Dai
partecipanti al campo |
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Le Catechesi
che hanno guidato la riflessione e la preghiera durante il
campo |
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Grazie,
don VITO!!
“Leggere
i sogni degli oppressi”: questo è stato lo slogan,
poi il tentativo, ma soprattutto l’impegno del campo vissuto ad
Andria, (Puglia).
Una
frase sicuramente ad effetto, che colpisce per i vocaboli –
“sogni” e “oppressi” - ormai in cima alla hit list
del vocabolario gimmino; una frase, quindi, che troppo facilmente
può essere preda della facile retorica, che è forse il peggior
nemico dell’impegno.
Non
è stato facile leggere la devastante portata di questo appello,
così ambizioso da poter sembrare folle: può infatti sembrare
follia l’accostamento della povertà e dell’ingiustizia con il
sogno, apparentemente così incapace di “cambiare le cose”.
Durante
il campo è stata (e lo è ancora!) una grande sfida cercare di
trovare il significato delle singole parole “sogno” e
“oppressi”, per poi chiedersi cosa significhi “leggere”.
Sono
stati numerosi gli aiuti e i suggerimenti che don Tonino Bello ci
ha regalato, non sono mancati i confronti nel gruppo sulla Parola
di Dio, ma qui vorrei parlare di un aiuto davvero speciale, che ha
colpito tutti per la sua freschezza e originalità: il parroco del
quartiere S. Valentino: don Vito.
Lo
stimolo alla riflessione che ci ha regalato non è venuto da belle
catechesi, da incontri o serate speciali (anche se effettivamente
ci ha voluto regalare in una serata la sua esperienza in
Brasile…!!), ma da tanti gesti fatti nell’assoluto silenzio.
Ci
ha aiutato a leggere i sogni degli oppressi innanzitutto
accogliendoci con grande calore umano, mettendo a nostra
disposizione le strutture della parrocchia (…e al lavoro la
sorella, il fratello, la nipote, ...ecc.), ma soprattutto il suo
tempo: è l’unico prete di una comunità di 4.500 persone, ma
per dieci giorni è sempre stato molto disponibile per venire
incontro alle nostre necessità, dalla chiave di quella o
dell’altra stanza all’aiuto organizzativo della giornata. Ci
ha insegnato con l’esempio che l’accoglienza è adattarsi
all’ospite (a chi c’era verrà in mente il “gli
si fece vicino” di Lc 10,25-37 ).
Per
aiutarci a leggere i sogni degli oppressi ci ha fatto incontrare
con le persone, fratelli e sorelle che nella semplicità hanno
condiviso con noi la loro realtà di vita. Per “conoscere” il
quartiere sarebbe potuto bastare leggere qualche tabella, chiedere
a lui stesso o a qualcuno che conosca l’intera situazione, ma
don Vito ci ha fatto capire che per leggere i sogni degli
oppressi bisogna saper ascoltare, farsi accogliere.
E
in fatto di farsi accogliere ha stupito un po’ tutti quella
facilità con cui ha saputo organizzare le visite alle famiglie:
ci ha colpito l’affetto e la familiarità con cui
la gente lo saluta per strada, lo invita a salire prima ancora che
lui, attraverso il citofono, riesca a finire il “Buongiorno,
come state?” e dire che non può salire, perché accompagnato da
un gruppo molto numeroso di giovani.
Durante
la partita a pallone dell’ultima sera del campo, cantava affetto
anche il coretto di bambini suoi tifosi: “Forza,
don Vito!”
Il
suo silenzio spesso ci ha cantato la sua profonda e
misteriosa umiltà, con la quale avrebbe
voluto nasconderci le sue grandi capacità di missionario, di
prete che dopo vent’anni di servizio in una comunità
sicuramente “impegnativa” riesce ancora ad essere
presenza propositiva ed energica.
Dietro
a un volto tanto sereno da correre il rischio di essere frainteso
si nasconde la passione di chi
ama “con le viscere” e per questo sa commuoversi e indignarsi
per la sua gente, la passione di chi si sa padre
di una comunità e che per questo non manca di essere esigente e
protettivo, che in un contesto di ingiustizia strutturale coincide
con l’essere combattivo.
