto di vista ufficiale.

 

 

AGENZIE DI STAMPA

 

L’agenzia di stampa è un’impresa  giornalistica pubblica o privata, che raccoglie, elabora e distribuisce quotidianamente, a pagamento, a organi giornalistici, non giornalistici e privati, in ambito regionale, nazionale, internazionale, con sistemi tecnici veloci (per esempio PC, videoterminali…),informazioni generali o specializzate.

 

La prima agenzia, la Havas, nacque a Parigi nel 1835,  seguita dalla tedesca Wolf nel 1849 e dall’inglese Reuter nel 1851.

La Havas, nacque grazie ad alcune  intuizioni del suo fondatore: l’informazione può essere uno strumento di lavoro; l’informazione è tanto più valida quanto più è rapida; l’informazione è tanto più appetibile ed efficace se è completa. E per realizzare la completezza i suoi figli strinsero accordi con le altre due agenzie: prima si scambiarono solo i listini di borsa poi anche le altre informazioni arrivando fino alla spartizione del mondo che se da un lato fu positiva, in quanto riuscivano a fornire molte informazioni e in modo molto economico, dall’altro fu una cosa gravissima in quanto determinò l’oligopolio dell’informazione.

Quest’alleanza si ruppe con l’avvento della prima guerra mondiale.

Intanto in Italia era nata nel 1853 l’agenzia Stefani, voluta da Cavour e sempre molto vicina al governo. Nel 1867  era stato stipulato un accordo con la Havas, che però avrebbe poi dovuto lasciare nel 1890  per la tedesca Wolf. Con Mussolini diventò un “organo politico di governo, e ancor più di battaglia”, “il più delicato strumento giornalistico del regime”. Quest’agenzia ebbe un tragico epilogo: il presidente, Morgani, fedelissimo del duce, si suicidò alla notizia dell’arresto di Mussolini.

Nel 1945 fu fondata l’Ansa, nello spirito della Resistenza e della riconquistata libertà. Promotori e fondatori erano i rappresentanti  delle formazioni politiche più consistenti: Giuseppe Liverani, democristiano, Primo Parini, socialista, Amerigo Terenzi, comunista.

Questa iniziativa ebbe il consenso degli americani e inglesi che abolirono l’agenzia in lingua italiana da esse costituita e operante nelle regioni liberate, la Notizie Nazioni Unite.

Ricordiamo tra tutte le agenzie italiane l’AGI, agenzia giornalistica nata nel 1950 e trasformata in Agenzia Giornalistica Italia nel 1960 e l’Adn-Kronos, nata nel 1960 dalla fusione dell’Adn e Kronos.

In America nacque nel 1848 la “New York Associated Press” una società cooperativa senza scopo di lucro e con l’obiettivo di assicurare ai soci un’informazione a basso costo. Giuridicamente è la forma più genuina di un agenzia di stampa.

 

Struttura di un’agenzia di stampa

 

Né la struttura ,né il funzionamento di un’agenzia sono uguali a quelle di un’altra agenzia. Gli elementi che le caratterizzano sono:

natura dell’impresa: pubblica, semi pubblica, privata;

destinatari: organi giornalistici (stampa, radio, tv),enti statali, organismi amministrativi economici(pubblici e privati) politico e sindacali;

contenuti: informazioni e valutazioni politiche, propaganda, informazione generale o settoriale, nazionale, regionale, scritta filmata, fotografica, in voce;

dimensioni: nazionali internazionali mondiali;

organizzazione: in proprio ,cioè con proprie strutture, o con dipendenza maggiore o minore da altre agenzie;

tecnologie tradizionali, elettroniche, su sistema automatizzato.

 

 

FORMAZIONE DELL’INFORMAZIONE

 

Raccolta

 

Il materiale viene raccolto dalle strutture interne, esterne, dalle agenzie collegate o inviato direttamente dagli enti interessati.

Le strutture esterne sono gli uffici di corrispondenza, all’interno e all’esterno, e i corrispondenti. Spesso il materiale viene inviato di solito su linea telefonica con un codice all’ufficio che ha competenza per quell’area geografico-politica .

Le strutture interne sono le redazioni e i servizi centrali che raccolgono il materiale informativo di propria competenza, o all’esterno (inviati, cronisti), o all’interno attraverso ricerche telefoniche  .

La suddivisione della struttura della redazione centrale varia molto da agenzia a agenzia. E’ nella redazione centrale che si sceglie e traduce in diverse lingue il materiale per il notiziario per l’estero.

Le agenzie collegate sono quelle i cui notiziari servono o per assicurare (questo vale specie per le agenzie nazionali) o per integrare (nel caso delle agenzie internazionali ) i servizi di informazione all’estero.

 

Produzione ed elaborazione

 

Il materiale prodotto dalle strutture interne ed esterne dell’agenzia e dagli inviati non ha bisogno di ulteriori elaborazioni, ma soltanto di controlli (in rapporto a informazioni proveniente da altra fonte) e di valutazione (in rapporto allo spazio di trasmissione di cui dispone).

Il materiale proveniente da strutture non aziendali, come agenzie di stampa e uffici stampa o enti o singoli comunque interessati deve essere attentamente valutato secondo l’autorità della fonte l’interesse giornalistico che esso presenta.

Il processo generale di formazione di una notizia è quindi:

- valutazione secondo gli interessi giornalistici che il materiale riveste in rapporto alle caratteristiche dell’agenzia e alle caratteristiche dei suoi destinatari;

- scelta in relazione allo spazio a disposizione dei vari notiziari prodotti dall’agenzia;

- elaborazione vera e propria :controllo di esattezza, confronto con altre versioni o testi, in un riassunto per adeguarlo alle esigenze e redazionali, in rapporto allo spazio disponibile e all’ora, in traduzione del materiale per l’estero;

 - avvio con l’indicazione del grado di precedenza.

 

Distribuzione dell’informazione

 

Atraverso vari sistemi tecnici veloci  secondo l’apparato tecnico di ricezione.

