INFORMAZIONE:
MILLE
FINESTRE SU SQUARCI DI REALTÀ
Corso di laurea in Relazioni Pubbliche
Approfondimento
per il corso di Sociologia della Comunicazione
Prof.ssa
A. Pocecco - a.a.
2001/02
Studenti: Berardo Federica,
Ceccato Marilena, Spada Antonella
PREMESSA
Claudio
Fracassi paragona l’informazione a una finestra
aperta che ci da un’inquadratura, una prospettiva
particolare e forse distorta. Il fatto che
l’informazione sia parziale non significa che sia
per natura imprecisa o approssimativa, anzi permette
di mettere a fuoco particolari ed elementi che nel
flusso della realtà possono addirittura non apparire
.
Essendo
una finestra può essere aperta e chiusa a comando
senza troppe spiegazioni. E’ per questo che talvolta
notizie che nascono tumultuosamente muoiono ancor più
rapidamente senza lasciar traccia. Hoagland dice che
“il giornalismo è la sola forma narrativa in cui è
possibile omettere la fine” . Capita infatti di
essere bombardati di notizie su un certo argomento e
poi da un giorno all’altro non se ne sente parlare
più, quasi come se quell’evento, che per giorni ci
aveva tormentato, si fosse dissolto in un battibaleno
L’informazione
ha una struttura a singhiozzo. “In un mondo sempre
più in
preda alle convulsioni delle guerre, delle
contrapposizioni etniche e religiose, degli esodi
forzati, i riflettori dell’informazione sembrano
accendersi a casaccio su questo o quell’angolo del
pianeta che subito scompare.
Per
una settimana ci arrivano le notizie sulla guerra in
Cecenia. Poi le notizie scompaiono. La guerra no,
quella continua, con il suo corollario di morti e di
massacri. Ma se la finestra è chiusa, se il
riflettore non è acceso, esiste ancora la Cecenia?…”
(C.Fracassi)
Ad
aprire e chiudere le finestre sono sia i processi di
formazione delle notizie, nella maggior parte dei
casi, che sono lunghi e complessi per cui le
distorsioni sono involontarie e inevitabili, sia i
fabbricanti di eventi che modificano la realtà o ne
inventano per far notizia, per apparire sui mezzi, o
per altri scopi più biechi e discutibili.
COS’
È UNA NOTIZIA
La
notizia è innanzitutto “una costruzione umana, un
prodotto culturalmente determinato” (C.Fracassi), ma
tecnicamente parlando una notizia è “ un rapporto
per un pubblico su un avvenimento”. Gli elementi
fondanti sono quindi il pubblico, troppo spesso
sottovalutato nonostante sia la ragione dello scrivere
e l’evento, che diventa notizia solo se da
origine a una notizia, cioè se appare sui media, e
produce informazione. Un avvenimento diventa notizia,
è cioè notiziabile se risponde a diversi criteri di
cui diremo in seguito.
Una
notizia può essere classificata in modo diverso a
seconda degli autori, per esempio Violette Martin
distingue in fabulative e dimostrative, mentre Mc
Quail in “hard news”, i fatti, “soft news”,
cioè le notizie di secondo piano o senza connotazione
temporale, “spot news”, cioè fatti nuovi,
“notizie in corso di svolgimento”, “notizie in
serie continua”.
In
base a un criterio temporale Mc Quail classifica le
notizie in :
programmate:
fatti in agenda la cui copertura può essere
programmata;
non
programmate: fatti che avvengono inaspettatamente e
devono essere immediatamente divulgati;
non
soggetti a rigida programmazione: sono le “soft
news” e
possono essere immagazzinate e
diffuse in seguito in base alle esigenze e alle
necessità dell’organizzazione.
CRITERI
DI NOTIZIABILITÀ
Mario
Lenzi aveva scritto per
i redattori dei giornali locali del gruppo
Caracciolo un manualetto pratico in cui
elenca le sette caratteristiche in base alle
quali un fatto diventa notizia.
1-La sua carica di novità e la
sua singolarità anche in relazione al tipo di
pubblico a cui il giornale si rivolge.
2-L’importanza pratica che un
fatto assume per la vita della
gente. Per esempio il rincaro dei prezzi, lo
scoppio di un epidemia…
3-Le
possibili conseguenze sulla vita quotidiana e sugli
interessi di ciascuno
4-La
vicinanza fisica o semplicemente psicologica
5-La
possibilità di far leva sulle emozioni e di creare un
senso di attesa
6- Lo
sviluppo che un avvenimento promette
7-Il
carattere di esclusiva.
Fabrizio
Fornezza, un giovane studioso italiano, ha individuato
due grandi classi di notiziabilità:
·
La notiziabilità
“ politica”: sotto due aspetti:
a-
il primo è che fa notizia ciò che
è funzionale alle esigenze riproduttive del
sistema socio-economico a cui appartiene il mass
media, cioè gli eventi conformi alla linea politica
del giornale o compatibile con essa.
b- Il secondo aspetto riguarda
la “linea” del giornale, decisa dalla proprietà e
“controllata” dalla direzione che avendo maggiori
“simpatie” e attenzioni verso certi temi o aree
politico- economiche, ne favorisce la notiziabilità.
A questo riguardo Warren Bread afferma che nelle moderne democrazie occidentali simpatizzare
per una parte politica non comporta prevaricazione,
piuttosto omissioni, selezione differenziale e
piazzamento preferenziale.
·
La
notiziabilità- tecnico professionale: un evento
avrà più possibilità di diventare notizia quanti più
dei seguenti criteri soddisferà:
-
svolgersi in sintonia coi tempi del quotidiano;
-
superare una certa soglia, diventare cioè un “evento
primato”;
-
avere bassa ambiguità di interpretazione.
Infatti più un evento è complesso più minori
saranno le sue possibilità di diventare notizia senza
subire mutilazioni e “semplificazioni”;
-
l’essere signicativo, provenire cioè dallo
stesso contesto culturale del giornalista e del
pubblico o comunque da contesti ad essi vicini. E’
una forma di etnocentrismo culturale.
-
corrispondere alle attese del pubblico;
-
l’essere inatteso. Questo criterio potrebbe
sembrare una contraddizione degli altri due, mentre ne
è solo un correttivo: tra tutti gli aventi
significativi e che rispondono alle aspettative
diverranno notizia quelli più inattesi e/o rari;
-
grazie a questi criteri l’evento, diventato
notizia acquista una certa famigliarità col pubblico
e col giornalista che ne facilita una successiva
selezione;
-
quanto più un evento sarà stato selezionato
come notizia, tanto più in seguito se ne sceglierà
una diverso in modo da ottenere un prodotto
informatico, equilibrato, bilanciato,
appetibile a un pubblico eterogeneo;
-
provenire da una nazione élite;
-
riguardare persone d’élite;
-
“quanto più un evento può essere visto in
termini personali, come dovuto all’azione di
individui specifici, tanto più diventerà notizia”;
-
avere conseguenze molto negative;
-
avere possibilità di diventare
“emozionane”, di avere cioè una carica
drammatica, azione o conflitto;
-
provenire da fonti attendibili;
-
avere esclusività dell’organizzazione
giornalistica;
-
essere economico nella raccolta e
nell’elaborazione delle informazioni riguardanti
l’evento. Un evento costoso riceverà copertura solo
se molto importante;
-
avere immagini
fotografiche. Per la selezione di queste valgono gli
stessi criteri delle notizie, più altri più tipici
(valore estetico della foto, formato…).
Criteri di Wolf analizzati da Michele Sorice e
integrati con un volume di Alberto Pupazzi
Criteri strutturali, relativi cioè al contenuto:
-
Grado e livello degli attori coinvolti
e il loro prestigio sociale
-
Impatto sulla nazione
e sull’interesse nazionale
-
Impatto internazionale; sviluppo di un idea
condivisa di progresso per cui esiste anche una scalea
di valore per le notizie scientifiche.