Ci
ha fatto vedere che leggere i sogni degli oppressi significa
soprattutto saper SPERARE,
visto che nonostante da ormai vent’anni, ossia da quando è
nato, il quartiere subisca ingiustizie, pregiudizi e violenze, lui
e la sua gente ancora sperano, cioè credono che davvero un
domani migliore sia non solo “possibile”, ma garantito,
nella misura in cui non ci si fa spaventare dalla lunghezza e
dalla tortuosità del cammino.
Indubbiamente
in questo campo e in questo momento in cui siamo chiamati a
costruire la pace, don Vito ci ha mostrato la gioia del servizio
di chi ha ascoltato e fatto suo l’appello della montagna
lanciato duemila anni fa da un “anonimo palestinese ebreo” che
disse: Beati quelli che costruiscono
la PACE, perché saranno chiamati “figli di Dio”.
Don Vito infatti ci ha mostrato la faccia anonima e sconosciuta
della pace, quel filo d’erba che assieme a migliaia di fratelli
e sorelle cresce senza fare il rumore dell’albero che cade, per
dirci che la pace deve davvero essere nelle nostre mani, così
come ci aveva detto il Maestro: la costruzione della pace non è
un incarico dei grandi, un dovere da chiedere/imporre agli altri,
i “violenti”: è invece il carattere fondamentale dei figli di
Dio, una “convivialità” cui tutti siamo invitati e per la
quale a nessuno sono promessi applausi.
Diego
post
Padova
ciaodiego@yahoo.it
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L’esperienza
vissuta nel quartiere S. Valentino
L’esperienza
vissuta nel quartiere S. Valentino, ad Andria, è stata
caratterizzata dall’incontro di numerose persone importanti e
significative che, tutt’oggi, nella loro quotidianità, lavorano
per la costruzione di un mondo più giusto e di pace.
Tra
tante persone incontrate, vi voglio raccontare la testimonianza di
sr. Annamaria, missionaria Comboniana, che, originaria della terra
di Puglia (terra ecumenica) e conterranea di don Tonino Bello,
grande operatore di pace, ha voluto vivere la sua missione
attraverso il dialogo interreligioso ed ecumenico in terra di
Medio Oriente. Sr. Annamaria, donna giovane, esile, con un viso
semplice e sereno, ha voluto raccontarci e condividere la sua
storia vocazionale-missionaria.
All’età
di 16 anni, inizia per Annamaria un periodo di profonda crisi,
dove le amicizie, lo studio e gli ambienti che frequenta non la
soddisfano più, creando un senso di vuoto che coinvolge anche il
più radicale incontro con Dio. partecipa agli esercizi spirituali
dove incontra un padre comboniano, p. Benedetto, che, cogliendo il
suo bisogno di “altro”, le propone di frequentare il GIM.
Annamaria inizia il suo cammino di scoperta di un nuovo volto di
Dio, un Dio che vede, ascolta e chiama a collaborare con Lui nella
storia e nella realizzazione del suo sogno di liberazione.
Durante
il cammino fatto di studi, attività parrocchiale e GIM, instaura
forti legami di amicizia con cui condivide la sua ricerca
vocazionale, le sue gioie e sofferenze.
In
questa esperienza scopre la sua vera vocazione: la vita religiosa
vissuta come un cammino di liberazione verso un Amore totale,
gratuito e libero (castità); come obbedienza alla Parola,
all’ascolto e alla condivisione con i più poveri
ed emarginati (obbedienza e povertà), sull’esempio di
Daniele Comboni. Uomo profondamente umano, capace di vivere
relazioni autentiche e per esse di pagarne il prezzo. Annamaria
capisce che la sua missione si può realizzare solo all’interno
di una comunità, dove la diversità di ogni persona, diventa
motivo di crescita e sostegno reciproco.