 

 

AGENZIE DI PUBBLICHE RELAZIONI

 

Negli anni ’30, in America, erano già molto numerosi i consulenti in relazioni pubbliche, che per lo più si dedicavano alla creazione di notizie, il nuovo esaltante mestiere di quel periodo, dando origine a quella commistione tra flusso informativo, spettacolo e pubblicità che a noi ora appare inevitabile. A metà degli anni ’50, James Reston definì come “news management”- gestione delle notizie- la pratica corrente dei gruppi di potere, istituzioni, soggetti forti dell’informazione, di fabbricare le notizie e di creare eventi per generarle.

L’uso dei mezzi di comunicazione per lanciare messaggi rassicuranti si è diffuso soprattutto in politica.

La filosofia del “news manegement”- controllare le fonti, gestire l’informazione destinata ai grandi mezzi di comunicazione di massa, indirizzarla opportunamente- si trasformò in pratica nell’organizzazione di eventi o meglio li definisce Daniel Boorstin “pseudo- eventi”, eventi cioè “organizzati  allo scopo immediato di essere riportati o riprodotti”.

Il “successo” di questi pseudo-eventi sta proprio nella struttura stessa dell’informazione: essa infatti  è basata su notizie che apparentemente raccontano fatti; è vorace e divora ogni giorno una gran quantità di informazioni; è assillata dal tempo, deve dare ora, subito, il senso di una vicenda; in più l’opinione pubblica ha sempre meno capacità di distinzione tra fiction e realtà. Ed è proprio di fronte a questo tipo di manipolazioni che chi riceve la notizia appare particolarmente disarmato, ragiona sulle notizie, ne discute, le confronta, ma non viene in mente di contestarne l’esistenza stessa.

 

 

STRUMENTI  DELLE PR

 

Photos opportunities, foto cioè di situazioni ambientali in cui il personaggio di turno può essere ripreso in atteggiamenti significativi. Sono immagine simbolo, dietro cui spesso c’è il vuoto informativo.

I video news release, filmati prodotti a una particolare scopo da organizzazioni non giornalistiche. Sono una truffa perché assumono valore di notizia, sono mandati in onda senza che si dica chi li ha prodotti.

Un caso emblematico di questo è il naufragio della super petroliera Exxon Valdez che nel marzo del 1989 naufragò al largo delle coste dell’Alaska. La Exxon aveva mandato sul posto decine di operatori e di addetti all’immagine nella zona per cercare di arginare l’impatto negativo di questo disastro ecologico sull’opinione pubblica mondiale. Arrivarono sul posto anche i  responsabili dell’amministrazione dell’Alaska e i volontari di Greenpeace. Ciascuno di questi produsse un video che fu mandato in onda dalle televisioni: ci fu quindi che vide la notizia con gli occhi degli ambientalisti,  chi con quelli dello stato, chi con quelli della Exxon a seconda dal video visto. La cosa peggiore però fu che questi video furono mandati sotto forma di notizia.

La creazione di eventi: può essere fatta sia da giornalisti che cercano la via più breve per simulare una realtà difficile da catturare oppure da professionisti della comunicazione, come appunto le agenzie di relazioni pubbliche non solo al servizio di imprese commerciali, ma anche di Stati e di governi e quindi coinvolti in operazioni di politica internazionale.

Vedremo in seguito alcuni esempi nella guerra del Golfo e in quella delKossovo.

Qui riportiamo il primo caso di iniziativa di agenzie pr  che riguarda la complicata vicenda cilena.

“Già nel corso delle elezioni del1964 le agenzie Mc Cann - Erikson erano state incaricate dalla Cia di effettuare sondaggi ed esperimenti sul campo sul tema del “pericolo comunista”. Dal 1970 al 1973 nel periodo dell’ascesa della vittoria di Salvador Allende le due agenzie tornarono ad occuparsi del Cile creando eventi e diffondendo notizie che mettessero in guardia il ceto medio cileno dai rischi di un “crollo dell’economia” e di “violenze rosse”. Il lavoro fu svolto, pare, con estrema professionalità.

 

 

 

 

CONSIGLI DI LETTURA

 

Fracassi suggerisce di considerare l’articolo o il servizio televisivo come il prodotto di un punto di vista, del rapporto con una fonte, tacita o esplicita, di un contributo utile e nello stesso tempo parziale per la comprensione delle cose.

Controllare la fonte è importantissimo: se la notizia non ha padri né madri è opportuno diffidare, specie se non esistono ragioni di sicurezza per tenerle nascoste; controllare il luogo di provenienza della notizia e l’oggetto trattato: sarà infatti da prendere con le molle una notizia sulla Romania datata Vienna, per esempio.

Considerare i protagonisti: se rimangono generici senza un valido motivo c’è qualcosa che non funziona.

Fracassi suggerisce comunque di non andare direttamente alle fonti scavalcando la mediazione giornalistica  sia perché l’universo dei fatti è smisurato e la scelta di ciò che dobbiamo sapere o ignorare è comunque esercitata da altri, sia  perché il giornalista ha un potere di contrattazione con la fonte e ha strumenti per svolgere indagini sui fatti raccontati.

 

 

 

TIMISOARA: UN CLAMOROSO FALSO GIORNALISTICO

 

Nei giorni del Natale 1989 una terribile notizia fece il giro del modo. Durante la rivoluzione rumena, nella città di Timisoara era stato compiuto un orribile massacro. A prova della tragedia il ritrovamento di fosse comuni con 4632 cadaveri di persone mutilate e torturate.

Il giornalista Claudio Fracassi, nel suo libro “le notizie hanno le gambe corte”, spiega la nascita e la travolgente crescita del “più grande inganno mondiale dopo l’invenzione della televisione” (secondo la definizione di Ignacio Ramonet di Le Monde Diplomatique) fino alla sua morte passata perlopiù sotto silenzio, ossia quando solo pochissimi organi di stampa ne rivelarono la natura radicalmente falsa.

Nel ripercorrere la vita della notizia l’autore fornisce una serie di indicazioni su come sia possibile riconoscere le false notizie.

