Castello
di Elmina, Ghana. Il chiasso dei bambini che giocano sulla
spiaggia e le urla del vicino mercato non penetrano il silenzio
spettrale di quel luogo. Nelle fetide pareti di quelle stanze
vivono ancora le anime di più di 100.000 valorosi Ashanti,
rapiti dalla loro terra, trasformati in bestiame ed imbarcati
verso il “nostro” nuovo mondo. In quella “porta del non
ritorno” c’e tutto un continente, stuprato tante volte
quanti sono gli anni dalla sua scoperta.
Quel
forte, così ben conservato, ora è patrimonio dell’Unesco,
ed è meta di pellegrinaggio per molti americani in cerca delle
loro origini e per qualche ghanese benestante. La guida è
ghanese e, nonostante ripeta ogni giorno la stessa filastrocca,
non è difficile notare la rabbia con cui spiega
dettagliatamente cosa dovevano sopportare i padri dei suoi
padri.
Come è potuto succedere? Come ha potuto
perpetrarsi per più di tre secoli, senza che nessuno alzasse un
dito, una pazzia collettiva di queste dimensioni?
E
allora si inizia a pensare che quei carnefici, in fondo,
appartenevano a generazioni che poco c’entrano con la nostra e
comunque riconducibili ad un passato “barbaro” in cui la
vita di una persona valeva davvero poco.
Ma
un ragazzo occidentale di allora era al corrente di ciò che
accadeva? Delle mostruosità dei viaggi nelle navi negriere?
Come poteva non indignarsi di fronte all’ attracco di
un “cargo umano” in quelle condizioni, nel porto della sua
città, magari dopo aver ascoltato una messa cantata ?
Anche
allora SERVIVANO BRACCIA per gli sterminati latifondi
americani E NON PERSONE.
Anche
allora, quando questo “sistema produttivo occidentale” era
in voga, le flotte con bandiera imperiale esercitavano un
controllo sulle navi negriere, che sebbene fossero funzionali
enormemente alla coltivazione del cotone americano, come oggi a
quella dei pomodori del Meridione o alle concerie del Vicentino,
non rispettavano i diritti umani. Quindi i negrieri, avvistata
la bandiera di sua maestà, si disfacevano del carico illegale
senza lasciare traccia.
Anche
allora, in “carrette del mare” ed in condizioni igieniche
spaventose, donne stremate partoriscono assistite da una
moltitudine di occhi indiscreti.
Anche
allora, persone senza scrupolo si arricchivano col trasporto del
bestiame umano.
Anche OGGI, tutto questo è accolto con la
stessa maledetta indifferenza.
E
così, fatta eccezione per qualche islamico pazzo sudanese, lo
schiavismo lo si crede morto e sepolto; un punto di partenza
incoraggiante per quest’alba di millennio.
Ma
il mondo è ancora malato, soffre ancora degli stessi sintomi.
Si nega che il virus sia quello, ma allo stesso tempo si adotta
la stessa terapia.
Ciò che si nega, o peggio si trascura, è che
stipati dentro le “carrette del mare” di oggi, ci sono
persone COSTRETTE a partire, che lasciano situazioni invivibili,
e che peraltro garantiscono il nostro benessere.
Sono
il sasso su cui il nostro “mulino bianco” può incepparsi e
smettere di portare acqua da una parte sola. Sono una minaccia:
alla sicurezza delle nostre città, al nostro posto di lavoro,
alla tranquillità delle chiacchiere domenicali fuori dalla
chiesa, alla catalessi nelle soste ai semafori, alla fedeltà
coniugale, alla crescita dei nostri figli.
I
giornali capiscono l’antifona e trasformano questa diffidenza
quasi fisiologica in una perversa operazione di marketing in cui
queste persone perdono il proprio nome e la propria storia per
diventare in prima pagina “un albanese, una nigeriana, un
marocchino, una moldava” fuorilegge. Questa linea
scandalistica adottata da molti giornali locali (i più letti)
soddisfa pienamente la nostra morbosa curiosità e la nostre
spontanee semplificazioni e (nella più rosea delle ipotesi)
purtroppo plasma il nostro pensiero
civico e politico.
Ogni
volta che Tringa
invece, legge quei titoloni sugli “albanesi”, s’indigna
e…s’incazza. Lei è arrivata dall’Albania quasi dieci anni
fa perché lì, non ci poteva più stare. E’ albanese, conosce
l’Albania e soprattutto ama l’Albania.
E
continua ad amarla e a sognarla migliore anche da qui, dalla
“terra promessa”
da
televisioni bugiarde.
Come i nostri “maccaroni” americani degli anni ’20, gli
emigrati di oggi
sopravvivono tra diffidenza e precarietà. E come loro si
cercano, si uniscono, riscoprendo
l’amore per la loro terra e per radici comuni che forse
pensavano di non avere.
Tringa
sente l’esigenza di organizzare una volta all’anno la festa
Albanese, uno dei momenti più importanti per questa gente.
Ora
conosce bene anche l’Italia e gli
italiani…..“relativamente” brava gente.
La
percezione che si ha, ascoltando le sue parole, è di avere di
fronte una persona in prima linea, che si scontra tutti i giorni
contro la diffidenza e l’ignoranza italiana e la difficoltà
di coinvolgimento degli albanesi, immersi completamente nel
problema della sopravvivenza quotidiana.
Nessuno
più di lei può capire l’ingiustizia del disegno di legge
Bossi-Fini……perché
grazie alla sua fede e alla sua lunga esperienza da
“extracomunitaria” Tringa è riuscita a crearsi una
coscienza civile e politica che non può che arricchire un
contesto come il nostro, così arido di sostanza e così sazio
di parole.
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