Ed
è proprio nei luoghi dove diversità di cultura e religione
rendono difficile la testimonianza della propria fede che, sr. Annamaria
decide di svolgere la sua missione: prima a Dubai, negli Emirati
Arabi, e successivamente e Gerusalemme. A Dubai, città
arabo-mussulmana, il cristianesimo costituisce una minoranza
religiosa. In questo contesto sr. Annamaria ha vissuto
l’esperienza di un cristianesimo espresso all’interno delle
mura, ma testimoniato con la propria vita nel quotidiano,
lavorando nella scuola e facendo l’incontro e il dialogo tra
culture e religioni diverse.
Sr.
Annamaria ricorda di questo periodo il senso di essere pellegrini
e ospiti di questa terra, dove ha cercato il dialogo e il
confronto con la religione islamica che non sempre è stato
possibile.
Successivamente,
sr. Annamaria si trasferisce a Gerusalemme, dove condivide con la
preghiera, la sofferenza e la speranza di un popolo provato
duramente dai conflitti religiosi e territoriali, lavorando per il
dialogo e la pace. Ora, sr. Annamaria partirà per l’Egitto per
studiare l’Arabo: a lei auguriamo di proseguire la sua missione con la stessa fede ed
entusiasmo che ci ha trasmessi nei momenti vissuti insieme. Sulle
orme di don Tonino Bello, abbiamo incontrato sr. Annamaria e tante
altre persone che ci hanno accompagnato in questo campo, facendoci
scoprire la bellezza del donarsi senza misura per un Amore più
grande.
Elena
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La
mia Andria
Ieri
sera, per la prima volta dopo il campo ho rovisto i miei amici di
sempre, gli amici di scuola che conosco da quando avevo sei anni,
le persone con cui sono cresciuta, in questo posto da cui tutti
siamo fuggiti e dove pochissimi di noi vogliono ritornare. Siamo
rimasti in macchina a parlare fino alle due di notte, del campo,
del fatto che mai avrei pensato che dieci giorni trascorsi qui ad
Andria, nel quartiere più malfamato della città, mi avrebbero
sconvolta così tanto nell’esistenza … sento ancora addosso le
sensazioni bellissime che mi ha regalato questo campo: la mitezza
e la dolcezza che hanno sempre accompagnato la preghiera, il fatto
che per la prima volta in vita mia ho sentito il desiderio di
possedere e di leggere una Bibbia, e poi i sorrisi, gli sguardi,
le tavolate, le chiacchierate, i pensieri a metà, le lacrime,
l’inquietudine, il sentirsi parte di qualcosa, quella sensazione
forte di avere qualcosa in comune che a noi, che ci conosciamo da
sempre, manca! È strano, ma spesso sembra che l’unica cosa che
ci unisca sia il ricordo del passato, un passato comune
bellissimo, quando la scuola ci teneva uniti … e adesso? Tante
volte sembra di non avere più nulla da dirci, non siamo capaci di
guardarci negli occhi e parlare seriamente, senza che qualcuno
ironizzi sulla serietà dell’altro, e tante volte sembra che per
noi “stare insieme” significhi semplicemente incontrarsi, sia
un semplice fatto di vicinanza fisica, non siamo capaci di fare
cose insieme, se non legate alla ricerca del divertimento. Ma ce
l’abbiamo un ideale, un sogno in comune? Don Tonino diceva ai
ragazzi: “Ho bisogno dei vostri sogni!” … è bellissimo
sentirsi dire una cosa del genere da un uomo, da una persona
adulta, mentre la maggior parte degli adulti ci ha sempre
insegnato che diventare adulti significa ridimensionarli, i propri
sogni …
Mi
hanno chiesto, i miei amici di sempre, se di don Tonino abbiamo
cantato quella preghiera che fa venire la pelle d’oca, quella
che dice “vivere è abbandonarsi come un gabbiano all’ebbrezza
del vento …”, e alcuni si sono ricordati di quando,
all’oratorio estivo, quella preghiera era capace di zittire
centinaia di bambini scalmanati … sì, certo che l’abbiamo
cantata, e abbiamo anche letto e ascoltato tante altre parole di
don Tonino, politiche, forti, passionali …
È
bellissimo scoprire che esistono persone capaci di guardare le
cose e progettare il futuro, con una immaginazione a molti
sconosciuta, capaci di sognare in grande, tanto in grande, ed
essere allo stesso tempo concrete … l’anima vola e i piedi
restano per terra, gli occhi guardano lontano e le mani, qui e
ora, si sporcano! È una cosa su cui abbiamo insistito molto
durante il campo: per leggere i sogni degli oppressi bisogna
sporcarsi le mani.