La prima fonte della notizia era anonima: un non meglio identificato “viaggiatore cecoslovacco”, i cui racconti erano stati riferiti dall’agenzia di stampa ungherese Mti, poi dalla televisione di Budapest e dalla radio di Vienna. Questo accadde una domenica, il 17 dicembre 1989, dunque in un “giorno di disperata carenza di notizie (e di rilassate distrazioni) nelle redazioni giornalistiche di tutto il mondo”. Complice il fatto che il venerdì precedente si erano effettivamente verificati “scontri sanguinosi tra i manifestanti e la polizia di Ceausescu”, le cronache del lunedì successivo informarono de ”l’orrendo massacro”. Nei giorni seguenti la notizia, assolutamente priva di riscontri oggettivi si impose sui mezzi di comunicazione del pianeta, a partire dalle emittenti dell’Est europeo fino a diventare “una verità assodata e indiscutibile come il sole che sorge ogni mattina”.

La fonte della notizia rimane vaga e in ogni modo anonima, mentre la cifra degli assassinati e quella degli arrestati salgono sempre di più fino ad assestarsi rispettivamente a 4.600 e 13.000 proprio quando dalla televisione ungherese arriva la drammatica conferma del massacro: le immagini delle fosse comuni di Timisoara in cui i cadaveri, appena esumati e ancora parzialmente ricoperti di terra, erano allineati alla luce delle torce elettriche; tutti i corpi riportavano i segni delle torture e delle mutilazioni. Icona del massacro divenne il corpicino di una bimba che giaceva su quello di una donna, probabilmente la madre, con una lunga ferita sul torace.

Complice il fatto che la frontiera ungherese della Romania era ancora chiusa ai giornalisti, “la verità delle cose viste rese credibile la menzogna delle cose sentite”, tanto che le immagini fecero il giro del mondo.

Il fatto davvero sconvolgente fu che, una volta arrivati a Timisoara gli inviati dei maggiori giornali, mancò un “accertamento dei fatti e delle cifre”.

Infatti, ci fu solo una “definizione matematica dei numeri” (4.632 le vittime e 13.214 gli arrestati) così da dar loro “una sorta di timbro ufficiale, come se un’efficiente burocrazia avesse condotto la penosa conta” e una dopo l’altra si rincorsero su tutti i giornali “le impressionanti descrizioni dei morti e delle torture”.

Il Corriere della Sera: “Abbiamo assistito alla battaglia di Timisoara […] La maggiore battaglia urbana del dopoguerra […] Tortura […] La repressione ha provocato migliaia di morti”.

L’Unità: “Quattromilacinquecento cadaveri irriconoscibili, mutilati, mani e piedi tagliati, con le unghie strappate”.

La stampa: ”Migliaia di cadaveri nudi legati col filo spinato, donne sventrate e bambini trucidati”.

Solo in seguito, “quando si spense l’ubriacatura mediatica”, pochi giornali fecero sapere quanto era accaduto in realtà. In totale le vittime degli scontri a Timisoara erano state poche decine, le immagini messe in onda dalla televisione ungherese erano state girate nel cimitero dei poveri e quelli riesumati erano i “corpi di sventurati barboni, alcolizzati emarginati, sepolti nei mesi precedenti senza cassa e senza croce dopo una rapida autopsia”, causa della ferita sul torace dei cadaveri interpretata dai reporter come conseguenza delle torture. Il corpicino icona del massacro era quello di una bimba “deceduta per congestione, a casa sua, a due mesi e mezzo di età, il 9 dicembre 1989”, mentre quello della donna con la lunga ferita sul torace era di “una anziana alcolizzata morta di cirrosi epatica l’8 novembre”.

Risulta difficile credere che un simile errore sia stato possibile nonostante la preparazione dei giornalisti, liberi di muoversi e raccogliere informazioni, e le tecnologie a loro disposizione. Secondo Fracassi “fu proprio l’illusione della storia in diretta cerata dalle immagini televisive delle fosse comuni, ossessivamente ritrasmesse, a mandare in tilt l’intero sistema mediatico”.

Si seppe poi (qui la fonte è Le Nouvel Observateur) che erano stati gli stessi caporedattori, solitamente impegnati a far opera di moderazione sugli inviati troppo enfatici ed entusiasti, a “sollecitare articoli che fossero all’altezza della drammaticità delle immagini”.

Solo pochi, più attenti e onesti giornalisti, tra cui l’italiano Paolo Rumiz, ammisero poi di essere “caduti nell’imbroglio”. Infatti, in quei giorni di indignazione e sgomento prevalse la linea del conformismo secondo qui “tutti lo scrivono, la tv lo fa vedere, dunque è vero”; tanto che quando, alla vigilia di Natale, l’inviata di Le Soire, l’affermata giornalista Colette Breackman, si rese conto che a Timisoara non c’erano né migliaia di corpi ammucchiati né ospedali straripanti di feriti, preferì tacere poiché già tutti parlavano dell’orrendo massacro.

Fu invece un giovane cronista che si azzardò a parlare. “Michele Gambino, allora reporter di un quotidiano locale lombardo, e recatosi in Romania a sue spese […] fece la cosa più ovvia prevista dal mestiere: andò al cimitero dei poveri per esplorare le fosse comuni e parlare con i testimoni”. Ma quando il giornalista chiamò in Italia per raccontare la verità che aveva scoperto, il suo caporedattore preferì affidarsi alle notizie di agenzia e non gli pubblicò una riga.

Sono dunque l’incertezza delle fonti (“un viaggiatore cecoslovacco proveniente dalla città romena di Timisoara”) e l’anonimato dei protagonisti i principali indizi che dovrebbero far pensare ad un falso, in modo particolare quando la notizia del fatto proviene da un luogo distante da quello dove esso è effettivamente accaduto. Infatti essendo stata data a Vienna la notizia sulla Romania sarebbe stato logico pensare che il giornalista potesse conoscere i fatti solo per sentito dire.