-
Vicinanza
-
Quantità di persone coinvolte (legge di mc
Lurg)
-
Conflittualità , presentata anche se spesso
inesistente o latente
-
Rilevanza e significatività dell’evento rispetto a sviluppi futuri
Criteri relativi al prodotto giornalistico
-
Brevità specie per il giornalismo
radiotelevisivo
-
Novità, per i lettori
-
Attualità, per le redazioni
-
Ritmo: i mezzi prediligono i mezzi che si
adattano al loro ritmo
-
Completezza o qualità della storia
-
Chiarezza del linguaggio
-
Standard tecnici :una notizia ha tante più
possibilità di diventare notizia quanto più si
adatta al agli standard tecnici
del mezzo
-
Comunicabilità cioè la semplicità nella
trasmissione e interpretazione di un evento.
Criteri relativi al mezzo
-
Qualità del materiale filmato e delle
immagini, se è buona favorisce la notiziabilità, se
è pessima
avvalora la drammaticità della situazione
-
Frequenza dell’avvenimento simile alla
frequenza del mezzo
-
Formato, cioè la loro struttura narrativa
Criteri relativi al pubblico
-
Identificazione nella notizia e non è semplice dato che di
solito gli apparati informativi non conoscono la loro
utenza
-
Servizio cioè incremento delle condizioni fattive degli
individui
-
Conseguenze pratiche nella vita quotidiana.
-
No eccesso di informatività: deve esserci un bilanciamento
tra elementi nuovi ed elementi già conosciuti in modo
che i fruitori li interpretino correttamente.
Criteri relativi alla concorrenza
Molte notizie possono essere
selezionate solo in previsione che altre testate
faranno lo stesso oppure selezionate nei loro dettagli
anche più insignificanti per produrre
differenziazione in un prodotto omogeneizzato dagli
stessi meccanismi del sistema informativo
La
competizione può contribuire
a stabilire parametri professionali ,e modelli
di riferimento. In America per esempio
il New York Times è trattato come il prototipo degli standard professionali.
Questi
criteri non sono definitivi, sono frutto della ricerca
fino a questo momento. I valori notizia sono valutati
nei loro rapporti reciproci, in connessione gli uni
gli altri e non presi singolarmente o isolatamente.
FONTI
Per
fonti si intendono tutte quelle persone che il
giornalista osserva o intervista e quelle che
forniscono solo le informazione di base o gli spunti
per una notizia.
Le
fonti possono essere primarie ( sono l’insieme degli
accadimenti) e intermedie: sono le agenzie di stampa,
le istituzioni che selezionano e codificano la notizia
mettendola poi a disposizione degli apparati della
comunicazione di massa. Permettono una produzione
d’informazione ricca veloce ed economica.
Ci
sono diversi tipi di fonte e il giornalista impara col
tempo a conoscerle a trovarle a controllarle, a farle
parlare, a interpretarle. Il lettore invece spesso non
le conosce ed è questo un punto di debolezza.
Un
tempo i giornalisti dovevano trovare le fonti e
costringerle a parlare. Poi le fonti hanno imparato
che ai giornalisti non importano tanto i fatti quanto
più le notizie e quindi per modificare o nascondere i
primi era necessario produrre direttamente le seconde
. E’ questo uno dei motivi per cui
negli ultimi tempi c’è stato un
grande aumento delle fonti, di uffici stampa .
Attualmente
tra fonte e giornalista c’è un complesso rapporto
di complicità-conflitto: il giornalista cercherà di
accattivarsi la fonte citandola positivamente o
rispettando la sua richiesta di riservatezza, e in
cambio otterrà delucidazioni, spiegazioni non
ufficiali, vere e proprie notizie.
La fonte da parte sua cercherà
di orientare il lavoro del giornalista per trarne
vantaggio. E’ stato scritto anche che il rapporto
fonte-giornalista è come una danza, guidata di solito
dalle fonti.
Criteri che fanno scegliere una certa fonte sono la convenienza
mostrata in precedenza, cioè se le fonti hanno
fornito materiale attendibile potrà essere scelta
ancora fino a diventare stabile; la produttività,
cioè la ricchezza del materiale messo a disposizione;
l’affidabilità, cioè la credibilità dell’informazione; l’autorevolezza,
cioè a parità di altre condizioni si preferiscono
fonti ufficiali e l’attendibilità, cioè l’esigenza di controlli minimi.
Dice
la Maffai che coll’aumento smodato delle fonti di
informazione c’è il rischio che un’attività
giornalistica si trasformi in un’attività
fortemente routinizzata e spesso subalterna ad affinità
ideologica e ambientale o ad intrecci finanziari o di
altro genere che si vengono a creare a tra fonte e
giornalista. Bechelloni sottolinea il carattere
particolare delle fonti professionali o semi
professionali o che producono un’informazione per
promuovere un’immagine pubblica della propria
attività ricorrendo a tecniche di relazioni pubbliche
pubblicitarie o di ufficio stampa.
Il
rischio è che il giornalista si trasformi in un
burocrate addetto allo smistamento di un prodotto e al
suo confezionamento e che l’informazione subisca
gravi distorsioni.
LE
FONTI ISTITUZIONALI
Le
fonti istituzionali sono gli uffici stampa e i
portavoce degli organi centrali e periferici dello
stato, degli enti pubblici o privati dei partiti e di
ogni altro organo che rappresenti una fetta grande o
piccola della struttura di potere. Ultimamente i
rappresentati stessi delle istituzioni sono le fonti,
agiscono cioè senza tramiti burocratici.
Queste fonti
fondano sul segreto e sulla reticenza la loro
strategia informativa, amministrando e somministrando
le proprie informazioni secondo convenienze e
opportunità di tempo e di luogo
per valorizzare la propria immagine,
accreditare la propria autorità, pilotare l’effetto
della “rivelazione” o l’interpretazione di
comodo, per produrre eventi o modificarli.
Forniscono gratuitamente
materiale notiziabile e rispondono meglio a criteri di
produttività, affidabilità e attendibilità,
ottemperando alle necessità organizzative delle
redazioni, e su questioni controverse rappresentano il
punto di vista ufficiale.
AGENZIE
DI STAMPA
L’agenzia
di stampa è un’impresa
giornalistica pubblica o privata, che
raccoglie, elabora e distribuisce quotidianamente, a
pagamento, a organi giornalistici, non giornalistici e
privati, in ambito regionale, nazionale,
internazionale, con sistemi tecnici veloci (per
esempio PC, videoterminali…),informazioni generali o
specializzate.
La
prima agenzia, la Havas, nacque a Parigi nel 1835,
seguita dalla tedesca Wolf nel 1849 e
dall’inglese Reuter nel 1851.
La
Havas, nacque grazie ad alcune
intuizioni del suo fondatore: l’informazione
può essere uno strumento di lavoro; l’informazione
è tanto più valida quanto più è rapida;
l’informazione è tanto più appetibile ed efficace
se è completa. E per realizzare la completezza i suoi
figli strinsero accordi con le altre due agenzie:
prima si scambiarono solo i listini di borsa poi anche
le altre informazioni arrivando fino alla spartizione
del mondo che se da un lato fu positiva, in quanto
riuscivano a fornire molte informazioni e in modo
molto economico, dall’altro fu una cosa gravissima
in quanto determinò l’oligopolio
dell’informazione.
Quest’alleanza
si ruppe con l’avvento della prima guerra mondiale.