Ho
provato a pensare al perché mi sono sentita molto più a mio agio
e a casa a S. Valentino che non nell’“altra Andria”, e ho
pensato che forse dipende proprio dai sogni degli oppressi …
come sono questi sogni: piccoli e infinitamente grandi?!
Probabilmente molto piccoli perché dietro l’angolo, la dignità
e i diritti che gli oppressi sognano, tanti altri ce li hanno già
e li considerano scontati. Ma sono anche immensi perché quando si
sogna qualcosa, le si dà un nome, e si scopre che è davvero
grande, bella, preziosa! E poi, come dice una canzone d’amore,
bisogna guardare le cose da lontano per vederle tutte intere.
Una
scoperta bellissima per me, è stata la solidarietà che ha unito
la gente di questo quartiere. Il fatto che abbiano protestato,
lottato e agito sempre insieme, come comunità, mi sembra una cosa
davvero grande e davvero “avanti rispetto all’“altra
Andria”.
Evidentemente
i miei sentimenti verso la mia città sono un misto di amore e
rabbia; se devo parlare degli andriesi lo faccio sempre al
negativo; descrivo “l’andriese tipo” come quella persona che
se ha un po’ di soldi da parte, compra un vestito, anche se non
c’è più spazio nel suo armadio, ma non lo sfiorerà l’idea
di comprare un libro, e se i soldi sono tanti comprerà un’auto
super accessoriata di grossa cilindrata, con cui girerà la città
ai due all’ora impantanato nel traffico, ma mai il biglietto del
treno per girare il mondo. Lo descrivo come una persona con una
scala di priorità assurda, che considera la famiglia una comunità
chiusa ed è totalmente indifferente
a quello che succede nel mondo, ma anche nella stessa
Andria, perché chi la odia fugge via e chi ci vive non
la ama, non la rispetta, non l’apprezza, non fa niente
per valorizzarla, perché non la conosce neppure.
Io
stessa, mi sono resa conto di ignorare totalmente, ad esempio, la
storia si S. Valentino, di essere cresciuta con dei pregiudizi
assurdi su questo quartiere. Gli andriesi dell’“altra
Andria” sono davvero convinti che la nascita a S. Valentino
imprima nel DNA il gene della delinquenza, ma forse pochi sanno
che ci sono delle responsabilità amministrative pesantissime, che
dopo un’accurata cernita dei casi familiari e sociali più
disastrati, le rispettive famiglie sono state ghettizzate in quel
quartiere, ripulendo la città. Ghettizzate e abbandonate.
C’è
un prete di periferia, che è una persona incredibile, che ha un
passato come missionario in Brasile e lì è una specie di mito.
Tornato qui ad Andria ha visto nascere e crescere il quartiere, ha
combattuto tutte le sue battaglie ed è sempre stato un punto di
riferimento; conosce la gente per nome, sa dove abita, conosce le
loro storie, e tutta questa storia lui sa raccontarla meglio di
chiunque altro. Il suo racconto è disarmante, indigna, apre gli
occhi.
Un
gruppo di razzi da tutta Italia è venuto qui ad Andria e gli ha
chiesto di raccontare; ma non ho mai sentito che una parrocchia o
una scuola dell’“altra Andria” l’abbia mai invitato per
raccontarla, questa storia, ai ragazzi dell’“altra Andria”.
