“…se
si chiede ad un detenuto quanto il carcere possa servire a
riflettere sul proprio passato ed a trovare la fiducia nel futuro,
ci si rende subito conto che l’isolamento, la depressione, la
solitudine, la mancanza di cose da fare e la scarsità di contatti
umani e colloqui, se da una parte costringono a riflettere e nel
breve periodo possono aiutare, nel lungo periodo distruggono una
persona. Ci si trova costretti a ignorare il presente e a non
farsi illusioni, si può solo rivedere il passato o cercare di
pensare al futuro. La sofferenza che si prova però si riflette
verso l’esterno, sulla famiglia del detenuto, che a volte paga
di più del detenuto stesso sotto il profilo economico ed
affettivo, e sui figli, i cui contatti con i genitori detenuti
sono radi e difficoltosi.”
dal Documento di Presentazione
“Privare
del diritto di andare e venire fa parte della legalità. Ma
privare dell’affettività non fa parte della legalità.
L’Italia ha dietro
di sé una storia di umanità: com’è possibile che si conceda
ad un carcerato, oltretutto reo di piccoli reati, di vedere per
un’ora sola alla settimana i propri cari, e che questo non
scandalizzi? E non c’entra la sicurezza: quando sono arrivata
all’aereoporto in Italia, otto poliziotti mi hanno bloccato. Mi
ci sono volute tre ore per convincerli che non ero una prostituta.
Otto poliziotti per una persona di 44 chili. No, non è un
problema di sicurezza.”
aldenia
Valdenia
è arrivata alla sede dell’Atas, associazione trentina che
opera in carcere, nel primo pomeriggio per uno scambio di
esperienze: la sua nella realtà del carcere di San Paolo, quella
dei volontari e dei rappresentanti delle istituzioni e cooperative
trentine nella realtà carceraria di questo carcere. Da lì si è
poi recata a visitare le persone detenute nel carcere
circondariale di Trento.
Valdenia
conquista subito le persone che la ascoltano, le mette a proprio
agio con la sua simpatia e semplicità. Ma non vuole fare la
romantica, e non è qui per conquistare pubblico.
È
qui per denunciare le illegalità e le violenze subite dai
detenuti del suo Paese, e per annunciare che si deve lottare per
la Pace costruendo la Giustizia. Di fatti parla. Quelli atroci che
distruggono la dignità delle persone, “distruzione peggiore di
quella di un palazzo”, e
quelli coraggiosi di chi rischia la vita per il rispetto della
dignità umana dei carcerati, per un giusto processo, per delle
condizioni igienico-sanitarie minime, perché venga abolita la
tortura, metodo usato per ottenere anche la confessione dei furti.
È
qui per cogliere gli stimoli e le proposte attuate in Italia per
una giusta applicazione della pena.
Una
prima istituzionale presentazione della realtà carceraria della
città che ci ospita, la fa sembrare tutto sommato buona, piccoli
problemi di routine dovuti più che altro a difficoltà
burocratiche e alle particolari “patologie quasi
psichiatriche” che caratterizzano il carcere. E questo buonismo
fa venire alcuni sospetti.
“La
realtà carceraria è uno specchio della società civile. Con
troppo leggerezza e con un approccio forse troppo chirurgico si
definisce la realtà carceraria: se essa è patologica, lo è
anche la società di cui è il frutto. Attento, Primo Mondo!”
È
molto intelligente, la donna, e pur valorizzando il buono che vede
e sente, coglie facilmente le crepe nei quadri che le si
presentano. Smonta i bei discorsi di circostanza quando coglie
l’ipocrisia, la distanza tra parole e fatti. Quando si
giustificano le 4 ore mensili di visita, mentre nella violenta San
Paolo, nel così detto Sud del mondo, 4 ore sono quelle degli
incontri settimanali. Quando pur avendo il ruolo e il potere per
cambiare le cose, si giustifica l’esistente come frutto di
difficoltà burocratiche e si rimette la responsabilità a chi sta
lontano e più in alto.
La
realtà torna a farsi sentire con forza nelle parole di alcune
appassionate volontarie che da anni e con fatica cercano di
portare un po’ di vita in un luogo che quasi non esiste per la
cittadinanza, o i cui problemi non interessano. Sono felici della
presenza delle istituzioni, ma sperano in un loro concreto
impegno.
Ascoltando
Valdenia si sentivano attraverso le sue parole le istanze e i
bisogni dei carcerati.
Non
altrettanto traspariva con chiarezza dagli amici italiani, quanto
invece tutti quei sintomi da “burnout” tipici degli operatori
e volontari: i carcerati non sono ancora i soggetti pieni delle
nostre preoccupazioni.
Certo
le difficoltà poste dalle istituzioni impediscono di mantenere
contatti forti con le persone detenute.
Ma,
diceva il pedagogista brasiliano Paulo Freire, “si diventa
solidali con gli oppressi solo quando il nostro gesto cessa di
essere un gesto sentimentale, di falsa religiosità, di carattere
individuale, e diviene un atto di amore. La vera solidarietà
nasce solo nella pienezza di questo atto di amore, quando esso
diventa esistenza e prassi. La solidarietà esige da colui che
diventa solidale che assuma la situazione di coloro che ha
scoperto oppressi, è un atteggiamento radicale.”
Grazie
a Valdenia e a quelle persone, ancora troppo poche, che
testimoniano che questa radicalità è possibile.
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