Intanto
in Italia era nata nel 1853 l’agenzia Stefani,
voluta da Cavour e sempre molto vicina al governo. Nel
1867 era
stato stipulato un accordo con la Havas, che però
avrebbe poi dovuto lasciare nel 1890
per la tedesca Wolf. Con Mussolini diventò un
“organo politico di governo, e ancor più di
battaglia”, “il più delicato strumento
giornalistico del regime”. Quest’agenzia ebbe un
tragico epilogo: il presidente, Morgani, fedelissimo
del duce, si suicidò alla notizia dell’arresto di
Mussolini.
Nel
1945 fu fondata l’Ansa, nello spirito della
Resistenza e della riconquistata libertà. Promotori e
fondatori erano i rappresentanti
delle formazioni politiche più consistenti:
Giuseppe Liverani, democristiano, Primo Parini,
socialista, Amerigo Terenzi, comunista.
Questa
iniziativa ebbe il consenso degli americani e inglesi
che abolirono l’agenzia in lingua italiana da esse
costituita e operante nelle regioni liberate, la
Notizie Nazioni Unite.
Ricordiamo
tra tutte le agenzie italiane l’AGI, agenzia
giornalistica nata nel 1950 e trasformata in Agenzia
Giornalistica Italia nel 1960 e l’Adn-Kronos, nata
nel 1960 dalla fusione dell’Adn e Kronos.
In
America nacque nel 1848 la “New York Associated
Press” una società cooperativa senza scopo di lucro
e con l’obiettivo di assicurare ai soci
un’informazione a basso costo. Giuridicamente è la
forma più genuina di un agenzia di stampa.
Struttura di
un’agenzia di stampa
Né la
struttura ,né il funzionamento di un’agenzia sono
uguali a quelle di un’altra agenzia. Gli elementi
che le caratterizzano sono:
natura
dell’impresa: pubblica, semi pubblica, privata;
destinatari:
organi giornalistici (stampa, radio, tv),enti statali,
organismi amministrativi economici(pubblici e privati)
politico e sindacali;
contenuti:
informazioni e valutazioni politiche, propaganda,
informazione generale o settoriale, nazionale,
regionale, scritta filmata, fotografica, in voce;
dimensioni:
nazionali internazionali mondiali;
organizzazione:
in proprio ,cioè con proprie strutture, o con
dipendenza maggiore o minore da altre agenzie;
tecnologie
tradizionali, elettroniche, su sistema
automatizzato.
FORMAZIONE
DELL’INFORMAZIONE
Raccolta
Il
materiale viene raccolto dalle strutture interne,
esterne, dalle agenzie collegate o inviato
direttamente dagli enti interessati.
Le strutture
esterne sono gli uffici di corrispondenza,
all’interno e all’esterno, e i corrispondenti.
Spesso il materiale viene inviato di solito su linea
telefonica con un codice all’ufficio che ha
competenza per quell’area geografico-politica .
Le strutture
interne sono le redazioni e i servizi centrali che
raccolgono il materiale informativo di propria
competenza, o all’esterno (inviati, cronisti), o
all’interno attraverso ricerche telefoniche
.
La
suddivisione della struttura della redazione centrale
varia molto da agenzia a agenzia. E’ nella redazione
centrale che si sceglie e traduce in diverse lingue il
materiale per il notiziario per l’estero.
Le agenzie
collegate sono quelle i cui notiziari servono o
per assicurare (questo vale specie per le agenzie
nazionali) o per integrare (nel caso delle agenzie
internazionali ) i servizi di informazione
all’estero.
Produzione ed elaborazione
Il
materiale prodotto dalle strutture interne ed esterne
dell’agenzia e dagli inviati non ha bisogno di
ulteriori elaborazioni, ma soltanto di controlli (in
rapporto a informazioni proveniente da altra fonte) e
di valutazione (in rapporto allo spazio di
trasmissione di cui dispone).
Il
materiale proveniente da strutture non aziendali, come
agenzie di stampa e uffici stampa o enti o singoli
comunque interessati deve essere attentamente valutato
secondo l’autorità della fonte l’interesse
giornalistico che esso presenta.
Il
processo generale di formazione di una notizia è
quindi:
- valutazione secondo gli interessi giornalistici che il materiale
riveste in rapporto alle caratteristiche
dell’agenzia e alle caratteristiche dei suoi
destinatari;
- scelta in relazione allo spazio a disposizione dei vari notiziari
prodotti dall’agenzia;
- elaborazione vera e propria :controllo di esattezza, confronto con
altre versioni o testi, in un riassunto per adeguarlo
alle esigenze e redazionali, in rapporto allo spazio
disponibile e all’ora, in traduzione del materiale
per l’estero;
- avvio con
l’indicazione del grado di precedenza.
Distribuzione dell’informazione
Atraverso
vari sistemi tecnici veloci
secondo l’apparato tecnico di ricezione.
AGENZIE
DI PUBBLICHE RELAZIONI
Negli
anni ’30, in America, erano già molto numerosi i
consulenti in relazioni pubbliche, che per lo più si
dedicavano alla creazione di notizie, il nuovo
esaltante mestiere di quel periodo, dando origine a
quella commistione tra flusso informativo, spettacolo
e pubblicità che a noi ora appare inevitabile. A metà
degli anni ’50, James Reston definì come “news
management”- gestione delle notizie- la pratica
corrente dei gruppi di potere, istituzioni, soggetti
forti dell’informazione, di fabbricare le notizie e
di creare eventi per generarle.
L’uso
dei mezzi di comunicazione per lanciare messaggi
rassicuranti si è diffuso soprattutto in politica.
La
filosofia del “news manegement”- controllare le
fonti, gestire l’informazione destinata ai grandi
mezzi di comunicazione di massa, indirizzarla
opportunamente- si trasformò in pratica
nell’organizzazione di eventi o meglio li definisce
Daniel Boorstin “pseudo- eventi”, eventi cioè
“organizzati allo
scopo immediato di essere riportati o riprodotti”.
Il
“successo” di questi pseudo-eventi sta proprio
nella struttura stessa dell’informazione: essa
infatti è
basata su notizie che apparentemente raccontano fatti;
è vorace e divora ogni giorno una gran quantità di
informazioni; è assillata dal tempo, deve dare ora,
subito, il senso di una vicenda; in più l’opinione
pubblica ha sempre meno capacità di distinzione tra
fiction e realtà. Ed è proprio di fronte a questo
tipo di manipolazioni che chi riceve la notizia appare
particolarmente disarmato, ragiona sulle notizie, ne
discute, le confronta, ma non viene in mente di
contestarne l’esistenza stessa.
STRUMENTI
DELLE PR
Photos
opportunities, foto cioè di situazioni ambientali
in cui il personaggio di turno può essere ripreso in
atteggiamenti significativi. Sono immagine simbolo,
dietro cui spesso c’è il vuoto informativo.
I
video news release, filmati prodotti a una
particolare scopo da organizzazioni non
giornalistiche. Sono una truffa perché assumono
valore di notizia, sono mandati in onda senza che si
dica chi li ha prodotti.
Un
caso emblematico di questo è il naufragio della super
petroliera Exxon Valdez che nel marzo del 1989 naufragò
al largo delle coste dell’Alaska. La Exxon aveva
mandato sul posto decine di operatori e di addetti
all’immagine nella zona per cercare di arginare
l’impatto negativo di questo disastro ecologico
sull’opinione pubblica mondiale. Arrivarono sul
posto anche i responsabili
dell’amministrazione dell’Alaska e i volontari di
Greenpeace. Ciascuno di questi produsse un video che
fu mandato in onda dalle televisioni: ci fu quindi che
vide la notizia con gli occhi degli ambientalisti,
chi con quelli dello stato, chi con quelli
della Exxon a seconda dal video visto. La cosa
peggiore però fu che questi video furono mandati
sotto forma di notizia.