L’ingigantimento dell’informazione è provocato poi dal “gioco di rimbalzo tra i mezzi di informazione elettronici (radio e televisione) e giornali”. In questo caso l’informazione può non convincere ma condizionare, costringendo l’individuo a mettere da parte il proprio giudizio pur di non sentirsi isolato.

 

 

 

GESTIONE DELLA COMUNICAZIONE NEI CONFLITTI

 

Ora vorremmo analizzare il tipo di informazione che è stato prodotto in occasione di specifiche situazioni per verificare le considerazioni esposte in precedenza sul percorso di formazione e diffusione delle notizie.

Esamineremo in particolare la situazione in occasione di conflitti, proprio perché è in tali contesti che risultano evidenti le condizioni e gli interventi che forgiano la comunicazione.

 

 

COMUNICAZIONE NELLA GUERRA DEL GOLFO

 

Vediamo ora l’analisi della comunicazione giornalistica e televisiva del periodo relativo alla guerra nel Golfo del 1990/91. Tratteremo in modo particolare i messaggi passati nei paesi dell’Europa Occidentale dopo l’intervento statunitense.

 

Immagine del conflitto veicolata in Occidente

 

I mezzi di comunicazione Occidentali hanno dipinto l’immagine di una guerra semplice, giusta e pulita, utilizzando categorie stereotipate dai contorni ben delimitati.

Lo schema era quello quasi matematico di un grande stato, l’Iraq, guidato dal “nuovo Hitler” di turno, Saddam Hussein, che si era lanciato nell’invasione del piccolo Kuwait e del provvidenziale intervento U.S.A. a difesa degli oppressi e dell’ordine mondiale.

D'altronde, la struttura del conflitto e la lontananza spaziale dei luoghi in qui questo veniva combattuto facilitarono una simile semplificazione laddove i media erano gli occhi e le orecchie del pubblico occidentale.

 

Rapporto tra militari e giornalisti

 

Il conflitto nel Golfo è stato simile ad un “buco nero mediatico”. Infatti, secondo il famoso giornalista americano Bill Kovach, i militari statunitensi hanno esercitato uno “strettissimo controllo sui media” giustificato dalla “preoccupazione per i rischi che i giornalisti avrebbero corso lavorando sui campi di battaglia“ e il timore che la tecnica della trasmissione in diretta avrebbe potuto “passare al nemico informazioni di vitale importanza strategica”. Proprio per minimizzare questo rischio i militari hanno messo a punto un sistema di sicurezza che prevedeva un’autorizzazione per trasmettere dalle zone di guerra, la possibilità di copertura informativa solo per determinati avvenimenti, l’utilizzo sistematico di conferenze stampa concesse dai generali dell’esercito e un piano di “visite guidate”. In queste occasioni “gruppi di reporter venivano scortati da ufficiali dell’esercito che raccontavano la stessa storia a tutti i giornalisti accreditati per quella zona”.

Tuttavia le forze militari non riuscirono ad impedire i reportage televisivi degli attacchi missilistici su Baghdad, Tel Aviv e Riyadh, unica copertura informativa non soggetta a controllo.

Sempre secondo Kovach, ”i pezzi scritti dai luoghi a cui i giornalisti avevano accesso erano soggetti poi a un’ulteriore censura, nella maggior parte dei casi politica, che mirava a eliminare le informazioni imbarazzanti per l’esercito”. Quei reporter che tentarono di informare l’opinione pubblica restando fuori dai gruppi vennero immediatamente bloccati, la stessa fonte parla di 50 giornalisti americani trattenuti, alcuni anche arrestati per aver tentato di eludere le limitazioni imposte dall’esercito. Altri invece caddero prigionieri delle truppe irakene che li trattennero per qualche tempo; tra questi Bob Simon della CBS.

In sostanza la maggior parte delle informazioni che giunsero al pubblico occidentale furono quelle raccolte nel corso delle conferenze stampa ufficiali.

Solo dopo la conclusione del conflitto si scoprì che i media erano stati utilizzati anche per trarre in inganno lo stesso Saddam almeno in due occasioni. In primo luogo precedentemente all’attacco erano stati rilasciati ai giornalisti lunghi elenchi di unità di combattimento chiamate in servizio attivo nel Golfo, tanto da dare l’impressione di un enorme esercito convocato ancor prima dello scoppio del conflitto, mentre in realtà per ogni singola unità erano stati convocati solo pochi componenti. In secondo luogo, stando sempre a quanto riporta Kovach, “vennero rilasciate alla stampa dichiarazioni infarcite di dettagli tecnici su un probabile attacco di forze anfibie dalla parte del Golfo Persico e di truppe regolari dalla zona desertica di confine con il Kuwait”; in questo modo le truppe alleate trassero in inganno l’esercito iracheno, concentratosi al centro e sul fianco orientale dello schieramento difensivo, e sferrarono invece l’attacco sul fianco occidentale.

La guerra nel Golfo ha in qualche modo segnato il “fallimento dei giornalisti”, nel senso che la responsabilità di un’informazione distorta e lacunosa non grava solo sulle spalle dei militari ma anche sulla leggerezza con cui i reporter hanno compiuto “errate interpretazioni e estrapolazioni poco chiare dei rapporti dei portavoce dell’esercito”.

 

Due esempi di comunicazione manipolata dai militari

 

A partire dal gennaio 1991 ha praticamente fatto il giro del mondo, sulle prime pagine dei rotocalchi e sulle messe in onda delle Tv in prima serata, la foto di un cormorano agonizzante, inzuppato del petrolio che era straripato in mare dopo l’incendio dei pozzi kuwaitiani.

In realtà questo tipo di volatile non sosta tradizionalmente nella stagione invernale in quel tratto di mare.

Tuttavia il cormorano è diventato l’icona della morte e della catastrofe ecologica nonché ulteriore denuncia della barbarie del despota di Bagdad.