Mariella
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È
un tipo di poche parole il signor Riccardo
È
un tipo di poche parole il signor Riccardo, anche se di cose da
raccontare ne avrebbe molte. Con un poco di attenzione ai suoi
gesti si può capire cosa gli passa per la testa, mi spiega
Emanuela rivelando una delicatezza ed un’attenzione che mi
costringono ad andare oltre la mia cruda superficialità. Gli
anziani e gli ammalati sono fra i più emarginati qui nel
quartiere, alcuni non escono da casa da anni perché non riescono
a fare le scale. Con queste parole don Vito ci ha accompagnato
all’appartamento dove vivono il signor Riccardo e la signora
Maria.
Entrare
in casa d’altri, senza essere né attesi né richiesti, e
passarvi intere mattinate è molto più difficoltoso di quanto
possa sembrare ad un primo pensiero. Per fortuna la signora Maria
sa farti sentire a casa. Si fa un po’ nonna di tutti noi: ci
interroga, vuole conoscerci, non ha timore neppure se deve darci
la battuta (i capelli lunghi e l’aspetto trasandato fanno di me
bersaglio di intraducibili esclamazioni in andriese stretto). E
poi racconta, eccome se racconta, e racconta molto ma molto bene.
Racconta con mille parole una storia di cui è depositaria e
protagonista: la sua storia. E mentre lei cerca di farci entrare
in quelle situazioni il signor Riccardo fa da contrappunto con
lievi sorrisi, smorfie del viso e sguardi di chi, davvero, ne ha
viste tante da poterci anche ridere sopra. La storia (le storie)
che abbiamo avuto la fortuna di ascoltare meriterebbe la penna di
Victor Hugo per essere raccontata degnamente. Vi abbiamo
incontrato avvenimenti che non riuscirei a condensare in poche
righe. Per quelli più recenti tenterò comunque una sintesi.
Quattro anni fa sembrava che tutto fosse andato a posto: anche
l’ultima figlia sposata, già molti nipoti, un matrimonio in
vista anche per loro dopo trentacinque anni di convivenza, due
pensioni minime – una vita a lavorare ma solo pochi anni in
regola – minime ma sufficienti per le poche pretese di una vita
felice. Poi ritorna la malattia. Quella malattia che ha costretto
il signor Riccardo alle stampelle fin dall’età di sei anni.
Adesso lo mette a letto, le gambe non risponderanno più. Ci sono
le medicine da pagare, i dottori, i ricoveri l’assistenza e le
pensioni rivelano l’agghiacciante verità dell’aggettivo.
Minime. Non chiedetemi per quale strana interpretazione della
legge italiana il signor Riccardo non percepisce pensione
d’invalidità, non saprei rispondervi. Non chiedetemi perché
nessuno ha mai detto alla signora Maria che bastava un semplice
certificato per non pagare alcune costose medicine, non saprei
rispondervi. Io certe cose non le so, ho fatto solo la seconda
elementare, vi risponderà lei.
Cos’abbiamo
mai fatto con le nostre poche visite? Probabilmente nulla. O
probabilmente qualcosa che non capiamo. Ci salutano piangendo
l’ultimo giorno, qualcuno di noi ricambia il gesto di tenerezza.
La signora Maria affronterà la vita come sempre, sbattendo i
pugni sui tavoli e prendendosi qualche ora ogni tanto per ricamare
splendide tovaglie. Il signor Riccardo continuerà a vivere la
vita con quel suo sguardo sornione, fintamente indolente.
Continueranno a farlo assieme. E noi? Beh, noi abbiamo incontrato
in carne e sangue due storie (una storia) di ordinaria
oppressione, le abbiamo guardate negli occhi e bevuto caffè
assieme a loro. È un’attività che non lascia mai uguali a
prima. Ripenso e ci rivedo raccontare alla signora Maria i perché
del nostro viaggio ad Andria. Il signor Riccardo spegne la
televisione, si sostiene il mento con una mano ed ascolta
divertito.