La
creazione di eventi: può essere fatta sia da
giornalisti che cercano la via più breve per simulare
una realtà difficile da catturare oppure da
professionisti della comunicazione, come appunto le
agenzie di relazioni pubbliche non solo al servizio di
imprese commerciali, ma anche di Stati e di governi e
quindi coinvolti in operazioni di politica
internazionale.
Vedremo
in seguito alcuni esempi nella guerra del Golfo e in
quella delKossovo.
Qui
riportiamo il primo caso di iniziativa di agenzie pr
che riguarda la complicata vicenda cilena.
“Già
nel corso delle elezioni del1964 le agenzie Mc Cann -
Erikson erano state incaricate dalla Cia di effettuare
sondaggi ed esperimenti sul campo sul tema del
“pericolo comunista”. Dal 1970 al 1973 nel periodo
dell’ascesa della vittoria di Salvador Allende le
due agenzie tornarono ad occuparsi del Cile creando
eventi e diffondendo notizie che mettessero in guardia
il ceto medio cileno dai rischi di un “crollo
dell’economia” e di “violenze rosse”. Il
lavoro fu svolto, pare, con estrema professionalità.
CONSIGLI
DI LETTURA
Fracassi
suggerisce di considerare l’articolo o il servizio
televisivo come il prodotto di un punto di vista, del
rapporto con una fonte, tacita o esplicita, di un
contributo utile e nello stesso tempo parziale per la
comprensione delle cose.
Controllare
la fonte è importantissimo: se la notizia non ha
padri né madri è opportuno diffidare, specie se non
esistono ragioni di sicurezza per tenerle nascoste;
controllare il luogo di provenienza della notizia e
l’oggetto trattato: sarà infatti da prendere con le
molle una notizia sulla Romania datata Vienna, per
esempio.
Considerare
i protagonisti: se rimangono generici senza un valido
motivo c’è qualcosa che non funziona.
Fracassi
suggerisce comunque di non andare direttamente alle
fonti scavalcando la mediazione giornalistica
sia perché l’universo dei fatti è smisurato
e la scelta di ciò che dobbiamo sapere o ignorare è
comunque esercitata da altri, sia
perché il giornalista ha un potere di
contrattazione con la fonte e ha strumenti per
svolgere indagini sui fatti raccontati.
TIMISOARA: UN CLAMOROSO FALSO
GIORNALISTICO
Nei
giorni del Natale 1989 una terribile notizia fece il
giro del modo. Durante la rivoluzione rumena, nella
città di Timisoara era stato compiuto un orribile
massacro. A prova della tragedia il ritrovamento di
fosse comuni con 4632 cadaveri di persone mutilate e
torturate.
Il
giornalista Claudio Fracassi, nel suo libro “le
notizie hanno le gambe corte”, spiega la nascita e
la travolgente crescita
del “più grande inganno mondiale dopo
l’invenzione della televisione” (secondo la
definizione di Ignacio Ramonet di Le
Monde Diplomatique) fino alla sua morte passata
perlopiù sotto silenzio, ossia quando solo pochissimi
organi di stampa ne rivelarono la natura radicalmente
falsa.
Nel
ripercorrere la vita della notizia l’autore fornisce
una serie di indicazioni su come sia possibile
riconoscere le false notizie.
La
prima fonte della notizia era anonima: un non meglio
identificato “viaggiatore cecoslovacco”, i cui
racconti erano stati riferiti dall’agenzia di stampa
ungherese Mti, poi dalla televisione di Budapest e
dalla radio di Vienna. Questo accadde una domenica, il
17 dicembre 1989, dunque in un “giorno di disperata
carenza di notizie (e di rilassate distrazioni) nelle
redazioni giornalistiche di tutto il mondo”.
Complice il fatto che il venerdì precedente si erano
effettivamente verificati “scontri sanguinosi tra i
manifestanti e la polizia di Ceausescu”, le cronache
del lunedì successivo informarono de ”l’orrendo
massacro”. Nei giorni seguenti la notizia,
assolutamente priva di riscontri oggettivi si impose
sui mezzi di comunicazione del pianeta, a partire
dalle emittenti dell’Est europeo fino a diventare
“una verità assodata e indiscutibile come il sole
che sorge ogni mattina”.
La
fonte della notizia rimane vaga e in ogni modo
anonima, mentre la cifra degli assassinati e quella
degli arrestati salgono sempre di più fino ad
assestarsi rispettivamente a 4.600 e 13.000 proprio
quando dalla televisione ungherese arriva la
drammatica conferma del massacro: le immagini delle
fosse comuni di Timisoara in cui i cadaveri, appena
esumati e ancora parzialmente ricoperti di terra,
erano allineati alla luce delle torce elettriche;
tutti i corpi riportavano i segni delle torture e
delle mutilazioni. Icona del massacro divenne il
corpicino di una bimba che giaceva su quello di una
donna, probabilmente la madre, con una lunga ferita
sul torace.
Complice
il fatto che la frontiera ungherese della Romania era
ancora chiusa ai giornalisti, “la verità delle cose
viste rese credibile la menzogna delle cose
sentite”, tanto che le immagini fecero il giro del
mondo.
Il
fatto davvero sconvolgente fu che, una volta arrivati
a Timisoara gli inviati dei maggiori giornali, mancò
un “accertamento dei fatti e delle cifre”.
Infatti,
ci fu solo una “definizione matematica dei numeri”
(4.632 le vittime e 13.214 gli arrestati) così da dar
loro “una sorta di timbro ufficiale, come se
un’efficiente burocrazia avesse condotto la penosa
conta” e una dopo l’altra si rincorsero su tutti i
giornali “le impressionanti descrizioni dei morti e
delle torture”.
Il Corriere della Sera: “Abbiamo assistito alla battaglia di
Timisoara […] La maggiore battaglia urbana del
dopoguerra […] Tortura […] La repressione ha
provocato migliaia di morti”.
L’Unità: “Quattromilacinquecento cadaveri irriconoscibili,
mutilati, mani e piedi tagliati, con le unghie
strappate”.
La stampa: ”Migliaia di cadaveri nudi legati col filo spinato,
donne sventrate e bambini trucidati”.
Solo
in seguito, “quando si spense l’ubriacatura
mediatica”, pochi giornali fecero sapere quanto era
accaduto in realtà. In totale le vittime degli
scontri a Timisoara erano state poche decine, le
immagini messe in onda dalla televisione ungherese
erano state girate nel cimitero dei poveri e quelli
riesumati erano i “corpi di sventurati barboni,
alcolizzati emarginati, sepolti nei mesi precedenti
senza cassa e senza croce dopo una rapida autopsia”,
causa della ferita sul torace dei cadaveri
interpretata dai reporter come conseguenza delle
torture. Il corpicino icona del massacro era quello di
una bimba “deceduta per congestione, a casa sua, a
due mesi e mezzo di età, il 9 dicembre 1989”,
mentre quello della donna con la lunga ferita sul
torace era di “una anziana alcolizzata morta di
cirrosi epatica l’8 novembre”.
Risulta difficile credere che
un simile errore sia stato possibile nonostante la
preparazione dei giornalisti, liberi di muoversi e
raccogliere informazioni, e le tecnologie a loro
disposizione. Secondo Fracassi “fu proprio
l’illusione della storia in diretta cerata dalle
immagini televisive delle fosse comuni, ossessivamente
ritrasmesse, a mandare in tilt l’intero sistema
mediatico”.
Si
seppe poi (qui la fonte è Le
Nouvel Observateur) che erano stati gli stessi
caporedattori, solitamente impegnati a far opera di
moderazione sugli inviati troppo enfatici ed
entusiasti, a “sollecitare articoli che fossero
all’altezza della drammaticità delle immagini”.