In quest’occasione si parlò di una marea nera, pari a 5 milioni di tonnellate di grezzo, che stava sommergendo le coste del Golfo e che fu solo successivamente ridimensionata a meno di 500 mila tonnellate contando anche quelle fuoriuscite da tre petroliere irakene e da alcune raffinerie colpite da bombe statunitensi.

 

Un caso radicalmente inventato è lo scandalo delle incubatrici. Stando ad un dossier apparso su “Missione oggi, “secondo alcuni inviati che avevano raccolto l’informazione i soldati iracheni, una volta occupata Kuwait City, entrarono nell’ospedale della capitale e scaraventarono i neonati fuori dalle incubatrici del reparto di maternità”.

La notizia si rivelò falsa solo alla fine del conflitto. Nayrah, la giovane donna che si era presentata davanti alle telecamere come testimone oculare del fatto, si rivelò essere, non un’infermiera ma la figlia dell’ambasciatore del Kuwait a Washington, imparentata con la famiglia reale e studentessa negli Stati Uniti.

La storia, che aveva contribuito non poco a far crescere l’odio contro Saddam, era stata inventata da un ex addetto alle comunicazioni del presidente Regan in collaborazione con l’agenzia di relazioni pubbliche americana Hill e Knowlton, entrambi pagati dall’emirato.

 

Immagine di una guerra pulita

 

La pesante influenza dei militari sull’informazione proveniente dal Golfo ha contribuito a forgiare l’immagine di una guerra pulita dove i bersagli militari sono “chirurgicamente” selezionati e colpiti senza conseguenze per la popolazione civile a parte qualche inevitabile “danno collaterale”.

Le reali conseguenze del conflitto divennero chiare solo in seguito. Infatti solo dopo la fine della guerra si seppe che “il 90% delle bombe sganciate sull’Iraq non erano teleguidate e che perlopiù avevano mancato il bersaglio; o che i missili Patriot lanciati per intercettare gli Scud iracheni avevano causato a Israele danni maggiori degli stessi Scud.” In Iraq se da un lato rimase relativamente basso il numero delle perdite umane dall’altro furono distrutte le infrastrutture industriali e commerciali e le conseguenze della guerra sulla popolazione pesarono ancora a lungo.

 

 

 

COMUNICAZIONE NEI CONFLITTI BALCANICI

 

Analizzeremo i conflitti armati che hanno condotto, nei primi anni novanta, allo smembramento della Jugoslavia. In particolare ci concentreremo sulla guerra del Kosovo che vide lo scontro delle forze federali sotto il comando dei serbi di Belgrado e le milizie armate rappresentanti la maggioranza albanese presente in Kosovo (80%), posteriormente sostenuta anche militarmente dall’Alleanza Atlantica (NATO).

 

Chiavi di lettura generali per  interpretare la comunicazione

 

Iniziamo con alcune considerazioni generali sulla logica comunicativa sottostante l’insieme dei conflitti esplosi nella regione.

A questo scopo, illuminanti sono le precise osservazioni e le nuove prospettive che ci propone P. Rumiz nel suo libro “Maschere per un massacro” ( Editori Riuniti 1996).

Tali osservazioni ci esortano a leggere la comunicazione considerando alcuni elementi determinanti per il “ news making”. Da una parte gli interessi politici, economici e più contingentemente bellici, delle parti in gioco, e dall’altra i bisogni materiali e soprattutto psicologici che sono stati usati e fomentati per il raggiungimento dei primi obiettivi. Infine considerare i parametri  a cui ciascuna notizia si deve adeguare, essendo essi determinati dalla necessità dei destinatari e dal contesto comunicativo in cui si inseriscono.

 

Immagine del conflitto veicolata in Occidente

 

L’immagine recepita in Occidente di tali conflitti è stata di una guerra irrazionale, fatta di odi tribali, deliri nazionalistici e massacri etnici; tutti elementi di un quadro grottesco ed arcaico da relegare in un mondo lontano: i Balcani. Tale regione, che ha originato anche il verbo balcanizzare, è venuta a significare l’effetto distruttivo della patologia causata dal “virus balcanico”.

Certo, come analizza in modo approfondito e ricco di pesanti prove Rumiz, il conflitto ha avuto cause complesse e si è sviluppato altrettanto complessamente:  intreccio di retaggi storici, relazioni etniche complesse, odi e vendette, spesso enfatizzati  alla luce di interessi politico-economici, nonché di una pluralità di versioni dei fatti.

Perciò questa realtà era troppo complessa  da capire e ancor più da comunicare alle opinioni pubbliche occidentali. Ecco quindi che si assiste alla costruzione di una realtà semplificata, stereotipata, polarizzata, secondo le caratteristiche narrative del genere “fiaba” (es. contrapposizione amico/ nemico, buono/ cattivo).

Questo bisogno risulta impellente, secondo un altro giornalista, Gian Micalessin, dalla “sconfitta della televisione”nel comunicare la guerra in Kosovo. Essa infatti si dimostra incapace di fornire un’informazione soddisfacente in questo caso specifico, essendo basata sulla velocità di notizie frammentarie, sull’impatto di poche immagini spesso decontestualizzate, sulla forza della diretta e della cronaca odierna, sulla spettacolarizzazione e la personalizzazione delle notizie;  e perciò inadeguata a fornire una chiave interpretativa per un evento così drammatico e complesso. Gian Micalessin spiega in questo modo la predilezione per l’informazione stampata  che ha caratterizzato l’utenza occidentale.

 

 

Comunicazione interna ai Balcani, come esacerbare l’odio

 

Interessante è anche constatare come la comunicazione sia stata strumento potente nell’enfatizzare le tensioni etniche preesistenti tacendo, gridando, modificando realtà storiche e fatti di cronaca in modo da far appello ai bisogni e alle reazioni psicologiche fondamentali degli individui, cioè:  sicurezza, identità, aggressività e autodifesa, in modo da provocare la coalizzazione in gruppi fondati su nuove e forti micro-indentità, così come la demonizzazione del nemico esterno. Tutto ciò sfruttando abilmente  la struttura cognitiva di base ( il suo funzionamento per schemi, effetto primacy, recenza,  persistenza).