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Se
state pensando di cambiare casa
“Se
state pensando di cambiare casa, o magari persino quartiere e città,
noi, che siamo appena tornati dalla Puglia, dalla città di Andria
(BA) precisamente, abbiamo una incantevole zona residenziale da
consigliarvi, il quartiere San Valentino. Lì, anche d’estate,
alla sera soffia un venticello piacevole che rinfresca l’aria e
di sicuro non vi troverete mai bloccati nel traffico dell’ora di
punta. Certo, se avete dei genitori anziani, che fanno fatica a
salire e scendere le scale, sarà meglio cercarvi un appartamento
al pianterreno perché di ascensori, nei palazzi, non ce ne sono;
e se anche voi siete un po’ duretti di gambe e sfortunatamente
non avete la macchina, bè, vi converrà armarvi di pazienza e
andarvi già a mettere alla fermata dell’autobus perché, se si
esclude una farmacia,un market e una macelleria, negozi nel
quartiere non ce ne sono: nemmeno un bar per bere il caffè; poi
– ma c’è davvero bisogno di fare queste raccomandazioni? –
fate attenzione a non ammalarvi, a non sentirvi male in casa perché
ambulatori non ce n’è e la zona è un po’ fuori mano, quindi
l’ambulanza arriva tardi e qualche volta si perde; e poi la
prudenza non è mai troppa, contando che non c’è una stazione
di polizia o carabinieri, e di volanti anche se ne vedono poche;
ah, forse i ricevimenti mondani sono la vostra passione: allora
forse è il caso di orientarvi altrove perché, vai a capire come
accadono queste cose, il quartiere per certe malelingue ha una
cattiva fama e qualcuno potrebbe declinare il vostro invito…”
La
lista delle raccomandazioni potrebbe proseguire ancora a lungo ma
probabilmente l’ipotetico inquilino è fuggito spaventato già
da tempo. Ma in effetti, sin da quando è stato costruito dall’ICAP
(Istituto Case Popolari) nel 1980, lo scopo del quartiere San
Valentino sembra essere stato più quello di tenere isolata la
gente che ci abita piuttosto che di attirarne nuova da fuori:
ancora oggi leggermente separato dal resto del tessuto urbano di
Andria, negli anni della sua nascita – come racconta don Vito
Miracapillo, che ci ha ospitati nella sua parrocchia di San
Riccardo – vi furono relegate tutte le famiglie ritenute per un
motivo o per l’altro “ scomode”: persone con precedenti
penali, o legate a traffici di droga, o con handicap fisici e
mentali, o ancora famiglie semplicemente disagiate, numerose e che
prima abitavano tutte nel centro storico di Andria, che venne così
in un certo modo “ripulito” dall’amministrazione di allora.
Ai suoi inizi, il quartiere era ancora più povero di servizi di
quanto lo sia oggi: collegato da una linea di bus al resto della
città, senza negozi, luoghi d’incontro, verde pubblico, scuole;
senza un telefono pubblico – ancora oggi, e allora non c’erano
i telefonini – e senza i nomi per le vie; i ragazzi condannati a
crescere in strada ed era quasi impossibile per loro frequentare
bene la scuola: un solo scuolabus li portava a tutte le scuole
della città e chi arrivava per ultimo entrava in classe alle
dieci meno un quarto. L’unica cosa a crescere rapidamente fu la
cattiva fama, che da alcune famiglie coinvolte nei giri della
malavita organizzata si diffuse rapidamente a tutti gli abitanti
del quartiere: numerosi i fatti di sangue commessi da abitanti di
San Valentino negli anni, uno solo però all’interno del
quartiere stesso, l’anno scorso. In questa zona – che
ricordiamoci, è solo una delle tante, soprattutto nel Sud –
sembra che le condizioni per la povertà, l’isolamento e il
degrado tanto materiale quanto sociale siano state messe in atto
quasi scientificamente.
