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5ª Stazione

LA MORTE E LA RISURREZIONE Di GESÙ

(riflessione di mons. Diego Bona, vescovo di Saluzzo e presidente di Pax Christi Nazionale)

 

L’antica popolare pratica della Via Crucis fa percorrere al credente lo svolgersi della passione di Gesù nei vari momenti che chiama "stazioni" e termina con il sepolcro dove viene posto il Crocifisso. Una tomba fredda e vuota, per di più vigilata onde evitare spiacevoli sorprese.

Attorno alla pesante pietra tombale incontriamo la soddisfazione di quelli che contano, capi e maestri del popolo, per aver ristabilito l'ordine che il rabbi di Nazareth sembrava sconvolgere con le sue affermazioni e il suo atteggiamento; lo sconcerto e la delusione degli amici per aver visto fallire attese e speranze e l'indifferenza dei più, sempre pronti a commentare “noi l'avevamo detto che finiva così”.

Un clima posante quello del venerdì santo reso ancora più oscuro dal buio del pomeriggio e dall'avanzare rapido delle ombre della sera. C'era comunque la tranquillità dell'ordine, la stabilità delle tradizioni, la routine quotidiana e la rassegnazione di sempre, avendo spento la voce della speranza, la promessa del nuovo, la profezia del Regno.

Per alcuni (o molti) aspetti mi sembra richiamare la situazione d'oggi se ci guardiamo attorno, nell'orizzonte ampio del mondo e in quello più circoscritto della nostra società.

Vorrei evidenziarne due di questi aspetti che appaiono macroscopici e inquietanti.

Il primo riguarda l'attuale situazione di sperequazione nel mondo, con sistema economico dominante che taglia fuori dall'accesso al necessario per una vita dignitosa due terzi dell'umanità, con la prospettiva di un progressivo allargamento del fossato che divide i garantiti da quelli che non lo sono.

Ciò che più preoccupa e inquieta è assistere ad una larga acquiescenza a questo sistema, come si trattasse di dato scontato e irreversibile, anzi positivo; una convinzione abilmente manovrata da chi ha interesse e alimentata da una mentalità consumistica che non garantisce la stabilità. Si levano voci forti e autorevoli a contestarlo e c'è un fermento di base, anche so confuso e scoordinato, ma non si può negare una larga disattenzione o peggio una omologazione dal basso a questa deriva liberistica.

L'altro aspetto, che ci tocca anche più da vicino come movimenti di pace, lo troviamo nel pragmatismo con cui viene affrontata la questione della pace e della guerra. Certo non troviamo più le farneticanti affermazioni che la guerra è l'igiene dei mondo o l'orgoglio di un popolo o di una nazione e in questi cinquant'anni è cresciuta una coscienza generale che giudica la guerra immorale o inumana; ma è ancora molto ampia la convinzione che si tratti di un male inevitabile e che di fatto siano gli eserciti quelli che difendono la pace che non può mantenersi senza di essi. Ad una distanza abissale dalla promessa di Isaia: “Non si eserciteranno nell'arte della guerra” e dal comando di Gesù “rimetti la spada nel fodero”.

Anche la questione della guerra “giusta”, una palla al piede che ha condizionato per secoli teologia e politica e che la Carta delle Nazioni Unite e la Dichiarazione dei Diritti Umani da una parte, e la visione Conciliare con il chiaro Magistero dei Pontefici dall'altra conducevano a superare, rischia di rientrare come quinta colonna con l'ingerenza umanitaria che, pur ragionevole e legittima a certe precise condizioni, può diventare facile copertura a interventi inquinati da altri interessi.

Quando pensiamo alla protesta corale che cresceva un po' ovunque per i fatti del Vietnam, quando ricordiamo la passione che ha animato dibattiti e manifestazioni alla vigilia della guerra del Golfo, quando riviviamo il fremito dell'Arena a sentire quel grido: “In piedi costruttori di pace”, ci sembra che questa sia una stagione povera di profezia, debole di speranza, scarsa di coraggio e di audacia.

Eppure ritroviamo tutta la drammaticità di allora: un embargo interminabile che uccide i bambini dell'Iraq; un'Africa che muore tra l'indifferenza delle nazioni che prima se l'erano spartita; il commercio delle armi che prospera con la corsa a sistemi sempre più sofisticati; un ordine del mondo dettato dalla forza più che dal diritto.

Avvertiamo l'atmosfera pesante di quel venerdì santo con la sicurezza e l'orgoglio dei potenti, con la voce degli oppressi che ci giunge sempre più flebile e ovattata, con l'indifferenza, la rassegnazione o l'omologazione strisciante dei più.

Ma il venerdì santo non è l'ultima pagina del Vangelo e neppure della storia del mondo. Il mattino di Pasqua sovverte ogni cosa: rovescia la pietra, mette in moto i discepoli, inquieta le coscienze, accendo la speranza.

Dobbiamo guardare a quel volto del Crocifisso risorto; dobbiamo ancorarci a credere alla promessa che non delude: “non temere, io ho vinto il mondo”; dobbiamo riprendere a correre come Pietro e Giovanni nel mattino di Pasqua; ritrovare quel fuoco che ci hanno ricordato Caterina da Siena e Giovanni Paolo II: “Se sarete quello chi dovete essere, metterete fuoco a tutto il mondo”.

Il cammino che abbiamo fatto, la meditazione che ci ha guidato, il luogo dove siamo ci sollecitano ad una risposta: se vuoi…

                    se vuoi essere costruttore di pace,

                    so vuoi essere portatore di speranza,

                    se hai fame e sete della giustizia,

                    se mantieni nella mente e nel cuore il sogno e la profezia di Isaia,

                    se accogli il discorso della montagna:

                    questo è il momento di rispondere e di impegnarsi.

 

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