Rumiz chiarisce il piano scientificamente preparato dividendolo in sei tappe operative:

 1. disgregazione del mito titoista.  2.la costruzione di un destino storico nuovo. 3. l’invocazione del leader da parte della massa. 4. il risveglio dell’aggressività attraverso la paura. 5. l’accensione dei focolai di scontro:  6. la teoria del tribalismo.

 

Risulta chiaro, sotto quest’ottica, il disegno politico che vide Milosevic già nell’87 recarsi nei luoghi della battaglia del Campo dei Merli, in Kosovo avvenuta nel 1389 con la sconfitta dei Serbi contro gli Ottomani  e luogo fondamentale per l’identità del popolo serbo e della religione ortodossa. Egli in quella occasione, architettò la protesta da parte della minoranza serba e pronunciò, in seguito all’intervento della polizia locale, parole storiche: “Nessuno mai più potrà picchiare voi Serbi”. Milosevic ritornerà in quei luoghi esattamente 600 anni dopo la battaglia (1989) del Kosovo per farsi consacrare come leader dalla massa serba, dichiarando l’abolizione dell’autonomia del Kosovo ( tutto ciò è stato testimoniato da un filmato della CNN diffuso in occidente qualche anno fa ).

In questa fase i media assumono un ruolo determinante nel disegno di Milosevic il quale completa la scalata della loro proprietà. Essi assumono uno stile ed un linguaggio aggressivo ed iperbolico. Episodi di normale criminalità vengono gonfiati e interpretati in modo etnico.

Avviene un’epurazione dei giornalisti. Ma le notizie vengono anche completamente inventate. Già nel ’88 la più nota rubrica televisiva serba “Zip”, trasmise la notizia di inaccettabili privilegi goduti dai musulmani rispetto ai serbi in un villaggio bosniaco. Pochi giorni dopo la TV di Sarajevo scoprì che era tutto falso, anche i nomi che erano stati citati, appartenevano a defunti.

Grande spazio trovano sui media locali fatti del genere, spesso basati solo su presunte testimonianze dirette, così come particolare rilievo ottengono le posizioni degli intellettuali compatibili con tale disegno politico.

 

Il caso Kosovo

 

Un altro elemento fondamentale da tener presente nello studio della relazione tra comunicazione e guerra è il fatto che in tali situazioni la prima vittima è la verità; quindi  non esistano verità ma soltanto versioni, prospettive e ciascun destinatario ha a disposizione solo alcune informazioni parziali per quantità, fonti e qualità.

 

E’ ricordando tutte le precedenti riflessioni, che ci accingiamo ad analizzare la comunicazione nel ultimo conflitto, quello scoppiato nel ‘98/’99 nel Kosovo, in particolare dopo l’intervento diplomatico e militare  dell’Alleanza  Atlantica.

Senz’altro, anche in questo conflitto, si può parlare anche di guerra di propaganda, con le parti che hanno utilizzato la comunicazione in funzione dei propri interessi.

 

Per quanto riguarda le azioni da parte delle autorità di Belgrado, si deve sottolineare innanzitutto l’atteggiamento di ostruzione alla libertà di informazione con azioni di espulsione dei giornalisti stranieri, di ostacolazione delle attività dei pochi operatori presenti tramite il forte condizionamento all’accessibilità delle informazioni.

Infatti i giornalisti venivano puntualmente condotti a testimoniare i danni e le vittime civili provocate dai bombardamenti delle forze NATO, senza peraltro dire se ad esse fossero collegati obiettivi militari, o se fossero strutture civili utilizzate a fini militari, come nel caso di centrali radio-video trasmittenti. Così come i giornalisti venivano tenuti alla larga dalle zone di operazioni militari, atteggiamento questo tenuto sia dai Serbi, che dai guerriglieri dell’ UCK, che dalle forze NATO.

 

Superfluo dire che scottanti e raccapriccianti eventi venivano occultati non soltanto ai media, ma si tentava di cancellarne ogni traccia concreta e di ridurne i testimoni.

Un caso per tutti: il trasporto in camion di grandi quantità di cadaveri albanesi in Serbia, che poi venivano sepolti nei luoghi più inaccessibili ad esempio sotto le autostrade.

Ricordiamo inoltre come la popolazione serba sia stata la principale vittima della comunicazione propagandistica di regime, con l’obiettivo di compattare le forze nazionali sfruttando i meccanismi psicologici sopra descritti. Tale processo risulta particolarmente grave considerando la scarsa disponibilità di informazione alternativa.

A questo scopo evidenti sono le enfatizzazioni delle perdite, con la solita “guerra di numeri” al rialzo, la riesumazione imprecisa di episodi storici in cui i Serbi sono stati vittime di altre etnie, ad esempio le stragi compiute dagli Ustascia durante la seconda guerra mondiale. Tudjman viene dipinto come diretto erede di Ante Palievic, dittatore filonazista, proconsole di Hitler tra il ’41 ed il ’45. Tali episodi vengono ripresi e  mitizzati, alimentando un micro-nazionalismo che si nutre di simbolismi e dell’esaltazione dei martiri presenti e passati ( vedi struttura del piano politico di Milosevic).

 

Un’interessante prospettiva per smascherare la realtà costruita dal regime, è l’analisi delle forme di comunicazione meno controllabili e più personali. Tali metodi sono stati applicati anche da osservatori internazionali giunti in loco dopo il conflitto. Ad esempio risulta evidente la discrasia tra le retoriche commemorazioni ufficiali dei martiri e i semplici e profondi ricordi dei familiari, attoniti di fronte ad un conflitto incomprensibile. E’ questo il sentimento che emerge anche dalla lettura dei graffiti sui muri delle città ex-jugoslave.

 

Comunicazione dell’Alleanza Atlantica

 

Passiamo ora ad analizzare le condizioni che hanno caratterizzato la comunicazione dell’altra parte in conflitto, la NATO.