Don
Vito è arrivato a San Valentino pochi mesi dopo la nascita del
quartiere. Era appena rientrato dal Brasile, dove la giunta
militare lo aveva processato ed espulso per aver affrontato
insieme ai contadini il problema della terra. Come lui stesso ci
ha raccontato, il vescovo di Andria venne a prenderlo
all’aeroporto per informarlo della sua nuova destinazione: “Ti
mando a Montevideo” gli disse, e lui capì subito che non
parlava alla lettera, che non intendevano rimandarlo in Sud
America. Ancora oggi la parrocchia di San Riccardo con il suo
oratorio è l’unico centro di aggregazione a San Valentino e
ormai, su un’area di quasi un ettaro, trovano spazio, oltre alla
chiesa e alla canonica, tre campi da calcio, una sala parrocchiale
dove tra l’altro si riunisce il comitato di quartiere, un
avviato laboratorio di falegnameria, un teatrino. Molti ragazzi,
anche di quelli provenienti da famiglie “a rischio” trovano
qui un’alternativa alla strada e alla carriera a cui li
avvierebbe la loro tradizione familiare.
Ma
agli inizi la situazione era ben diversa: la chiesa iniziò a
essere costruita solo nel 1984 e prima si celebrava negli androni
dei palazzi, sotto i porticati, gli oggetti indispensabili alla
messa trovavano posto in qualche stanza messa a disposizione da
famiglie generose, il catechismo – a San Valentino c’erano più
di 600 giovani – si faceva per strada così come ogni altra
attività. Per gli avvisi si andava alla fermata della circolare e
si parlava con chi era in attesa: questi, poi, avrebbero
provveduto a girare la voce per tutto il quartiere. Il parroco era
l’unico punto di riferimento: si andava da lui se c’era
bisogno di un’auto per portare un malato all’ospedale e furono
gruppi di cittadini coordinati da don Vito a battersi per la
costruzione prima e l’apertura poi dell’asilo e delle scuole
elementari e medie, a sostenere l’apertura di quei tre negozi
che adesso ci sono a San Valentino e a portare avanti le altre
battaglie a favore del quartiere e dei suoi abitanti. Quando lo
Stato è assente, si sa, rimane la Chiesa a dare voce ai bisogni
elementari di chi è dimenticato. Però, chi ha vissuto quei tempi
“eroici” li ricorda volentieri e quasi li rimpiange.
E
adesso, che prospettive ha San Valentino per il futuro? Le cose
sono cambiate rispetto a vent’anni fa, ma rimane ancora una zona
povera, priva di molti servizi essenziali. Un cambiamento sembra
però essere alle porte: Andria si è dotata finalmente di un
piano regolatore, che prevede tra l’altro di riprendere
l’ampliamento di San Valentino con la costruzione di una zona
commerciale, una stazione dei Carabinieri e 150 nuove abitazioni
da mettere in vendita, in modo da aumentare il valore complessivo
dell’area e toglierle di dosso quella brutta patina di
criminalità ed emarginazione. Ma questi sono i progetti, quando
verranno realizzati chissà. Intanto, fossi in voi, continuerei a
cercare casa…
Alessandro
Speciale
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Sulle
orme di don Tonino ... passando per S. Valentino
"Fate
in modo che dove poggiate i vostri passi crescano fiori..." A
S.Valentino di fiori ce ne sono tanti, alcuni appena sbocciati,
altri rigogliosi, e molti devono ancora nascere. Come mai tanti
fiori sono tuttora in"gestazione"? Sole, terra, aria non
mancano eppure a tutti gli abitanti del quartiere è negata la
possibilità di crescere forti e sani. S.Valentino, costruito
negli anni '70, per volere del comune di Andria ospita molte
famiglie disagiate: drogati, delinquenti, disabili, anziani,
analfabeti, persone ritenute "non idonee per la convivenza
civile" con chi disagiato non è. Carente di qualsiasi
servizio elementare, dalla panetteria al bar. Vivere in un
quartiere come S. Valentino vuol dire accettare delle regole
imposte, consuetudinarie e soprattutto ingiuste, essere
etichettati come appartenenti al Bronx italiano. Vincenzo,
falegname, diabetico e in dialisi, non trova lavoro perché
malato. Antonio, ex drogato, è attualmente in debito con la
legge. Maria, è una giovane donna affetta da distrofia muscolare.