Solo
pochi, più attenti e onesti giornalisti, tra cui
l’italiano Paolo Rumiz, ammisero poi di essere
“caduti nell’imbroglio”. Infatti, in quei giorni
di indignazione e sgomento prevalse la linea del
conformismo secondo qui “tutti lo scrivono, la tv lo
fa vedere, dunque è vero”; tanto che quando, alla
vigilia di Natale, l’inviata di Le
Soire, l’affermata giornalista Colette Breackman,
si rese conto che a Timisoara non c’erano né
migliaia di corpi ammucchiati né ospedali straripanti
di feriti, preferì tacere poiché già tutti
parlavano dell’orrendo massacro.
Fu
invece un giovane cronista che si azzardò a parlare.
“Michele Gambino, allora reporter di un quotidiano
locale lombardo, e recatosi in Romania a sue spese
[…] fece la cosa più ovvia prevista dal mestiere:
andò al cimitero dei poveri per esplorare le fosse
comuni e parlare con i testimoni”. Ma quando il
giornalista chiamò in Italia per raccontare la verità
che aveva scoperto, il suo caporedattore preferì
affidarsi alle notizie di agenzia e non gli pubblicò
una riga.
Sono
dunque l’incertezza delle fonti (“un viaggiatore
cecoslovacco proveniente dalla città romena di
Timisoara”) e l’anonimato dei protagonisti i
principali indizi che dovrebbero far pensare ad un
falso, in modo particolare quando la notizia del fatto
proviene da un luogo distante da quello dove esso è
effettivamente accaduto. Infatti essendo stata data a
Vienna la notizia sulla Romania sarebbe stato logico
pensare che il giornalista potesse conoscere i fatti
solo per sentito dire.
L’ingigantimento
dell’informazione è provocato poi dal “gioco di
rimbalzo tra i mezzi di informazione elettronici
(radio e televisione) e giornali”. In questo caso
l’informazione può non convincere ma condizionare,
costringendo l’individuo a mettere da parte il
proprio giudizio pur di non sentirsi isolato.
GESTIONE DELLA
COMUNICAZIONE NEI CONFLITTI
Ora
vorremmo analizzare il tipo di informazione che è
stato prodotto in occasione di specifiche situazioni
per verificare le considerazioni esposte in precedenza
sul percorso di formazione e diffusione delle notizie.
Esamineremo
in particolare la situazione in occasione di
conflitti, proprio perché è in tali contesti che
risultano evidenti le condizioni e gli interventi che
forgiano la comunicazione.
COMUNICAZIONE
NELLA GUERRA DEL GOLFO
Vediamo
ora l’analisi della comunicazione giornalistica e
televisiva del periodo relativo alla guerra nel Golfo
del 1990/91. Tratteremo in modo particolare i messaggi
passati nei paesi dell’Europa Occidentale dopo
l’intervento statunitense.
Immagine del conflitto
veicolata in Occidente
I
mezzi di comunicazione Occidentali hanno dipinto
l’immagine di una guerra semplice, giusta e pulita,
utilizzando categorie stereotipate dai contorni ben
delimitati.
Lo
schema era quello quasi matematico di un grande stato,
l’Iraq, guidato dal “nuovo Hitler” di turno,
Saddam Hussein, che si era lanciato nell’invasione
del piccolo Kuwait e del provvidenziale intervento
U.S.A. a difesa degli oppressi e dell’ordine
mondiale.
D'altronde,
la struttura del conflitto e la lontananza spaziale
dei luoghi in qui questo veniva combattuto
facilitarono una simile semplificazione laddove i
media erano gli occhi e le orecchie del pubblico
occidentale.
Rapporto tra militari e
giornalisti
Il
conflitto nel Golfo è stato simile ad un “buco nero
mediatico”. Infatti, secondo il famoso giornalista
americano Bill Kovach, i militari statunitensi hanno
esercitato uno “strettissimo controllo sui media”
giustificato dalla “preoccupazione per i rischi che
i giornalisti avrebbero corso lavorando sui campi di
battaglia“ e il timore che la tecnica della
trasmissione in diretta avrebbe potuto “passare al
nemico informazioni di vitale importanza
strategica”. Proprio per minimizzare questo rischio
i militari hanno messo a punto un sistema di sicurezza
che prevedeva un’autorizzazione per trasmettere
dalle zone di guerra, la possibilità di copertura
informativa solo per determinati avvenimenti,
l’utilizzo sistematico di conferenze stampa concesse
dai generali dell’esercito e un piano di “visite
guidate”. In queste occasioni “gruppi di reporter
venivano scortati da ufficiali dell’esercito che
raccontavano la stessa storia a tutti i giornalisti
accreditati per quella zona”.
Tuttavia
le forze militari non riuscirono ad impedire i
reportage televisivi degli attacchi missilistici su
Baghdad, Tel Aviv e Riyadh, unica copertura
informativa non soggetta a controllo.
Sempre
secondo Kovach,
”i pezzi scritti dai luoghi a cui i giornalisti
avevano accesso erano soggetti poi a un’ulteriore
censura, nella maggior parte dei casi politica, che
mirava a eliminare le informazioni imbarazzanti per
l’esercito”. Quei reporter che tentarono di
informare l’opinione pubblica restando fuori dai
gruppi vennero immediatamente bloccati, la stessa
fonte parla di
50 giornalisti americani trattenuti, alcuni anche
arrestati per aver tentato di eludere le limitazioni
imposte dall’esercito. Altri invece caddero
prigionieri delle truppe irakene che li trattennero
per qualche tempo; tra questi Bob Simon della CBS.
In
sostanza la maggior parte delle informazioni che
giunsero al pubblico occidentale furono quelle
raccolte nel corso delle conferenze stampa ufficiali.
Solo dopo la conclusione del
conflitto si scoprì che i media erano stati
utilizzati anche per trarre in inganno lo stesso
Saddam almeno in due occasioni. In primo luogo
precedentemente all’attacco erano stati rilasciati
ai giornalisti lunghi elenchi di unità di
combattimento chiamate in servizio attivo nel Golfo,
tanto da dare l’impressione di un enorme esercito
convocato ancor prima dello scoppio del conflitto,
mentre in realtà per ogni singola unità erano stati
convocati solo pochi componenti. In secondo luogo,
stando sempre a quanto riporta Kovach, “vennero
rilasciate alla stampa dichiarazioni infarcite di
dettagli tecnici su un probabile attacco di forze
anfibie dalla parte del Golfo Persico e di truppe
regolari dalla zona desertica di confine con il
Kuwait”; in questo modo le truppe alleate trassero
in inganno l’esercito iracheno, concentratosi al
centro e sul fianco orientale dello schieramento
difensivo, e sferrarono invece l’attacco sul fianco
occidentale.
La
guerra nel Golfo ha in qualche modo segnato il
“fallimento dei giornalisti”, nel senso che la
responsabilità di un’informazione distorta e
lacunosa non grava solo sulle spalle dei militari ma
anche sulla leggerezza con cui i reporter hanno
compiuto “errate interpretazioni e estrapolazioni
poco chiare dei rapporti dei portavoce
dell’esercito”.
Due esempi
di comunicazione manipolata dai militari
A
partire dal gennaio 1991 ha praticamente fatto il giro
del mondo, sulle prime pagine dei rotocalchi e sulle
messe in onda delle Tv in prima serata, la foto di un
cormorano agonizzante, inzuppato del petrolio che era
straripato in mare dopo l’incendio dei pozzi
kuwaitiani.
In
realtà questo tipo di volatile non sosta
tradizionalmente nella stagione invernale in quel
tratto di mare.
Tuttavia
il cormorano è diventato l’icona della morte e
della catastrofe ecologica nonché ulteriore denuncia
della barbarie del despota di Bagdad.