Certo anche questa parte in campo necessitava della propria versione dei fatti alla luce del bisogno di legittimare l’intervento militare davanti alle opinioni pubbliche delle proprie democrazie.

E’ da segnalare a tal proposito l’utilizzo massiccio ed il perfezionamento di un linguaggio giornalistico che si ricollega al concetto di “guerra pulita”, utilizzato già per la guerra del Golfo del 1990. Tale guerra ha la pretesa di affidarsi alle “armi intelligenti” in modo da distruggere solo i bersagli chiave, risparmiando vite umane.

In Kosovo tale necessità diventa ancor più urgente in quanto la motivazione principale per la guerra è stata quella umanitaria. Si è assistito  così all’abbinamento di termini contraddittori come nel caso di “guerra umanitaria”. La guerra diventa “intervento militare”, le vittime civili dei bombardamenti sono inevitabili “danni collaterali” mentre quelle del nemico sono vittime di un “genocidio”.

Un altro aspetto importante da tener presente è il bisogno da parte dei vertici NATO di organizzare e gestire in modo efficace la comunicazione, nonostante la pluralità delle sue componenti.

La NATO si è inizialmente affidata all’Ufficio informazione e stampa con sede a Bruxelles, ma è stato necessario un immediato adattamento ai tempi di guerra. In un primo momento James Shea, portavoce dell’Ufficio, si è trovato ad affrontare la situazione con forze insufficienti. Tale carenza si è evidenziata ad esempio nella caso della diffusione della notizia falsa sulla morte di Rugova come in una serie di smentite e lacunose ammissioni di colpa tutte emblematiche dell’urgenza di un coordinamento tra i 19 paesi dell’Alleanza.

In un secondo momento, su iniziativa del premier inglese, venne inviato a Bruxelles Alastair Campbell, già responsabile della comunicazione del governo britannico. Le linee guida divennero: trasmettere dei messaggi univoci, semplici ed il meno contraddittori possibili, evitare di soffermarsi troppo sugli “effetti collaterali”, cercare di creare delle “belle storie pronte” evitando la sfilza di dati. Tutto ciò nel quadro di una strutturata rete di uffici stampa e portavoce ufficiali che coordinassero  forme e tempi di diffusione delle notizie.

 

Alcuni esempi di comunicazione manipolata da parte dell’Alleanza.

 

Innanzitutto il caso del bombardamento del treno passeggeri, il Frankufer Rundschau, avvenuto il 12 Aprile del 1999. Dopo il grande scalpore suscitato, il portavoce della NATO ha mostrato ai giornalisti i filmati che testimoniavano la dinamica dell’incidente, in modo da dimostrare l’inevitabilità del danno, causa il tardivo avvistamento del veicolo. Si scoprì poi che quelle sequenze erano state accelerate per poter sostenere la tesi suddetta.

 

Un secondo esempio è la costruzione di un’operazione militar-umanitaria  per poter sostenere la tesi che i profughi  venivano utilizzati come “bomba umana” dal regime serbo. La notizia fornita dal comandante in capo della NATO ( gen. Wesley Clark) fu che 100mila uomini venivano deportati da un confine all’altro al fine di intasare la macchina degli aiuti umanitari in Albania e Macedonia. Tutti si attendevano delle foto, che sostenessero la tesi, ma tali prove non arrivarono.

A questo punto però si presentò la necessità che ci fossero campi profughi vuoti, pronti ad accogliere queste masse umane. E’ così che ci si affrettò a svuotare alcuni campi sul confine albanese, con gli stessi mezzi albanesi. Si assistette così al paradossale incrocio tra camion albanesi che sfollavano profughi e di mezzi militari NATO, anch’essi formalmente a supporto del trasferimento di profughi per motivi di sicurezza.

 

Questa serie di manipolazioni e silenzi sono venuti a galla man mano che il tempo passava e le notizie ufficiali venivano confrontate con i rapporti più neutri, stilati dagli osservatori internazionali dopo la cessazione del conflitto, o grazie ad inchieste giornalistiche sul campo e libere da troppi vincoli politici.

Solo qualche esempio.

Le cifre delle vittime albanesi in Kosovo, stimate dal Tribunale penale internazionale parlano di 200.000 vittime, numero elevato, ma non sufficiente per parlare di genocidio. Così anche si è scoperto che non esisteva un vero e proprio piano predefinito di pulizia etnica.

 I rapporti dell’OCSE dichiarano inoltre che le violenze e le repressioni nella regione si sono aggravate pesantemente dopo l’inizio dei bombardamenti (24/03/99).

L’obiettivo di garantire un Kosovo multietnico è fallito considerando che, concluso il conflitto, circa 800.000 Albanesi sono potuti tornare in Kosovo, mentre circa 250.000 Serbi sono stati cacciati o peggio, sono stati vittime di rappresaglie etniche. Ciò risulta evidente considerando anche le pesanti distruzioni che hanno compromesso il territorio Kosovaro.

 

Di fronte a questi fatti, significativa è la frase del giornalista Jacky Rowland, impegnato sul campo e fonte di alcune delle informazioni precedenti: “vi stiamo raccontando una guerra che nessuno, fino ad oggi, ha potuto vedere con i propri occhi”.

 

Silenzi strategici

 

Doveroso è inoltre segnalare, come abbiamo fatto nel caso dei progetti di Milosevic, i pesanti silenzi che hanno coperto scottanti parti di realtà.

Chiara a tal proposito è l’analisi proposta dal professore Universitario M. Chossudowsky che evidenzia come l’UCK (esercito per la liberazione del Kosovo) sia stato creato e sostenuto grazie al riciclaggio di denaro proveniente dai traffici di droga e dalle mafie italo-albanesi. Dati questi, noti ai governi dell’Alleanza già dal ’94 grazie al rapporto del Geopolitical Drug Watch.