Una diciassettenne e un trentenne conviventi, lei è incinta e lui
agli arresti domiciliari. Cinque volti in mezzo a tanti altri che
hanno un nome e una storia simili alle migliaia di nomi e volti a
noi sconosciuti.
Dieci giorni a S. Valentino sono
stati ben pochi per comprendere fino in fondo questa realtà,
sentire sulla propria pelle (provare La COMPASSIONE) le difficoltà
di chi è "condannato" a vivere nel quartiere ma sono
stati abbastanza per renderci conto che in un paese democratico
come l' Italia esista la Povertà e la volontà di emarginare e
ghettizzare. Diritti come istruzione, sanità e dignità, che a
noi sembrano scontati, per molti nostri CONNAZIONALI sono ancora
oggetto di lotta e di umiliazione.
Al
centro del quartiere c'è una fonte che zampilla da circa venti
anni e viene anche da lontano. Dopo essere stato cacciato dal
Brasile, don Vito ha messo radici a S. Valentino, smuovendo la
terra e bagnandola della sua esperienza, della sua volontà, della
sua fede e della sua COM-PASSIONE. Ha reso l'oratorio di S.
Riccardo l'unico punto di incontro per i giovani e non solo del
quartiere. Vincenzo costruisce con il legno bomboniere e aiuta nei
lavori di falegnameria. Antonio (nd. bello e bravo) è stato
affidato alla parrocchia e partecipa attivamente alla vita della
comunità. Maria e i due ragazzi non sono più lasciati a se
stessi, ma sono stati presi a cuori come il resto degli abitanti.
S.
Riccardo ci è sembrato il concretizzarsi della PACE
voluta
da don Tonino Bello vescovo di Molfetta. La Preghiera;
l'Audacia
di scommettere sui destini di chi è tagliato fuori in partenza;
la Convivialità
delle differenze che diventa Comunità; l'Esodo
da una facile discriminazione ad un "entrare nella città"
in mezzo alla gente, sono il "potere dei segni" che
devono diventare la nostra "spina dell'inappagamento" e
sfida per la quotidianità... perché ovunque poggiamo i nostri
passi crescano fiori!
Buon
cammino!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
Marta&Fra&Ghi
da Roma
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DAMMI
SIGNORE, UN’ALA DI RISERVA
(Parole
di Don Tonino Bello – Vescovo)
(musica
di Felice Spaccamento)
Voglio
ringraziarTi, Signore, per il dono della vita
Ho
letto da qualche parte
Che
gli uomini sono angeli con un’ala soltanto:
possono
volare solo rimanendo abbracciati.
A
volte, nei momenti di confidenza,
oso
pensare, Signore,
che
anche Tu abbia un’ala soltanto,
l’altra
la tieni nascosta,
forse
per farmi capire
che
Tu non vuoi volare senza di me;
per
questo mi hai dato la vita:
perchè
io fossi Tuo compagno di volo.
Insegnami allora, a librarmi con te,
perchè vivere non è trascinare la vita,
non è strapparla, non è rosicchiarla,
vivere è abbandonarsi come un gabbiano
all’ebbrezza del vento.
Vivere è assaporare l’avventura della libertà
Vivere è stendere l’ala, l’unica ala
Con la fiducia di chi sa di avere nel volo
Un partner grande come Te.
Ma
non basta saper volare con Te, Signore
Tu
mi hai dato un compito
Di
abbracciare anche il fratello
E
aiutarlo a volare.
Ti
chiedo perdono, perciò,
per
tutte le ali che non ho aiutato a distendersi.
Non
farmi più passare indifferente
Vicino
al fratello che è rimasto
Con
l’ala, l’unica ala
Inesorabilmente
impigliata nella rete
Della
miseria e della solitudine
E
si è ormai persuaso
Di
non essere più degno di volare conTe;
soprattutto
per questo fratello sfortunato,
dammi,
o Signore un’ala di riserva.
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