In
quest’occasione si parlò di una marea nera, pari a
5 milioni di tonnellate di grezzo, che stava
sommergendo le coste del Golfo e che fu solo
successivamente ridimensionata a meno di 500 mila
tonnellate contando anche quelle fuoriuscite da tre
petroliere irakene e da alcune raffinerie colpite da
bombe statunitensi.
Un caso radicalmente inventato
è lo scandalo delle incubatrici. Stando ad un dossier
apparso su “Missione oggi, “secondo alcuni inviati
che avevano raccolto l’informazione i soldati
iracheni, una volta occupata Kuwait City, entrarono
nell’ospedale della capitale e scaraventarono i
neonati fuori dalle incubatrici del reparto di
maternità”.
La
notizia si rivelò falsa solo alla fine del conflitto.
Nayrah, la giovane donna che si era presentata davanti
alle telecamere come testimone oculare del fatto, si
rivelò essere, non un’infermiera ma la figlia
dell’ambasciatore del Kuwait a Washington,
imparentata con la famiglia reale e studentessa negli
Stati Uniti.
La
storia, che aveva contribuito non poco a far crescere
l’odio contro Saddam, era stata inventata da un ex
addetto alle comunicazioni del presidente Regan in
collaborazione con l’agenzia di relazioni pubbliche
americana Hill e Knowlton, entrambi pagati
dall’emirato.
Immagine di una guerra
pulita
La
pesante influenza dei militari sull’informazione
proveniente dal Golfo ha contribuito a forgiare
l’immagine di una guerra pulita dove i bersagli
militari sono “chirurgicamente” selezionati e
colpiti senza conseguenze per la popolazione civile a
parte qualche inevitabile “danno collaterale”.
Le reali conseguenze del
conflitto divennero chiare solo in seguito. Infatti
solo dopo la fine della guerra si seppe che “il 90%
delle bombe sganciate sull’Iraq non erano
teleguidate e che perlopiù avevano mancato il
bersaglio; o che i missili Patriot lanciati per
intercettare gli Scud iracheni avevano causato a
Israele danni maggiori degli stessi Scud.” In Iraq
se da un lato rimase relativamente basso il numero
delle perdite umane dall’altro furono distrutte le
infrastrutture industriali e commerciali e le
conseguenze della guerra sulla popolazione pesarono
ancora a lungo.
COMUNICAZIONE
NEI CONFLITTI BALCANICI
Analizzeremo
i conflitti armati che hanno condotto, nei primi anni
novanta, allo smembramento della Jugoslavia. In
particolare ci concentreremo sulla guerra del Kosovo
che vide lo scontro delle forze federali sotto il
comando dei serbi di Belgrado e le milizie armate
rappresentanti la maggioranza albanese presente in
Kosovo (80%), posteriormente sostenuta anche
militarmente dall’Alleanza Atlantica (NATO).
Chiavi di lettura generali per interpretare
la comunicazione
Iniziamo
con alcune considerazioni generali sulla logica
comunicativa sottostante l’insieme dei conflitti
esplosi nella regione.
A
questo scopo, illuminanti sono le precise osservazioni
e le nuove prospettive che ci propone P. Rumiz
nel suo libro “Maschere
per un massacro” ( Editori Riuniti 1996).
Tali
osservazioni ci esortano a leggere la comunicazione
considerando alcuni elementi determinanti per il “
news making”. Da una parte gli interessi politici,
economici e più contingentemente bellici, delle parti
in gioco, e dall’altra i bisogni materiali e
soprattutto psicologici che sono stati usati e
fomentati per il raggiungimento dei primi obiettivi.
Infine considerare i parametri
a cui ciascuna notizia si deve adeguare,
essendo essi determinati dalla necessità dei
destinatari e dal contesto comunicativo in cui si
inseriscono.
Immagine del conflitto veicolata in Occidente
L’immagine
recepita in Occidente di tali conflitti è stata di
una guerra irrazionale, fatta di odi tribali, deliri
nazionalistici e massacri etnici; tutti elementi di un
quadro grottesco ed arcaico da relegare in un mondo
lontano: i Balcani. Tale regione, che ha originato
anche il verbo balcanizzare, è venuta a significare
l’effetto distruttivo della patologia causata dal
“virus balcanico”.
Certo,
come analizza in modo approfondito e ricco di pesanti
prove Rumiz, il conflitto ha avuto cause complesse e
si è sviluppato altrettanto complessamente:
intreccio di retaggi storici, relazioni etniche
complesse, odi e vendette, spesso enfatizzati alla luce di interessi politico-economici, nonché di una
pluralità di versioni dei fatti.
Perciò
questa realtà era troppo complessa
da capire e ancor più da comunicare alle
opinioni pubbliche occidentali. Ecco quindi che si
assiste alla costruzione di una realtà semplificata,
stereotipata, polarizzata, secondo le caratteristiche
narrative del genere “fiaba” (es. contrapposizione
amico/ nemico, buono/ cattivo).
Questo
bisogno risulta impellente, secondo un altro
giornalista, Gian Micalessin, dalla “sconfitta della
televisione”nel comunicare la guerra in Kosovo. Essa
infatti si dimostra incapace di fornire
un’informazione soddisfacente in questo caso
specifico, essendo basata sulla velocità di notizie
frammentarie, sull’impatto di poche immagini spesso
decontestualizzate, sulla forza della diretta e della
cronaca odierna, sulla spettacolarizzazione e la
personalizzazione delle notizie;
e perciò inadeguata a fornire una chiave
interpretativa per un evento così drammatico e
complesso. Gian Micalessin spiega in questo modo la
predilezione per l’informazione stampata
che ha caratterizzato l’utenza occidentale.
Comunicazione interna ai Balcani, come esacerbare l’odio
Interessante
è anche constatare come la comunicazione sia stata
strumento potente nell’enfatizzare le tensioni
etniche preesistenti tacendo, gridando, modificando
realtà storiche e fatti di cronaca in modo da far
appello ai bisogni e alle reazioni psicologiche
fondamentali degli individui, cioè:
sicurezza, identità, aggressività e
autodifesa, in modo da provocare la coalizzazione in
gruppi fondati su nuove e forti micro-indentità, così
come la demonizzazione del nemico esterno. Tutto ciò
sfruttando abilmente
la struttura cognitiva di base ( il suo
funzionamento per schemi, effetto primacy, recenza, persistenza).
Rumiz
chiarisce il piano scientificamente preparato
dividendolo in sei tappe operative:
1. disgregazione del mito titoista. 2.la costruzione di un destino storico nuovo. 3.
l’invocazione del leader da parte della massa. 4. il
risveglio dell’aggressività attraverso la paura. 5.
l’accensione dei focolai di scontro: 6. la teoria del tribalismo.
Risulta
chiaro, sotto quest’ottica, il disegno politico che
vide Milosevic già nell’87 recarsi nei luoghi della
battaglia del Campo dei Merli, in Kosovo avvenuta nel
1389 con la sconfitta dei Serbi contro gli Ottomani
e luogo fondamentale per l’identità del
popolo serbo e della religione ortodossa. Egli in
quella occasione, architettò la protesta da parte
della minoranza serba e pronunciò, in seguito
all’intervento della polizia locale, parole
storiche: “Nessuno mai più potrà picchiare voi
Serbi”. Milosevic ritornerà in quei luoghi
esattamente 600 anni dopo la battaglia (1989) del
Kosovo per farsi consacrare come leader dalla massa
serba, dichiarando l’abolizione dell’autonomia del
Kosovo ( tutto ciò è stato testimoniato da un
filmato della CNN diffuso in occidente qualche anno fa
).