Cupe analogie riportano alla strategia dei finanziamenti utilizzata dagli USA in Indocina o America Centrale. Certamente queste informazioni sono state censurate dall’agenda dei media, come pure non sono servite da ritegno per il pieno appoggio alla guerriglia Kosovara, scavalcando peraltro il partito democratico del Kosovo e il suo leader Rugova. Sotto quest’ultimo profilo sono chiamati  in causa direttamente i servizi segreti americani e tedeschi impegnati anche nell’addestramento militare dei combattenti insieme a mercenari provenienti dal mondo del fondamentalismo islamico. Risulta inevitabile considerare l’ipotesi che l’obiettivo reale sia stato quello di destabilizzare i Balcani a fronte della volontà d’influenza di paesi stranieri.

 

Il ruolo delle agenzie di Pubbliche Relazioni

 

Infine, dobbiamo occuparci di un aspetto comunicativo che ha avuto un ruolo preponderante nei conflitti balcanici, dei rilevanti attori: le agenzie internazionali di pubbliche relazioni.

L’agenzia Ruder Finn & Global Public Affairs è stata pesantemente impegnata nella battaglia dell’informazione tra gli stati dell’ex Jugoslavia. Essa ha curato gli interessi dei governi Croato e Bosniaco, orchestrando un’attività di promozione della loro immagine e di propaganda ai danni dei serbi in occidente. Tra i suoi clienti figura fin dal ’92 anche la repubblica de Kosovo.

Vediamo nel dettaglio alcuni strumenti utilizzati per ottenere tali obiettivi.

Innanzitutto richiamare fatti e personaggi che si riferiscano alla memoria storica dell’opinione pubblica. Diventa chiaro quindi il gioco di analogie tra Hitler e Milosevic, rispolverando parole come lager e genocidio. Tale abbinamento risulta fondamentale considerando l’obiettivo di ottenere sostegno da parte delle influenti comunità ebraiche statunitensi. Ciò non era semplice poiché bisognava far dimenticare alla comunità suddetta i 25.000 correligionari uccisi da Ante Pavelic in Croazia tra il ’41 e il ’44, oltre naturalmente a tacere sui 750.000 Serbi sterminati dallo stesso nel lager di Jasenovac, o sulle atrocità compiute in quei giorni dalle milizie croate e bosniache.

Come ha confidato l’ex direttore dell’agenzia, James Harff, in un’intervista del ’93: “ogni notizia utile doveva esser messa in circolazione il più velocemente possibile indipendentemente dalla veridicità, problema questo che non riguarda l’agenzia, la quale non è pagata per essere morale”. Anche altre agenzie sono state  coinvolte: ad esempio la Hill&Knowlton, già artefice di falsi nella guerra del golfo. Così pure i Serbi hanno ingaggiato la Lowe-Bell, curatrice a suo tempo dell’immagine di M. Thatcher.

 

Certo potremo continuare a sviscerare questi tristi meccanismi di costruzione di “verità” che purtroppo condizionano fortemente la realtà considerando il concatenarsi allarmante di effetti partendo da quelli cognitivi dei singoli, attraverso quelli sui comportamenti sociali, quelli culturali e infine gli effetti storici di conflittualità tra i popoli. Effetti questi, che risultano evidenti anche dalla rassegna di alcune teorie comunicative che si sono occupate dell’influenza sociale dei media ( vedi sviluppo dalla teoria ipodermica fino all’agenda setting o cultural studies). Vorremmo invece far notare come, in tutti i casi analizzati, sia stato completamente dimenticato e violato l’art. 20 della convenzione internazionale sull’eliminazione della discriminazione razziale, adottata il 16/12/’66 (in vigore dal 76) in sede ONU, nel quadro del Patto internazionale sui diritti politici e civili.

Tale articolo precisa: “Ogni appello all’odio nazionale, razziale e religioso che costituisca un’incitazione alla discriminazione, all’ostilità o alla violenza, è proibito dalla legge”.

 

 

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

 

P. RUMIZ “ Maschere per un massacro”, Editori Riuniti, 1996

 

MISSIONE OGGI, mensile dei missionari Saveriani,Brescia,  n.3 (Marzo2000) Dossier ROBERTO CUCCHINI “Parole di piombo:                                      l’informazione e le guerre”

MISSIONE OGGI  n.1  (Gennaio 2001) Articolo ALESSANDRA GARUSI  “ Guerra e media: relazioni pericolose”

MISSIONE OGGI n. 5 (Maggio 2001) Articolo ROBERTO CUCCHINI “Come demonizzare il nemico”

TEMPI n. 20 ( Giunio 99) Articolo  GIAN MICALESSIN “Disinformazione di guerra”

 

TEMPI n. 31 (Agosto 99) Articolo  GIAN MICALESSIN “ Kosovo, la sconfitta della TV”

 

MASSIMO PIETRONI  Articolo “ La NATO, comunicatrice imperfetta”

 

 GIOVANNI SABATO  Articolo “ Non è vero ma ci credo”: JACQUES MERLINO “ Le verites yougoslaves ne sont pas toutes a dire”, Albin Michel, Paris, 1993

 

MICHEL CHOSSUDOVSCKY “ I combattenti per la libertà del Kosovo finanziati dal crimine internazionale”

MICROSOFT ENCARTA Enciclopedia Plus 2000 “ Kosovo”

“GUERRA E COMUNICAZIONE DI MASSA” di Bill Kovach tratto dal Collier’s Book del 1992 Miucrosoft Encarta Enciclopedia Plus 2002.

 

“TEORIA E PRATICA” a cura di Gianni Faustini edito dall’ Odg (ordine dei giornalisti).

 

“MISSIONE OGGI” N. 3, marzo 2201.

 

“TEMPI” N. 46, 17 novembre 2000.

 

“LE NOTIZIE HANNO LE GAMBE CORTE”, Claudio Fracassi, edizioni Rizzoli.

 

“TEORIE DELLE COMUNICAZIONI DI MASSA”, Mario Wolf, edizioni Bompiani.

 

Gli articoli sono stati trovati per lo più nei seguenti siti internet:

www.rsfitalia.org

www.kontrokultura.org

www.dentrolanotizia.com

www.sissa.it/ilas/jekyll

www.ilbarbieredellasera.com