In
questa fase i media assumono un ruolo determinante nel
disegno di Milosevic il quale completa la scalata
della loro proprietà. Essi assumono uno stile ed un
linguaggio aggressivo ed iperbolico. Episodi di
normale criminalità vengono gonfiati e interpretati
in modo etnico.
Avviene
un’epurazione dei giornalisti. Ma le notizie vengono
anche completamente inventate. Già nel ’88 la più
nota rubrica televisiva serba “Zip”, trasmise la
notizia di inaccettabili privilegi goduti dai
musulmani rispetto ai serbi in un villaggio bosniaco.
Pochi giorni dopo la TV di Sarajevo scoprì che era
tutto falso, anche i nomi che erano stati citati,
appartenevano a defunti.
Grande
spazio trovano sui media locali fatti del genere,
spesso basati solo su presunte testimonianze dirette,
così come particolare rilievo ottengono le posizioni
degli intellettuali compatibili con tale disegno
politico.
Il caso Kosovo
Un
altro elemento fondamentale da tener presente nello
studio della relazione tra comunicazione e guerra è
il fatto che in tali situazioni la prima vittima è la
verità; quindi non
esistano verità ma soltanto versioni, prospettive e
ciascun destinatario ha a disposizione solo alcune
informazioni parziali per quantità, fonti e qualità.
E’
ricordando tutte le precedenti riflessioni, che ci
accingiamo ad analizzare la comunicazione nel ultimo
conflitto, quello scoppiato nel ‘98/’99 nel Kosovo,
in particolare dopo l’intervento diplomatico e
militare dell’Alleanza
Atlantica.
Senz’altro,
anche in questo conflitto, si può parlare anche di
guerra di propaganda, con le parti che hanno
utilizzato la comunicazione in funzione dei propri
interessi.
Per
quanto riguarda le azioni da parte delle autorità di
Belgrado, si deve sottolineare innanzitutto
l’atteggiamento di ostruzione alla libertà di
informazione con azioni di espulsione dei giornalisti
stranieri, di ostacolazione delle attività dei pochi
operatori presenti tramite il forte condizionamento
all’accessibilità delle informazioni.
Infatti
i giornalisti venivano puntualmente condotti a
testimoniare i danni e le vittime civili provocate dai
bombardamenti delle forze NATO, senza peraltro dire se
ad esse fossero collegati obiettivi militari, o se
fossero strutture civili utilizzate a fini militari,
come nel caso di centrali radio-video trasmittenti.
Così come i giornalisti venivano tenuti alla larga
dalle zone di operazioni militari, atteggiamento
questo tenuto sia dai Serbi, che dai guerriglieri
dell’ UCK, che dalle forze NATO.
Superfluo
dire che scottanti e raccapriccianti eventi venivano
occultati non soltanto ai media, ma si tentava di
cancellarne ogni traccia concreta e di ridurne i
testimoni.
Un
caso per tutti: il trasporto in camion di grandi
quantità di cadaveri albanesi in Serbia, che poi
venivano sepolti nei luoghi più inaccessibili ad
esempio sotto le autostrade.
Ricordiamo
inoltre come la popolazione serba sia stata la
principale vittima della comunicazione propagandistica
di regime, con l’obiettivo di compattare le forze
nazionali sfruttando i meccanismi psicologici sopra
descritti. Tale processo risulta particolarmente grave
considerando la scarsa disponibilità di informazione
alternativa.
A
questo scopo evidenti sono le enfatizzazioni delle
perdite, con la solita “guerra di numeri” al
rialzo, la riesumazione imprecisa di episodi storici
in cui i Serbi sono stati vittime di altre etnie, ad
esempio le stragi compiute dagli Ustascia durante la
seconda guerra mondiale. Tudjman viene dipinto come
diretto erede di Ante Palievic, dittatore filonazista,
proconsole di Hitler tra il ’41 ed il ’45. Tali
episodi vengono ripresi e
mitizzati, alimentando un micro-nazionalismo
che si nutre di simbolismi e dell’esaltazione dei
martiri presenti e passati ( vedi struttura del piano
politico di Milosevic).
Un’interessante
prospettiva per smascherare la realtà costruita dal
regime, è l’analisi delle forme di comunicazione
meno controllabili e più personali. Tali metodi sono
stati applicati anche da osservatori internazionali
giunti in loco dopo il conflitto. Ad esempio risulta
evidente la discrasia tra le retoriche commemorazioni
ufficiali dei martiri e i semplici e profondi ricordi
dei familiari, attoniti di fronte ad un conflitto
incomprensibile. E’ questo il sentimento che emerge
anche dalla lettura dei graffiti sui muri delle città
ex-jugoslave.
Comunicazione dell’Alleanza Atlantica
Passiamo
ora ad analizzare le condizioni che hanno
caratterizzato la comunicazione dell’altra parte in
conflitto, la NATO.
Certo
anche questa parte in campo necessitava della propria
versione dei fatti alla luce del bisogno di
legittimare l’intervento militare davanti alle
opinioni pubbliche delle proprie democrazie.
E’
da segnalare a tal proposito l’utilizzo massiccio ed
il perfezionamento di un linguaggio giornalistico che
si ricollega al concetto di “guerra pulita”,
utilizzato già per la guerra del Golfo del 1990. Tale
guerra ha la pretesa di affidarsi alle “armi
intelligenti” in modo da distruggere solo i bersagli
chiave, risparmiando vite umane.
In
Kosovo tale necessità diventa ancor più urgente in
quanto la motivazione principale per la guerra è
stata quella umanitaria. Si è assistito
così all’abbinamento di termini
contraddittori come nel caso di “guerra
umanitaria”. La guerra diventa “intervento
militare”, le vittime civili dei bombardamenti sono
inevitabili “danni collaterali” mentre quelle del
nemico sono vittime di un “genocidio”.
Un
altro aspetto importante da tener presente è il
bisogno da parte dei vertici NATO di organizzare e
gestire in modo efficace la comunicazione, nonostante
la pluralità delle sue componenti.
La
NATO si è inizialmente affidata all’Ufficio
informazione e stampa con sede a Bruxelles, ma è
stato necessario un immediato adattamento ai tempi di
guerra. In un primo momento James Shea, portavoce
dell’Ufficio, si è trovato ad affrontare la
situazione con forze insufficienti. Tale carenza si è
evidenziata ad esempio nella caso della diffusione
della notizia falsa sulla morte di Rugova come in una
serie di smentite e lacunose ammissioni di colpa tutte
emblematiche dell’urgenza di un coordinamento tra i
19 paesi dell’Alleanza.
In un
secondo momento, su iniziativa del premier inglese,
venne inviato a Bruxelles Alastair Campbell, già
responsabile della comunicazione del governo
britannico. Le linee guida divennero: trasmettere dei
messaggi univoci, semplici ed il meno contraddittori
possibili, evitare di soffermarsi troppo sugli
“effetti collaterali”, cercare di creare delle
“belle storie pronte” evitando la sfilza di dati.
Tutto ciò nel quadro di una strutturata rete di
uffici stampa e portavoce ufficiali che coordinassero
forme e tempi di diffusione delle notizie.
Alcuni esempi di
comunicazione manipolata da parte dell’Alleanza.
Innanzitutto
il caso del bombardamento del treno passeggeri, il
Frankufer Rundschau, avvenuto il 12 Aprile del 1999.
Dopo il grande scalpore suscitato, il portavoce della
NATO ha mostrato ai giornalisti i filmati che
testimoniavano la dinamica dell’incidente, in modo
da dimostrare l’inevitabilità del danno, causa il
tardivo avvistamento del veicolo. Si scoprì poi che
quelle sequenze erano state accelerate per poter
sostenere la tesi suddetta.
Un
secondo esempio è la costruzione di un’operazione
militar-umanitaria per poter sostenere la tesi che i profughi
venivano utilizzati come “bomba umana” dal
regime serbo. La notizia fornita dal comandante in
capo della NATO ( gen. Wesley Clark) fu che 100mila
uomini venivano deportati da un confine all’altro al
fine di intasare la macchina degli aiuti umanitari in
Albania e Macedonia. Tutti si attendevano delle foto,
che sostenessero la tesi, ma tali prove non
arrivarono.
A
questo punto però si presentò la necessità che ci
fossero campi profughi vuoti, pronti ad accogliere
queste masse umane. E’ così che ci si affrettò a
svuotare alcuni campi sul confine albanese, con gli
stessi mezzi albanesi. Si assistette così al
paradossale incrocio tra camion albanesi che
sfollavano profughi e di mezzi militari NATO,
anch’essi formalmente a supporto del trasferimento
di profughi per motivi di sicurezza.
Questa
serie di manipolazioni e silenzi sono venuti a galla
man mano che il tempo passava e le notizie ufficiali
venivano confrontate con i rapporti più neutri,
stilati dagli osservatori internazionali dopo la
cessazione del conflitto, o grazie ad inchieste
giornalistiche sul campo e libere da troppi vincoli
politici.
Solo
qualche esempio.
Le
cifre delle vittime albanesi in Kosovo, stimate dal
Tribunale penale internazionale parlano di 200.000
vittime, numero elevato, ma non sufficiente per
parlare di genocidio. Così anche si è scoperto che
non esisteva un vero e proprio piano predefinito di
pulizia etnica.
I rapporti dell’OCSE dichiarano inoltre che le violenze e le
repressioni nella regione si sono aggravate
pesantemente dopo l’inizio dei bombardamenti
(24/03/99).
L’obiettivo
di garantire un Kosovo multietnico è fallito
considerando che, concluso il conflitto, circa 800.000
Albanesi sono potuti tornare in Kosovo, mentre circa
250.000 Serbi sono stati cacciati o peggio, sono stati
vittime di rappresaglie etniche. Ciò risulta evidente
considerando anche le pesanti distruzioni che hanno
compromesso il territorio Kosovaro.
Di
fronte a questi fatti, significativa è la frase del
giornalista Jacky Rowland, impegnato sul campo e fonte
di alcune delle informazioni precedenti: “vi stiamo
raccontando una guerra che nessuno, fino ad oggi, ha
potuto vedere con i propri occhi”.
Silenzi strategici
Doveroso
è inoltre segnalare, come abbiamo fatto nel caso dei
progetti di Milosevic, i pesanti silenzi che hanno
coperto scottanti parti di realtà.
Chiara
a tal proposito è l’analisi proposta dal professore
Universitario M. Chossudowsky che evidenzia come l’UCK
(esercito per la liberazione del Kosovo) sia stato
creato e sostenuto grazie al riciclaggio di denaro
proveniente dai traffici di droga e dalle mafie
italo-albanesi. Dati questi, noti ai governi
dell’Alleanza già dal ’94 grazie al rapporto del
Geopolitical Drug Watch.
Cupe
analogie riportano alla strategia dei finanziamenti
utilizzata dagli USA in Indocina o America Centrale.
Certamente queste informazioni sono state censurate
dall’agenda dei media, come pure non sono servite da
ritegno per il pieno appoggio alla guerriglia Kosovara,
scavalcando peraltro il partito democratico del Kosovo
e il suo leader Rugova. Sotto quest’ultimo profilo
sono chiamati in
causa direttamente i servizi segreti americani e
tedeschi impegnati anche nell’addestramento militare
dei combattenti insieme a mercenari provenienti dal
mondo del fondamentalismo islamico. Risulta
inevitabile considerare l’ipotesi che l’obiettivo
reale sia stato quello di destabilizzare i Balcani a
fronte della volontà d’influenza di paesi
stranieri.
Il ruolo delle agenzie di Pubbliche Relazioni
Infine,
dobbiamo occuparci di un aspetto comunicativo che ha
avuto un ruolo preponderante nei conflitti balcanici,
dei rilevanti attori: le agenzie internazionali di
pubbliche relazioni.
L’agenzia
Ruder Finn & Global Public Affairs è stata
pesantemente impegnata nella battaglia
dell’informazione tra gli stati dell’ex
Jugoslavia. Essa ha curato gli interessi dei governi
Croato e Bosniaco, orchestrando un’attività di
promozione della loro immagine e di propaganda ai
danni dei serbi in occidente. Tra i suoi clienti
figura fin dal ’92 anche la repubblica de Kosovo.
Vediamo
nel dettaglio alcuni strumenti utilizzati per ottenere
tali obiettivi.
Innanzitutto
richiamare fatti e personaggi che si riferiscano alla
memoria storica dell’opinione pubblica. Diventa
chiaro quindi il gioco di analogie tra Hitler e
Milosevic, rispolverando parole come lager e
genocidio. Tale abbinamento risulta fondamentale
considerando l’obiettivo di ottenere sostegno da
parte delle influenti comunità ebraiche statunitensi.
Ciò non era semplice poiché bisognava far
dimenticare alla comunità suddetta i 25.000
correligionari uccisi da Ante Pavelic in Croazia tra
il ’41 e il ’44, oltre naturalmente a tacere sui
750.000 Serbi sterminati dallo stesso nel lager di
Jasenovac, o sulle atrocità compiute in quei giorni
dalle milizie croate e bosniache.
Come
ha confidato l’ex direttore dell’agenzia, James
Harff, in un’intervista del ’93: “ogni notizia
utile doveva esser messa in circolazione il più
velocemente possibile indipendentemente dalla
veridicità, problema questo che non riguarda
l’agenzia, la quale non è pagata per essere
morale”. Anche altre agenzie sono state
coinvolte: ad esempio la Hill&Knowlton, già
artefice di falsi nella guerra del golfo. Così pure i
Serbi hanno ingaggiato la Lowe-Bell, curatrice a suo
tempo dell’immagine di M. Thatcher.
Certo
potremo continuare a sviscerare questi tristi
meccanismi di costruzione di “verità” che
purtroppo condizionano fortemente la realtà
considerando il concatenarsi allarmante di effetti
partendo da quelli cognitivi dei singoli, attraverso
quelli sui comportamenti sociali, quelli culturali e
infine gli effetti storici di conflittualità tra i
popoli. Effetti questi, che risultano evidenti anche
dalla rassegna di alcune teorie comunicative che si
sono occupate dell’influenza sociale dei media (
vedi sviluppo dalla teoria ipodermica fino
all’agenda setting o cultural studies). Vorremmo
invece far notare come, in tutti i casi analizzati,
sia stato completamente dimenticato e violato l’art.
20 della convenzione internazionale
sull’eliminazione della discriminazione razziale,
adottata il 16/12/’66 (in vigore dal 76) in sede
ONU, nel quadro del Patto
internazionale sui diritti politici e civili.
Tale
articolo precisa: “Ogni appello all’odio
nazionale, razziale e religioso che costituisca
un’incitazione alla discriminazione, all’ostilità
o alla violenza, è proibito dalla legge”.
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“TEORIA
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OGGI” N. 3, marzo 2201.
“TEMPI”
N. 46, 17 novembre 2000.
“LE
NOTIZIE HANNO LE GAMBE CORTE”, Claudio Fracassi,
edizioni Rizzoli.
“TEORIE
DELLE COMUNICAZIONI DI MASSA”, Mario Wolf, edizioni
Bompiani.
Gli
articoli sono stati trovati per lo più nei seguenti
siti internet:
www.rsfitalia.org
www.kontrokultura.org
www.dentrolanotizia.com
www.sissa.it/ilas/jekyll
www.ilbarbieredellasera.com
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